Creato da namy0000 il 04/04/2010

Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi di Settembre 2018

Non c'è posto per me

Post n°2800 pubblicato il 29 Settembre 2018 da namy0000
 

Uno studente del liceo “Brocchi” di Bassano del Grappa ha scritto sulla facciata della scuola queste semplici e disperate parole: « There’s nowhere for me to be ». In inglese, «Non c’è nessun posto per me». Si sente solo e abbandonato, ma sbaglia, perché son passati solo due giorni e intorno alla sua scritta è tutto un fiorire di risposte: «Non mollare», «Sono qui per te», «Non sentirti giudicato», «Non ti lasceremo solo»... Cosa vuol dire «non sentirti giudicato»? Vuol dire «non sentirti condannato», e cioè non credere che il tuo isolamento sia frutto di una condanna e di un processo, e dunque in definitiva sia giusto. Non sei stato giudicato, non sei stato condannato, il tuo isolamento è ingiusto, quindi non sei solo, noi siamo con te perché siamo come te.

Qualcuno commenta: «La scritta è di una ragazza, lo si capisce dalla grafia». Ma qualcun altro ribatte: «Solo un ragazzo poteva scavalcare la recinzione di notte, per arrivare alla parete della scuola». Dunque non si sa nemmeno se colui a cui si rivolgono sia un ragazzo o una ragazza. Perciò la scritta e le risposte hanno un valore universale, valgono per tutti i ragazzi e tutte le ragazze. Vorrei unirmi a quelli che rispondono, e dare anch’io una risposta allo sconosciuto studente che ha lanciato quel lamento. Scrivendo «non c’è nessun posto per me» voleva dire che ci sono altri che un posto invece ce l’hanno. Errore. Forse lui pensa ai grandi, consegnati alla storia, quelli che lui studia sui libri di scuola.

Inventori, scienziati, poeti, pensatori. Tutti grandi e noti, tranne lui, piccolo e sconosciuto. Tutti al loro posto, tranne lui, che non ha nessun posto. Tutti necessari al mondo, tranne lui, del quale il mondo non sa cosa farsene. Se pensa questo, sbaglia. Guardi i grandi poeti: quando avevano la sua età, il mondo non aveva bisogno di loro, sono stati loro che, lavorando e scrivendo, hanno creato nel mondo il bisogno di loro.

L’anonimo che sta male, o che muore, incarna tutti, e proprio perché non è nessuno può essere tutti. È la genesi del mito e del simbolo del Milite Ignoto, il soldato caduto da sconosciuto e perciò onorato da tutti. I compagni (di classe, d’istituto, di età, perché a scrivere i biglietti di risposta ci sono anche studenti venuti da altre scuole) che rispondono non gli rispondono per consolarlo, ma per consolarsi, non si rivolgono a lui come a uno strano o sfortunato o incomprensibile, ma come a un fratello, uno come loro: anche loro soffrono perché nel mondo non trovano un posto su misura.

L’idea che nel mondo non ci sia un posto dove stare può far nascere la voglia di uscire dal mondo. «Non pensarci nemmeno – scrive una ragazza –, ci ho pensato anch’io, ma credimi non è la soluzione». Parole giuste. Questa ragazza vuol dire che anche lei s’era trovata scesa a quel livello di sofferenza, ma ora non si trova più lì, dunque è questione di saper resistere. Ma se questa esperienza è diffusa, perché tanta solitudine? Tanto isolamento? Tanta sofferenza? Perché c’è poca espressione.

Tra i 15 e i 20 anni i ragazzi non sanno esprimersi. Non i compagni con le compagne, né tanto meno le compagne con i compagni, né con un genitore, né con un professore, né con un prete. Il professore d’Italiano potrebbe spiegare che da quel sentimento nasce tanta letteratura, il prete potrebbe spiegare che un ragazzo non è senza posto nel mondo, ma al centro.

I 15-20enni non si confidano, e hanno bisogno di confidarsi. Il gesto rivoluzionario che ha avuto quello che ha messo la scritta con lo spray sul muro della scuola, è stato di esprimersi, che è un bisogno di tutti. «Ti aspetto in stazione, vieni e cercami» gli ha risposto un compagno. E se ci andasse davvero, in stazione, e scoprisse che chi gli risponde è il suo compagno di banco? (Ferdinando Camon, Avvenire, 28 sett. 2018).

