Creato da namy0000 il 04/04/2010

Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi di Ottobre 2018

Come i semi nei campi

Post n°2833 pubblicato il 31 Ottobre 2018 da namy0000
 

“È indispensabile che ognuno resti com’è, eliminando qualche difetto e potenziando le proprie virtù, ma non si omologhi agli altri.

Come le stelle nel cielo: sono miliardi e tutte diverse.

Come i granelli di sabbia del mare: sono miliardi e miliardi che, guardati al microscopio, sono uno diverso dall’altro.

Come i semi nei campi: sono miliardi e miliardi, uno diverso dall’altro, ma vivono insieme lo stesso spazio”.

Educhiamo i nostri figli a tenere presente che “esistono tanti modi di essere una persona – Arvida B.”.

«Ma perché sono nata tutta scura? A scuola mi dicono cacca». La domanda è inequivocabile e la fa una bambina al suo papà. La bimba, napoletana, è presa di mira dai compagnetti di scuola per via del colore della sua pelle. La difende solo “Antonio”, che le dice che è bella. La clip, diffusa da Selvaggia Lucarelli sui social, è molto tenera e spiega quanto possono far male le parole. «In un clima così feroce, in cui il razzismo è sempre più sdoganato, questo video è più illuminante ed efficace di mille editoriali. Papà Vito parla con la sua bimba degli amichetti che la chiamano cacca e lei gli chiede perché sia nata marrone. Il tutto è di una tenerezza assoluta e definitiva. P.s. Antonio, chiunque tu sia, ti vogliamo bene», conclude Selvaggia.

Perché come volevi essere?

Bianca, come Antonio

Non è vero tu sei bellissima così. Te lo dice papà (Giornalettismo, 30 ott. 2018)

 
 
 

I figli che paiono di nessuno

Post n°2832 pubblicato il 30 Ottobre 2018 da namy0000
 

2018, Marina Corradi, Avvenire, 29 ott.

Desirée Mariottini. Drogata, violentata da più uomini per molte ore e lasciata agonizzare, sola. Nel centro di Roma, a quartiere San Lorenzo. Non è morta per una disgrazia, Desirée, ma è stata attirata in trappola e violentata dai suoi aguzzini per una notte intera. 

pure in una famiglia divisa e tormentata, la sua solitudine fosse così assoluta da smettere di andare a scuola, da drogarsi, da aggirarsi da sola di notte fra gli spacciatori: fino al massacro, sempre sola.

la bambina che pure, messa al mondo da una mamma appena quindicenne, era stata chiamata, fra mille nomi possibili, "desiderata".

Sono domande che ti lasciano zitta, e tuttavia avverti come uno scricchiolio nelle tue stesse fondamenta.

La libertà a sedici anni è così acerba, soprattutto se sei cresciuta in una famiglia azzoppata, che comunque questa sedicenne violata e abbandonata agonizzante è una figura del dolore innocente. Il più grande dei misteri, il più intollerabile.

C’è poi una terza via, forse: lasciare che la domanda ci insegua, ci incalzi, infine si depositi in noi. Lasciare che ci cada dentro come un macigno e, finito l’eco del boato, si faccia un più largo silenzio. Un silenzio e un vuoto. Come una povertà assoluta. Come la mano tesa di un mendicante, che chiede la carità. Accogliere in sé questo silenzio e vuoto, come una cavità che ci si apre nel petto: farne una preghiera. Farne un luogo in cui Dio possa trovare spazio in noi. («L’anima non è che una cavità che Egli riempie», ha scritto Clive Staples Lewis, grande scrittore cristiano).

E domandare che in questo spazio, in questo tetto che, pure senza capire, gli lasciamo, Dio ci renda più generosi e più capaci di vedere. Di vedere gli altri, ogni sconosciuto altro. Capaci di scorgere, nelle famiglie, nelle scuole, negli oratori, le Desirée che sbocciano sole, senza nessuno a proteggerle, come certi fiori sulle massicciate delle ferrovie, a maggio; di riconoscerle, e prendercene cura come fossero, i figli che paiono di nessuno, figli nostri.

