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Messaggi del 15/12/2023

Il suo riscatto

Post n°3947 pubblicato il 15 Dicembre 2023 da namy0000
 

2023, Scarp de’ tenis, ottobre

Il sorriso di Matteo ripaga gli sforzi di chi ha creduto nel suo riscatto

Quando un essere umano cade dalla nave della normalità e onda su onda, nella notte buia delle emozioni più dolorose, dell’isolamento, il mare lo porta via, non è automatico credere che ci sia una stupenda isola ad aspettarlo alla deriva, come racconta la canzone di Paolo Conte. Eppure…

Nella notte della sofferenza dell’anima, per chi resta a bordo, scatta l’allarme, si cerca il disperso, si tenta il salvataggio. Ma quando il mare è molto grosso e la tempesta picchia più forte, può nascere, soprattutto nei più prossimi al naufragio, un senso di terrore, di impotenza e di paralisi, che mette a dura prova le forze rimaste. Mentre le correnti allontanano sempre di più tra loro le persone care, non rimane, a volte, che il rifugio in una vicinanza silenziosa, paziente, fragile, amorevole, intrisa della speranzadi rivedere, magari a sprazzi o definitivamente restituito dal buio, il volto di colui che vagava in balìa delle onde.

Abbiamo incontrato Matteo e ascoltato la sua incredibile e meravigliosa avventura. «La prima volta che ho sentito parlare di Caritas è stato da mia mamma, circa due anni fa. Stavo male. Dopo aver abbandonato la scuola, dove non mi trovavo più a mio agio e avevo litigato con tutti, vivevo isolato in camera mia. Amici non ne avevo più. Abbandonato anche il calcio e la mia squadra. Con i miei familiari il più delle volte litigavo. Anche duramente. Ormai, io e gli altri eravamo come abitanti di due mondi paralleli».

Come è avvenuto l’incontro con Caritas?

«Mia madre aveva raccontato di me, con un certo dolore e immagino non senza qualche lacrima, a un suo amico che ci lavorava. I miei familiari le avevano provate tutte, rivolgendosi a medici e specialisti e perfino alle forze dell’ordine: non ero un tipo facile, allora. Dopo averla ascoltata, lui le disse che non avrebbe saputo bene come aiutarla, ma le suggerì di chiedermi se mi sarebbe piaciuto fare un po’ di volontariato nella struttura in cui lavorava. Secondo lui mi avrebbe fatto bene. Mi sarei occupato del verde in un luogo molto bello, una villa in collina, tra ulivi, api, lavanda e poi lepri, volpi e cerbiatti e tanta, ma veramente tanta, erba da tagliare. Qualche volta avrei potuto aiutarlo anche in cucina (la mia passione) per preparare qualche pranzo ai gruppi che utilizzavano la struttura. Le disse anche che avrei condiviso quell’esperienza con alcuni ragazzi veramente straordinari, che si trovavano là in regime di pena alternativa al carcere, ma le rassicurò che si trattava di ragazzi in gamba e molto tranquilli».

Quale fu la tua reazione?

«Accettai d’impulso, non so neanch’io perché. Passai mesi veramente stupendi. I ragazzi con cui lavoravo mi volevano bene. Mi coinvolgevano, scherzavano spesso con me e mi davano molta sicurezza. Il nostro tutor si assicurava che il lavoro non fosse mai troppo stressante per nessuno e che io, in particolare, non mi stancassi troppo, che mi riposassi se lo desideravo. Ma non solo, mi incoraggiava a stendermi sul prato ad assaporare la bellezza della natura, il cielo, i colori, i suoni, i profumi e ogni tanto, con una serietà piena di ironia, mi ricordava anche di fare qualche sorriso e, ancora, mi esortava sempre a salutare le persone che incontravo, guardandole negli occhi e sorridendo. Scherzando, mi faceva degli esempi per farmi capire come dovevo fare».

Ma fare volontariato non ti bastava…

«Infatti. Anche se là stavo bene, fare il volontario mi faceva sentire un po’ un diverso. Qualcuno, fuori da quell’ambiente mi prendeva in giro, mi dava dello sfigato, come se tutta quella esperienza fosse la conferma che io non ero altro che uno scarto. Così abbandonai quell’esperienza e me ne andai a Teneriffe in cerca di lavoro come aiuto cuoco. Fu un disastro. Tornai a casa ed ebbi una crisi abbastanza grave. Fui ricoverato in psichiatria due settimane».