 
 
 

Credo che sia inevitabile

Post n°2799 pubblicato il 27 Settembre 2018 da namy0000
 

DESIDERIO DEI MASCHI DI GIOCARE CON LE ARMI

“Credo che sia inevitabile che i maschi crescendo si confrontino anche con l’esperienza della ‘guerra’, giochino a fare la lotta e simulino combattimenti in cui c’è la presenza di armi giocattolo. Appartiene alla cultura di genere, ma ancora più profondamente, credo che questo sia inscritto nella parte più arcaica del nostro cervello maschile. Nell’antichità l’uomo era obbligato a uscire dalla caverna, cacciare le prede feroci per portare alla prole e alla famiglia il cibo con cui sostentarsi. Da sempre i bambini quando si trovano insieme inscenano combattimenti e battaglie, costruiscono fionde e cercano di centrare un obiettivo, non con spirito violento e assassino, ma semplicemente per verificare la propria abilità nel prendere la mira e colpire un target. Detto questo, da qui ad avere figli che “a tempo pieno” hanno come unica esperienza di gioco e intrattenimento la violenza e la guerra… ce ne passa. Giustamente tu sei preoccupata per la pervasività con cui l’aggressività e la sopraffazione fisica e violenta compaiono in ogni esperienza di gioco, divertimento e intrattenimento dei nostri figli maschi. In effetti, in quest’ottica, la cosa presenta tutta un’altra problematicità. La ricerca afferma che quanto più i bambini e i ragazzi vedono e sperimentano la violenza, anche solo in esperienze virtuali e fittizie, tanto più svilupperanno un’attitudine positiva nei confronti della stessa, che viene considerata e valutata come uno strumento uguale a qualsiasi altro per gestire conflitti, risolvere problemi interpersonali e affermare il proprio valore e potere di fronte agli altri. Penso che ciò che serva non sia bandire le armi giocattolo, ma far sì che a fianco di qualcuna di esse i nostri figli possano sperimentare e giocare anche con molti altri strumenti e stimoli. Colori per disegnare, strumenti per suonare, palloni per fare sport, libri e film con storie centrate su vere narrazioni e su relazioni non violente: di tutto questo rendiamo ricca la vita dei nostri figli maschi” (Alberto Pellai, Medico, psicoterapeuta, FC n. 38 del 23 sett. 2018).

 
 
 

Grazie Flavia

Post n°2798 pubblicato il 25 Settembre 2018 da namy0000
 

Un figlio e molto altro. Flavia, l’aborto rifiutato, il piccolo G.

Maurizio Patriciello, Avvenire, domenica 23 settembre 2018

Era ancora minorenne, Flavia, quando rimase incinta. Rimase turbata e piena di paure. Come dirlo ai genitori? La situazione economica familiare era a dir poco disperata. Stefano, il fidanzato, appena qualche anno in più, non ne voleva sapere di quel figlio che veniva a turbare i suoi progetti. Unica soluzione, l’aborto. Flavia si ritrovò contro il padre e la mamma. Sola, confusa, depressa, tentava di far sentire la sua volontà. Inutilmente. Troppo debole, troppo fioca per essere ascoltata.

Fu fatto tutto nel giro di pochi giorni, con uno zelo degno di miglior causa. Documenti, appuntamenti, permessi. Tutto era pronto quella mattina. "L’intruso" sarebbe andato via. Si ritornava a vivere. Flavia piangeva, si disperava, cercava di suscitare la pietà dei suoi. Niente da fare. In fondo era così giovane, avrebbe dimenticato in fretta quell’incidente di percorso, pensavano. Il suo fidanzato le aveva promesso di ritornare con lei se si fosse liberata dall’ingombro. Una cosa di routine, in fondo, come estirpare un’antipatica verruca. La banalità del male. E Flavia si arrese. O, almeno, così apparve a chi le voleva bene. Sfinita, stanca di soffrire e di lottare, fu accompagnata in ospedale. Continuava a invocare aiuto. Pregava. Piangeva. Pensava: i problemi erano tanti, davvero, ma non era quella la soluzione.