 
 
 

Siate pastori per chi non crede

Post n°2831 pubblicato il 29 Ottobre 2018 da namy0000
 

Lettera ai seminaristi da parte di don Antonio Mazzi. Siate pastori per chi non crede. Da prete di strada, quando il Papa vi esorta a evitare il clericalismo, sento aria di casa. Seminaristi, amici carissimi, sono l’ultimo dei preti, forse addirittura prete così così, che da tempo vive tra la gente perché la Provvidenza mi ha preparato negli anni Ottanta il Parco Lambro e il terrorismo ambrosiano…

E quando papa Francesco parla, come sa parlare lui che in due frasi sistema mezzo mondo, non so se godo perché sento aria di casa o perché l’ora è giunta: ‹‹A me piace dire che voi dovete essere preti del popolo di Dio, cioè che non prediligono il clericalismo. Perché, lo sapete bene, Cristo bastonava forte il clericalismo al suo tempo››. È una delle frasi che vi ha detto il Papa durante l’incontro con i seminaristi lombardi…

La società ha bisogno profondo di Dio, di un Dio povero, vero, autentico. Non meravigliatevi se vi dico che i giovani di oggi sentono il bisogno di questo Dio più dei giovani del mio tempo. Nel Veneto eravamo cattolici osservanti e assidui frequentatori della Messa domenicale, ma era più la tradizione e l’abitudine che la fedeltà evangelica a portarci in parrocchia. I giovani che hanno camminato da Perugia ad Assisi sono carichi dentro. Hanno un fuoco difficile da definire e da interpretare, ma ce l’hanno. Forse non li vedi in oratorio e in chiesa, ma preti giovani come voi con loro fanno centro.

Scrive il teologo brasiliano Rubem Alves: ‹‹Siamo migranti, senza riposo, senza sosta, sempre in cammino. Non c’è luogo dove posare il capo. Esiliati, costruiamo i nostri nidi sugli alberi del futuro››.

Ci sono alcuni versi di David Maria Turoldo che mi commuovono ogni volta che li leggo. Li aveva scritti nel 1947 davanti all’”immobile” Lago Maggiore: ‹‹Ma quando facevo il pastore allora ero certo del tuo Natale. I tronchi degli alberi parevano creature piene di ferite; mia madre era parente della Vergine, tutta in faccende, finalmente serena. Io portavo le pecore fino al sagrato e sapevo d’essere uomo vero del tuo regale presepio››.

Collegando gli inviti del Papa e le riflessioni di Turoldo, vi auguro che l’ideale della vostra vocazione sia quello di testimoniare sia per i fratelli che non credono sia per i fratelli che si sono persi tra le illusioni di un mondo disorientato. Perché il nostro è un Dio che, prima o poi, ci rimette sulle spalle tutti e porta a casa pecore e pastori. Buon lavoro! (Antonio Mazzi, FC n. 43 del 28 ott. 2018).

 
 
 

Come lavorano le agenzie di rating

Post n°2830 pubblicato il 28 Ottobre 2018 da namy0000
 

Nelle ultime settimane sono tornate di attualità le agenzie di rating, le grandi società internazionali che valutano le obbligazioni emesse da nazioni e aziende. Le ragioni di questo ritorno di interesse sono le turbolenze sui mercati finanziari internazionali e i nuovi timori sulla sostenibilità del debito pubblico italiano – tradotto: sulla capacità effettiva dell’Italia di restituire i soldi a chi glieli presta – causati dalla manovra economica che la maggioranza formata da Lega e Movimento 5 Stelle si prepara ad approvare. Come accade sempre in queste circostanze, i timori sulla tenuta dei conti pubblici italiani si riflettono sulle valutazione da parte delle agenzie di rating. Così venerdì della settimana scorsa, mentre le borse erano chiuse per il fine settimana, una delle più grandi agenzie di rating al mondo, Moody’s, aveva abbassato la sua valutazione dei titoli di stato italiani, portandola a solo un gradino sopra il livello definito “junk”, spazzatura: obbligazioni così rischiose da non essere degne di essere acquistate. Ieri un’altra grande agenzia, S&P, ha mantenuto la sua valutazione dei titoli italianima ha abbassato le previsioni per il futuro da “stabili” a “negative”. Il giudizio della terza grande agenzia di rating, Fitch, è atteso invece per il prossimo gennaio.