Dev’essere stata dura…

«Fu come cadere con la faccia a terra proprio mentre stavo cercando di rimettermi in piedi. Lo psichiatra che mi prese in cura mi chiese di parlargli un po’ di me. Quando gli raccontai dell’esperienza di volontariato in Caritas, d’accordo con me e la mia famiglia, si interessò per farmi riprendere quel percorso».

Come fu ritornare?

«Bellissimo. Tutti furono molto felici di rivedermi. C’erano nuovi ragazzi. Alcuni che avevo conosciuto non c’erano più, avevano terminato la loro pena, erano liberi. Fui contento per loro».

Ma non eri scappato da quella situazione?

«In quel momento lo accettai. Caritas riuscì poi ad accedere a dei fondi della Regione per dei tirocini di formazione retribuiti per persone in situazione di svantaggio sociale, in cui fui inserito. Per me fu stupendo. Potevo lavorare, svolgere le mie mansioni e imparare cose nuove, percependo un vero stipendio. Questo mi faceva sentire fiero di me, orgoglioso».

Che cosa hai imparato da questa “avventura”?

«Ho capito che solo incontrando le persone è possibile conoscerne veramente le qualità. Ho imparato, infine, che fare il volontario ti fa stare bene, ti fa bene».

Pensi mai al futuro?

«Per ora è un po’ presto per fare progetti. Il mio percorso di guarigione non è terminato. Sto aiutando nell’azienda di famiglia, consegno la merce insieme ai nostri autisti. Ho avuto un colloquio di lavoro come aiuto cuoco in una grande azienda della ristorazione collettiva della mia città, sono fiducioso. Nel tempo libero faccio ancora il volontario nella cucina della mensa dei senzatetto della Caritas cittadina. È un ambiente che mi piace molto, è come una grande famiglia felice, una super compagnia di amici, con gli alti e bassi della vita. Spero di poter aiutare chi è meno fortunato di me».

 
 
 

La cultura dei cercatori

2023, Avvenire 14 dicembre

Charles Taylor: «L'uomo di oggi cerca risposte. Ma fatica a trovarle»

Viviamo in un’epoca in cui le persone si pongono molti interrogativi e trovano molto difficile darsi delle risposte: è un dato di fatto che in alcune parti dell’Occidente tutto ciò stia generando una forte e significativa crisi soprattutto tra i giovani. In particolare, la sensazione è che essi non siano certi di quale debba essere l’orientamento e il significato della loro stessa vita: sono confusi e, quel che è peggio, non vengono incoraggiati a cercare. Molto spesso, inoltre, si constata questo fenomeno assai preoccupante: i giovani non comprendono nemmeno cosa li renda infelici o provochi il loro disagio. Dal momento che il problema non è stato affrontato adeguatamente, adesso bisogna fare i conti con una situazione ancora peggiore: i giovani pensano che vi sia qualcosa di sbagliato nella loro vita, ma non riescono nemmeno a portare alla luce questo disagio, che è molto diffuso, in particolar modo, tra gli adolescenti. La situazione è peggiorata in modo considerevole nel corso della pandemia a causa dell’isolamento e del senso tangibile di abbandono da loro sperimentato. Alcuni di loro, tuttavia, riescono a immaginare l’orizzonte di una vita piena di significato e ne sono molto felici; sono molto bravi a fare qualcosa e desiderano diventare medici, avvocati, politici. Certamente vi sono diversi modi di superare la crisi, ma la possibilità di smarrirsi strada facendo e di non trovare nessun modello nella vita dei propri genitori (dal momento che si è molto diversi da loro), dei propri colleghi, o dei propri compagni di scuola (che hanno preso strade diverse) crea un grande disorientamento e genera un disagio, un’emergenza, un problema per il quale siamo chiamati a trovare nelle nostre società dei punti di incontro per elaborare soluzioni condivise. Abbiamo sempre più bisogno di gente che, in un modo o in un altro, sappia relazionarsi con i giovani e scoprire il loro valore. Persone di questo tipo potrebbero essere, ad esempio, coloro che sono coinvolti nella formazione sportiva, a patto che non si tratti solo di bravi allenatori di calcio, dal momento che devono saper offrire ai giovani un indirizzo e quel tipo di integrità che possano “salvarli”, perché in grado di metterli in movimento. Penso che questa situazione rappresenti una delle più grandi crisi, così come una delle più grandi sfide della nostra epoca. Riassumendo quanto detto, credo che la crisi possa generare qualcosa di più profondo, in grado di risolvere la crisi stessa.