In clinica Flavia incontrò Daniele, un nostro volontario, amante della vita e dell’Autore della vita. Un uomo buono, paziente, che ha imparato a conoscere il cuore umano, le sue paure, le angosce, le speranze. Ma, soprattutto, che sa bene che la maggior parte degli aborti dei poveri potrebbe essere evitata se questa nostra ipocrita società venisse incontro ai loro bisogni. Daniele intuisce. Cerca di avvicinare Flavia. Non è facile. Grazie all’aiuto di Daniele e delle parrocchie cui fa riferimento sono nati negli ultimi anni almeno un centinaio di bambini destinati all’aborto. Cose che difficilmente si dicono, si scrivono, si raccontano. Quante vale la vita di un essere umano? Quanto dovremmo essere disposti a rischiare, a pagare, per strapparla alla fogna e farle contemplare l’azzurro del cielo? Daniele, naturalmente, non sa che Flavia, per poche settimane, è ancora minorenne. L’avvicina con garbo, le parla, le offre un opuscoletto. «Parla, Signore, che il tuo servo ascolta».

La potenza della preghiera. Quando Daniele, Gianna, Stefania, Briana, Maria vanno in "missione", tanti credenti, a casa, pregano. Non tutti sono contenti di quella presenza, ma la loro bontà, il rispetto che hanno per tutti, gli aiuti concreti che offrono finiscono con l’intenerire anche i più duri.

Flavia entra in clinica. Tutto è pronto. Viene stesa sul lettino. Ancora un poco e tutto sarà finito. Quel che succede nel cuore di questa ragazza coraggiosa e bella non lo sapremo mai. Chiama a raccolta tutte le sue povere forze, scende, scappa via. Non vuole rinunciare a quel figlio. Già lo ama. Daniele le ha dato il coraggio di fare la sua scelta, e contro il parere di tutti torna a casa. I giorni che la separano dalla maggiore età passano in fretta. La famiglia pian piano accetta. Un’altra vittoria della vita sulla morte. Un altro essere umano strappato alla morte all’ultimo momento. Noi eravamo felici.

Scrissi di lei, raccontai la sua storia. "Avvenire" la pubblicò come editoriale. Un signore che non conosco promise e inviò un aiuto con il quale abbiamo assistito Flavia per tutto il tempo della gravidanza. Pochi mesi fa è nato G., un bambino stupendo. Un capolavoro che solo Dio sa creare. Un essere destinato a dare vita ad altre vite. Un uomo per il quale Gesù Cristo è morto. Pochi giorni fa Flavia lo ha portato in chiesa, me lo ha deposto tra le braccia. L’ho guardato con commozione, stupito da tanta bellezza. Che opera d’arte.

Flavia non era sola, con lei, a fare da custode al bambino, c’era Stefano, il suo giovane papà. Grondava di orgoglio e di gioia. «Vuoi darlo a me?», gli chiedo scherzando. Mi sorride. Capisce. «No, padre, guai a chi lo tocca...». A casa anche i nonni sono euforici per l’arrivo del piccolo. Mi ritorna in mente Chesterton, uno scrittore che non smetto mai di leggere: «L’ avventura suprema è il nascere. È allora che cadiamo improvvisamente in una splendida e sorprendente trappola.

È allora che vediamo davvero qualcosa che non abbiamo mai sognato prima... La vita è sempre un romanzo. La nostra esistenza può smettere di essere un canto, può smettere persino di essere uno splendido lamento, ma è pur sempre una storia. Nell’incandescente alfabeto di ogni tramonto si legge 'segue nel prossimo numero'». Grazie, Flavia.

 
 
 