Diversi esponenti del governo hanno criticato il giudizio emesso da Moody’s. Luigi Di Maio ha parlato di “pregiudizio” nei confronti del nostro paese, mentre Matteo Salvini ha scritto che le agenzie hanno fatto “sconti” a Francia e Spagna, mentre si accaniscono sull’Italia. Altri sostengono che il giudizio delle agenzie di rating si possa ignorare poiché in passato quelle stesse agenzie avevano dato ottime valutazioni ai titoli tossici che portarono all’esplosione del sistema finanziario statunitense nel 2008. Ma al di là delle prese di posizione retoriche sui social network, diversi esponenti del governo, come il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il sottosegretario Giancarlo Giorgetti e lo stesso Di Maio sembrano cercare un dialogo con quelle stesse agenzie che spesso attaccano. La ragione per cui le agenzie di rating sono trattate con tanta cautela persino da questo governo si spiega con il funzionamento e il ruolo fondamentale che hanno assunto nel mercato del credito mondiale. Questo ruolo, però, non è probabilmente quello che molti credono sia.

Cosa fanno le agenzie di rating
Le agenzie di rating assegnano giudizi di qualità sui prodotti finanziari, in modo da fornire delle linee guida a quegli investitori che non hanno tempo e risorse per svolgere analisi indipendenti: sono insomma società private che emettono valutazioni e pareri che, di base, non hanno quasi nessuna conseguenza. Il peso di queste valutazioni – e quindi le loro conseguenze – dipende quasi esclusivamente dal peso che decidono di dare a questi pareri gli investitori (risparmiatori, fondi pensione, società finanziarie) nel momento in cui valutano se e quali titoli comprare. Tra i prodotti finanziari che vengono valutati dalle agenzie di rating ci sono soprattutto obbligazioni private, titoli emessi dagli stati, ma anche strumenti finanziari molto più complessi, come i famosi derivati.

A partire dagli anni Ottanta le agenzie di rating hanno modificato profondamente il modo di fare affari: invece che dagli investitori, hanno iniziato a farsi pagare da chi emetteva i prodotti finanziari. Da più di un trentennio, quindi, sono le società che vogliono emettere una certa obbligazione o un prodotto finanziario che pagano i controllori che ne daranno un giudizio: una situazione di apparente conflitto di interessi. In realtà questo metodo ha quasi sempre funzionato bene. Per le “tre sorelle”, Moody’s, S&P e Fitch, che da sole controllano il 95 per cento del mercato del rating, il guadagno che può venire dall’assegnare valutazioni favorevoli è molto inferiore al danno reputazionale che avrebbero se si venisse a sapere che i loro giudizi non valgono nulla. Le grandi agenzie di rating, infatti, devono parte del loro successo proprio al fatto che i loro giudizi sono ritenuti affidabili, così tanto che spesso sono stati incorporati nel funzionamento dei mercati finanziari. I grandi fondi pensione, per esempio, che devono gestire centinaia di milioni di euro nella maniera più prudente possibile, sono obbligati per statuto ad acquistare soltanto prodotti finanziari che abbiano un certo rating, per tutelare i propri aderenti. Spesso questi requisiti in termini di rating sono incorporati anche nei regolamenti e nella legislazione pubblica: all’interno del programma Quantitative Easing, per esempio, la BCE può acquistare soltanto titoli che hanno ricevuto da almeno un’agenzia un giudizio superiore a “junk” (oltre alle “tre sorelle” ci sono circa altre 40 agenzie di rating riconosciute ufficialmente dalle autorità europee).