La crisi è causata dal fatto di essere stati sordi e insensibili a qualcosa di importante e può essere superata solo quando si affronta questo limite, quando si decide di fare i conti con quella domanda che l’ha provocata. La condizione di crisi si riflette nella descrizione molto diffusa di quello che la gente prova quando dice di “sentirsi bloccata”, questa situazione si riscontra in particolare tra quei “giovanissimi”, i quali non sono stati abbastanza fortunati da trovare la loro strada e sperimentano un profondo senso di disperazione. Questo è un aspetto negativo della nostra epoca: nel passato, anche quando si attraversavano momenti di ribellione totale, veniva sempre offerta una possibilità di correzione, che era molto chiara. È qualcosa che spesso non si dà, al giorno d’oggi: questo limite e questa insufficienza si esprimono attraverso espressioni come “non so dove andare”, “non so che cosa sia veramente significativo”, “non so su cosa costruire la mia vita”. Tutto questo è molto brutto ed è stato reso peggiore dalla pandemia. In alcuni casi tale disorientamento porta addirittura al suicidio. In un certo senso, ci troviamo di fronte a una nuova sfida, che consiste nell’intercettare il bisogno dei giovani e tenere aperte delle possibilità per loro. Penso che le diverse religioni siano delle vie, dei percorsi culturali possibili per affrontare questa sfida. Di certo ce ne sono anche altri. Legittimamente molte persone possono sentirsi assai motivate da profonde, serie visioni etiche e politiche senza credere in Dio. Pur non concependo, nella loro vita, un posto per Dio e per la religione, essi manifestano una profonda consapevolezza della direzione intrapresa nella loro ricerca e si rivelano interlocutori spesso molto suggestivi e coinvolgenti per chi è animato da una fede religiosa perché, ancora una volta, è possibile riscontrare in loro un’analogia con il nostro percorso di ricerca o una direzione parallela alla nostra.

Ci sono quindi, di fatto, molti percorsi differenti. Tali percorsi esprimono non solo una ricerca di senso, ma anche di autenticità. Anche se non vi è alcuna stretta, necessaria correlazione concettuale tra l’etica che celebra l’autenticità e la secolarizzazione, è un dato di fatto che nelle società occidentali questa correlazione sia in atto da circa un secolo. Essa emerge innanzitutto nella nostra visione dell’arte. Da circa duecento anni, infatti, è sempre più importante manifestare un carattere di originalità nelle creazioni artistiche, rigettando la semplice ripetizione di schemi precedenti. Successivamente, nel corso del XIX secolo, la nozione di originalità ha assunto un ruolo sempre più centrale e adesso costituisce per noi una delle chiavi di lettura dell’intera evoluzione culturale dall’Ottocento ai giorni nostri. Lungo il percorso, questa nozione ha superato i confini dell’arte estendendosi via via alla vita nel suo complesso. In quest’epoca nasce la seguente esigenza: “voglio trovare la mia direzione, voglio trovare ciò che veramente mi esprime”. Sono certo che questa prospettiva, secondo la quale anche la vita spirituale, non solo quella artistica, sarebbe caratterizzata da un orientamento personale (non solo per ciò che concerne la forma della mia vita, ma anche – a livello più profondo – la sua direzione religiosa e spirituale), abbia contribuito a inaugurare questo cammino. Non possiamo rinvenire dei riferimenti filosofici significativi che spieghino questo indirizzo (secondo il quale ciascun essere umano avrebbe una sua “propria misura”) dal momento che, dal punto di vista filosofico, esso è stato formulato in tempi relativamente recenti, ossia alla fine del XVIII secolo. Penso che questo sviluppo della nostra epoca confluisca con molta naturalezza in quella che ho definito come “la cultura dei cercatori”.

 
 
 

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