Le agenzie e il debito pubblico
Il modo in cui le agenzie decidono questi rating differisce leggermente tra privato e pubblico. Nel caso dei privati, la banca o la società che richiede un rating riceve una visita dagli impiegati dell’agenzia che eseguono un’ispezione più o meno accurata dello stato della società. Nel caso delle banche, la parte principale dell’indagine consiste nell’esaminare i documenti prodotti dalle ispezioni periodiche da parte della Banca d’Italia. Nel caso degli Stati, invece, il lavoro delle agenzie si svolge quasi completamente su dati pubblici. Come hanno ricordato Conte e Di Maio in questi giorni, esiste naturalmente un dialogo tra agenzie e governi, ma per il resto le agenzie si muovono sulla base di informazioni a cui tutti hanno già accesso. E questo porta spesso a un fenomeno curioso. Lunedì, per esempio, il primo giorno di contrattazione dopo il downgrade di venerdì scorso, lo spread (cioè il principale indicatore che mostra la stabilità dei titoli italiani) invece che crescere è sceso di quasi trenta punti. La ragione è semplice: raramente i giudizi delle agenzie di rating sui titoli di stato influenzano i mercati. In gergo si dice di solito che le agenzie di rating sono “dietro la curva”: i loro avvisi sulla qualità di un certo prodotto finanziario si basano su elementi pubblici, noti a tutti, che quindi influenzano i mercati prima che l’avviso venga pubblicato. Insomma, proprio perché operano sulla base di dati pubblici e criteri trasparenti. Nel caso dell’Italia lo spread si era già alzato nelle settimane precedenti al downgrade, poiché tutti gli investitori economici erano già a conoscenza dei dati su cui Moody’s ha basato il suo giudizio (cioè in sostanza il contenuto della 
nota di aggiornamento al DEF e le indiscrezioni su cosa conterrà la manovra economica per il 2019). Le agenzie di rating, quindi, non sono importanti perché influenzano i mercati, anzi: quasi nessun investitore saggio aspetta il loro giudizio per decidere se vendere o comprare. Ma avere un rating superiore al livello “junk” è fondamentale affinché i propri prodotti finanziari (e nel caso dell’Italia, i propri titoli di stato) possano continuare a essere acquistati da una serie di importanti investitori istituzionali. Visto che probabilmente il prossimo gennaio l’Italia avrà un rating solo di poco superiore al “junk” per tutte e tre le principali agenzie, è il prossimo giro di giudizi quello che dovremmo osservare con più attenzione.

E i titoli tossici?
Una delle principali ragioni per cui vengono criticate le agenzie di rating è che, prima della crisi del 2008, avevano dato ottime valutazioni ai titoli derivati che successivamente si sarebbero dimostrati prodotti tossici. Fu effettivamente un caso gravissimo, in cui il potenziale conflitto di interesse insito nel loro modello di business si manifestò in tutta la sua forza. Ma fu anche un caso particolare e, per il momento, quasi unico. All’epoca le cose andarono più o meno così. Nel corso degli anni Duemila il mercato dei mutui americani crebbe moltissimo e le banche, piccole e grandi, cercarono metodi sempre più elaborati per guadagnarci più soldi possibile. Uno di questi metodi fu la cosiddetta “cartolarizzazione” dei mutui. In sostanza, un semplice prestito concesso a una famiglia per l’acquisto di una casa veniva impacchettato insieme a migliaia di altri prestiti per creare un unico prodotto finanziario, da vendere ad altri investitori. Questo prodotto, molto sicuro perché basato su beni reali come una casa, veniva poi usato, per esempio, come garanzia per ottenere altro denaro in prestito. Non tutti i mutui però sono uguali: ce ne sono di sicuri e meno sicuri. Impacchettando in uno stesso prodotto, per esempio, 80 mutui sicuri e 20 mutui rischiosi, si otteneva comunque un prodotto all’apparenza ben garantito. Così, quando le grandi banche chiedevano una valutazione per questi prodotti, le agenzie di rating assegnavano loro valutazioni sempre molto alte. In pochi anni questo mercato divenne gigantesco e le divisioni delle grandi banchi d’affari che si occupavano di cartolarizzazione dei mutui divennero di gran lunga le più remunerative.
Due fenomeni contribuirono a portare la situazione fuori controllo: da un lato la deregolamentazione delle attività finanziarie che coinvolse in particolare Stati Uniti e Regno Unito, dall’altro l’enorme iniezione di liquidità nei mercati finanziari causata in particolare dalle politiche monetarie della banca centrale statunitense. Il risultato fu che aumentò sempre di più la quantità di mutui con poche garanzie che venivano concessi, e che le banche si indebitarono sempre di più per entrare in questo mercato. La agenzie di rating avrebbero potuto lanciare qualche segnale d’allarme, ma le basi di questo mercato apparivano solide. Dopotutto i complessi titoli che giravano per i mercati erano pur sempre garantiti da beni reali: le case degli americani. Scavando più a fondo, forse, le agenzie avrebbero potuto accorgersi che molti di quei mutui erano in realtà più rischiosi di quanto apparivano, e che alcuni piccoli operatori avevano iniziato a concederne senza più tenere conto della solidità patrimoniale di chi si indebitava. Qui venne fuori la debolezza del modello di business delle agenzie di rating relativamente ai privati. Il volume d’affari generato dal mercato dei mutui, e il fatto che fosse concentrato in poche banche d’affari di Wall Street, creò un forte incentivo a non indagare più di tanto. Il risultato fu che quando la bolla del mercato immobiliare scoppiò, come era inevitabile che avvenisse, la valutazione eccellente di quei titoli perse ogni significato. Non è affatto sicuro che da allora le agenzie di rating abbiano cambiato i loro metodi in modo da rendere impossibile il ripetersi di un episodio simile, e non sappiamo se da qualche parte, dietro valutazioni eccellenti, si nasconda una nuova bolla. Quello che è certo, però, è che quella del 2008 fu una situazione peculiare, causata da molti fattori concomitanti, e che poco o nulla ha a che fare con le valutazioni che quelle stesse agenzie rilasciano oggi sui titoli di stato sovrani, basandosi su dati pubblici e seguendo, e quasi mai causando, i giudizi che mercati e istituzioni internazionali hanno già emesso. (Il Post, 27 ott. 2018). 

 
 
 

La splendida legge del resto

Post n°2829 pubblicato il 28 Ottobre 2018 da namy0000
 

Quando Rabbi Bunam stava per morire, sua moglie piangeva. Egli disse: che piangi? Tutta la mia vita è stata soltanto perché imparassi a morire
Martin Buber. Storie e leggende chassidiche

La Bibbia è molte cose assieme, e tutte importanti. Ogni generazione scopre in essa nuovi significati, e ne dimentica altri. Essa è anche una mappa spirituale per orientarsi nelle vicende misteriose di chi segue seriamente una voce. Non c’è infatti luogo migliore dove guardare e cercare compagnia e luce durante questi cammini. La storia e le narrazioni bibliche sono preziose e feconde anche per capire e spiegare le esperienze collettive, le promesse, gli esili, le morti e le resurrezioni di quelle comunità, movimenti e organizzazioni nati attorno a un carisma, religioso o laico. In particolare, è una mappa preziosissima e per molti versi unica per comprendere e rischiarare la notte delle grandi crisi collettive, anche se raramente viene letta e utilizzata da questa prospettiva, e così risorse essenziali vengono sprecate. Tra i molti tesori per le comunità carismatiche che restano ancora in massima parte nascosti e inutilizzati, c’è la logica profetica del resto, che attraversa molti testi biblici. Particolarmente sviluppata e potente la troviamo nel libro di Geremia, inserita dentro un contesto di grandissimo rilievo sapienziale e teologico. Questo profeta aveva ricevuto da YHWH il compito di profetizzare la fine di un tempo storico, ma i capi e le guide religiose del suo popolo non vogliono ascoltarlo e lo discreditano. Geremia ode, vede e dice che i babilonesi arriveranno presto e che il popolo sarà sconfitto e poi deportato, che inizierà un esilio in terra straniera, che durerà settant’anni. Ma mentre lui annuncia con una tenacia infinita la fine, i falsi profeti, particolarmente abbondanti a Gerusalemme e ovunque e sempre, lo smentiscono, lo accusano di disfattismo, lo attaccano e convincono i capi a perseguitarlo per farlo tacere.

Geremia non dice che è finita la storia di salvezza, né che si è spenta la promessa; dice soltanto che è finita una storia, quella grande storia secolare del grande regno, che si è spenta una interpretazione della promessa, quella che la faceva coincidere con la grandezza e con il successo. Ma mentre annuncia la fine inesorabile di quel primo mondo, con altrettanta convinzione dice che "un resto tornerà" e la storia continuerà. Riuscire nelle comunità carismatiche e nelle Organizzazioni a Movente Ideale (OMI) a capire che la prima storia, quella storia meravigliosa che ci aveva fatto sognare a occhi aperti e vedere il paradiso, è finita, che è finita davvero, è un atto etico e spirituale particolarmente difficile, soprattutto nelle comunità carismaticamente più ricche e dalla grande storia. È quasi impossibile capire e accettare che sotto quelle rovine non è finita la nostra storia, ma che è finita una storia, che è terminata soltanto la prima parte del racconto. Come è anche arduo comprendere che se vogliamo che la stessa storia continui domani, oggi dobbiamo accettare che la sua prima parte è finita davvero, che dovremo attraversare l’esilio, e poi scrivere una seconda parte del racconto che ancora nessuno conosce; che la forma e i modi con cui avevamo vissuto la promessa collettiva – quei re, quella grandezza, quel successo, quelle liturgie, quel tempio, quell’apparato religioso e quell’amministrazione del culto – non torneranno più, ma la storia continuerà perché la veste che la nostra fede aveva indossato nella prima parte del percorso non era l’unica, era solo la prima. Un giorno, per salvarsi, si deve capire che la verità di una esperienza carismatica collettiva non sta nel continuare a crescere e a raccogliere successi come nel passato, ma nel diminuire, nel diventare piccoli, sconfitti, dimenticati e abbandonati, purché quella distruzione generi un resto fedele.

Ma uno dei misteri più profondi e decisivi delle esperienze spirituali collettive sta proprio nel non riuscire a riconoscere ciò che si attende da sempre quando giunge davvero. Perché aspettiamo un messia giungere a cavallo in un ingresso trionfale, e confondiamo la domenica delle palme con la domenica di Pasqua. Le comunità conoscono solo il presente e il passato, ed è quindi naturale che per comprendere i fatti nuovi usino le categorie e gli strumenti a disposizione, che sono quelli conosciuti e appresi nella bella stagione che sta tramontando. E così affrontano l’inverno con i panni estivi, e rischiano seriamente di morire di freddo. Tra le parole di ieri c’erano anche i panni invernali, parole adeguate ad affrontare i nuovi climi. C’erano anche la mangiatoia, la bottega del falegname, il piccolo gregge, il granello di senape, il no del giovane ricco; ma quando si diventa veramente piccoli e fragili queste piccolezze e fragilità vengono lette con in cuore il ricordo dei miracoli e della primavera di Galilea, e dimentichiamo le altre parole della piccolezza, che ora sarebbero la parte davvero preziosa dell’eredità. Quasi sempre nel patrimonio spirituale originario delle comunità è già presente la benedizione della sconfitta. Nei tempi dell’abbondanza e del successo quelle parole sulla forza della debolezza, quella saggezza del diventare migliori mentre diventiamo più piccoli, ci hanno commosso, convinto e aiutato a superare crisi personali. Ma quando le parole della buona fragilità diventano carne collettiva non vengono ricordate né riconosciute. Le avevano capite e valorizzate molte volte per leggere le nostre vicende individuali, ma ora non riusciamo a farle diventare luce per il presente e il futuro dell’intera comunità.

In realtà, in questi momenti basterebbe ascoltare i profeti che, se non sono stati già uccisi, fanno naturalmente parte della popolazione delle comunità carismatiche nei tempi delle crisi. Sono quelle persone che hanno per vocazione e compito la capacità di farci ricordare le parole giuste, e di donarci alcune poche categorie nuove indispensabili per comprendere e affrontare la nuova epoca. La prima categoria nuova che ci offrono è la rivelazione della inadeguatezza delle categorie con le quali ieri leggevamo la crescita e il successo, perché oggi sono obsolete e vanno cambiate. Questa è la buona notizia più importante, perché è la pre-condizione di tutte le altre. Poi ci dicono che ci attende il tempo dell’esilio, e infine che un resto tornerà. Sulle strade che portano a Babilonia e a Emmaus non dobbiamo imparare il senso delle tre tende del Tabor e delle parole del Sinai, ma quello della devastazione del tempio e delle tre croci del Golgota. Questi nuovi significati da imparare nelle strade della delusione sono declinazioni delle eterne parole dei profeti: questa storia è finita, ma non è finita la nostra storia, perché un resto tornerà. Ma perché il resto fedele continui la corsa, oggi dobbiamo accettare la realtà della fine e, soprattutto, non credere a chi ci dice che la crisi passerà e continueremo come prima. Perché, anche e soprattutto qui, sempre potente e convincente è l’azione dei falsi profeti che cercano di persuaderci che chi ci sta annunciando la fine non è un profeta da ascoltare, ma un ciarlatano e un nemico del popolo, perché diversamente da quanto annuncia presto ci sarà il grande miracolo che salverà noi e il nostro "tempio", e tutto tornerà come ieri. Ci portano evidenza empirica che in fondo le cose non vanno così male, che qua e là ci sono segnali di ripresa, che la grande crisi sta passando, e ci invitano a guardare avanti con il loro ottimismo (che è l’opposto della speranza biblica). Le consolazioni dei falsi profeti danno sensazioni piacevoli e non fanno sentire il dolore, perché sono l’oppio delle comunità; quelle dei profeti sono dolorose e spietate, ma sanano e fanno vivere.

Il popolo di Israele ha ascoltato i falsi profeti. Però un resto ha raccolto le parole dei profeti veri, e al ritorno dall’esilio non ha conservato i libri dei falsi profeti, ma quelli di Geremia e degli altri profeti. I profeti non sono ascoltati nel loro tempo, è questo il loro compito e destino; ma se un resto fedele salva le loro parole, la loro profezia vera potrà continuare. Il resto profetico non è allora un semplice gruppo di superstiti, né una élite di illuminati. Molte comunità hanno avuto superstiti, ma non hanno avuto un resto profetico. Questo è un resto credente, composto da quei pochi che nel tempo delle rovine e dell’esilio hanno continuato a credere nella stessa promessa che ieri si era rivestita di successo e gloria, e che quindi sa leggere la sconfitta e l’esilio come mistero di benedizione. È l’esegeta onesto delle molte parole delle comunità. È il germoglio che spunta sul tronco tagliato, e fa continuare la vita. È chi crede nel tempo della delusione che non ha creduto in un’illusione, perché l’illusione (che è reale) non era la promessa, ma pensare che essa coincidesse con il suo primo rivestimento di grandezza. È chi crede che quella fine è anche un nuovo inizio, che quel grido sta partorendo il suo futuro, tutto diverso. È il nome del figlio. Seariasùb, cioè "un resto tornerà", è anche il nome del figlio di Isaia (Is 7,3). Il resto fedele è il corpo risorto con le stigmate della passione, che restano perché erano vere. I falsi profeti non credono in nessuna resurrezione, ma cercano solo di riesumare il cadavere. Sono eredi dei maghi e degli aruspici egiziani che cercavano di replicare artificialmente le piaghe, ma le finte piaghe non preparano nessuna vera apertura del mare.

Infine, la meravigliosa legge del resto è anche una legge fondamentale del cammino esistenziale della persona. Partiamo da giovani credendo, amando e sperando una vita pura, mite, povera, coronata da tutte le virtù, e ci aspettiamo tutte le bellezze della terra e del cielo. Non saremmo mai partiti senza questa promessa vera e impossibile. Se abbiamo provato a restare un po’ fedeli a quella prima voce, da adulti e da vecchi scopriamo che solo un "resto" di quella promessa è rimasto vivo. Ci ritroviamo soltanto con un po’ di povertà, o con un po’ di mitezza, o con una speranza ancora viva nonostante le rovine del sogno. E un giorno capiamo che ci siamo salvati proprio per quel piccolo resto è vivo. Perché abbiamo fatto bene il nostro lavoro, perché siamo riusciti ad amare molto una sola persona invece di amare poco molte persone, o perché almeno una volta abbiamo avuto la fede per dire "vieni fuori" e un amico è uscito dal suo sepolcro. E poi impariamo che lì era tutta la promessa, custodita in quel piccolo resto credente e fedele. - l.bruni@lumsa.it (Luigino Bruni, Avvenire, 27 ott. 2018).

 
 
 

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