Sindaco visionario

Post n°2797 pubblicato il 24 Settembre 2018 da namy0000
 

Mimmo Lucano, sindaco visionario di Riace, il paesino del ritrovamento dei Bronzi, ha un’idea tanto semplice quanto dirompente: prendere i vecchi ruderi abbandonati del centro storico, da cui partirono i riacesi per emigrare, riadattarli e ospitare i profughi sbarcati sulle coste calabresi, così da creare nuove botteghe d’artigianato locale, piccole aziende, bar, ristoranti, un servizio per la raccolta differenziata e ridare vita a un borgo di 1.500 abitanti. Un’idea semplice che dà fastidio a tanti in quest’epoca di xenofobia crescente. Lucano, che ha anche fatto uno sciopero della fame per il taglio dei fondi sui progetti legati all’integrazione nel suo Comune, ci racconta le sue ultime vicende. L’immagine dell’amministrazione di Riace è stata appannata da un’inchiesta della Magistratura scattata dopo un’ispezione della Prefettura di Locri. ‹‹Ora la Prefettura ci ha assolto completamente, anzi, ci hanno fatto pure i complimenti. Mi auguro che l’inchiesta della Procura produca lo stesso risultato››. ‹‹Io spero che il nostro progetto si allarghi in tanti altri Comuni, non solo italiani. Per realizzarlo basta un po’ di umanità. Da noi tutto è nato da un veliero carico di profughi curdi finito alla deriva sulla nostra spiaggia, una mattina di luglio. C’è stato chi si è attivato per assisterli e ospitarli››. ‹‹Riace era soggetta a un processo di spopolamento che sembrava inarrestabile. Ci siamo chiesti: possiamo costruire una comunità di accoglienza? E da lì è nato tutto. Abbiamo dimostrato che il requisito è quello di rimanere umani. Non esiste altro. È inutile che ci giriamo attorno. Quando c’è l’empatia, la comprensione di entrare nei disagi degli altri, allora si può fare››. ‹‹Dall’indagine non ho nulla da temere. Mi sembra tutto così strano. Io non sono un politico che deve nascondere dei beni. Sono un sindaco proletario, assistente di laboratorio in aspettativa. Prendevo 1.400 euro al mese, come sindaco ne percepisco 1.050. Non ho proprietà. Nulla. E le dirò di più. Per me è un’occasione per fare ulteriore chiarezza. Se dovessi tradire la fiducia di chi ha creduto in questo sogno non mi rimarrebbe altro che finirla anche con la vita. Il mio unico modo per chiedere scusa sarebbe solo questo››. ‹‹La nostra è stata un’azione antitetica rispetto alle famiglie di mafia che sono sul mio territorio. Soprattutto dal punto di vista della cultura. La mafia non è solo una questione militare, ma anche culturale. Quando ci hanno offerto di utilizzare alcuni beni confiscati alla mafia, il mio Comune non ha esitato: otto appartamenti e un ristorante. E questo dà molto fastidio ai boss. L’unica strategia delle mafie alla fine è quella di infangare. Funziona sempre. Non servono più nemmeno le bombe››. ‹‹Quello che sta accadendo in Europa mi preoccupa… Diceva il mio amico Vittorio Arrigoni, un pacifista morto in Palestina: restiamo umani. Io penso solo per questo. Noi siamo un’onda dolce, che contagia. Padre Zanotelli, il missionario che adesso abita nel quartiere Sanità di Napoli, è stato qui per due settimane. Ora mi chiama quasi tutti i giorni. Ha speso la sua vita nelle missioni in Africa e a Napoli e ora vede in Riace un faro. È una persona che mi coinvolge anche spiritualmente. Io sono laico, ma ultimamente mi succedono delle nuove cose…››.

C’è una fiction realizzata su questo progetto dall’attore Beppe Fiorello, che chiama scherzosamente Mimmo Lucano “il terzo Bronzo di Riace”. ‹‹È stato un onore poter raccontare una storia così esemplare, un esempio di straordinaria umanità, l’impegno di un uomo e di un paese che riesce a donare accoglienza e dignità dando vita a un modello di integrazione unico al mondo. Il racconto di una Calabria poco vista, il racconto di un uomo visionario che trasforma la politica in uno strumento umanitario, in una missione. Un sindaco tra la gente, il sindaco di strada, tra chi ha più bisogno, un sindaco che non risponde quasi mai al telefono dell’ufficio perché non è mai seduto, si trova solo tra la gente, a cercare di risolvere i problemi quotidiani di tutti, italiani, immigrati, bambini e anziani, un uomo che ha capito chiaramente che se ci si tiene tutti per mano ci si sente meno soli››, ha scritto Beppe Fiorello. (FC n. 38 del 23 sett. 2018).

 
 
 

Cherofobia

Post n°2796 pubblicato il 23 Settembre 2018 da namy0000
 

“PERCHÉ I NOSTRI RAGAZZI HANNO PAURA DI ESSERE FELICI?

‹‹Come te la spiego la paura di essere felici quando non l’hanno capita nemmeno i miei amici?››. In questa domanda è forse racchiuso l’universo di senso di una generazione, quella dei più giovani. Si tratta dell’incipit di Cherofobia, la canzone di Martina Attili, cantautrice sedicenne esplosa con il suo talento tanto grezzo quanto cristallino durante le audizioni di X Factor. La sua ballata è un pugno in faccia, un meticciato in note di sensazioni, di raschi alla pancia, di solitudini adolescenziali. Un apparente inno alla “non vita” che celebra quell’avversione alla felicità (la cherofobia appunto), seme e frutto di quel nichilismo che certi soloni dell’intellettualismo contemporaneo affibbiano con prudenza irresponsabile alla gioventù.

Martina decide di cantare l’universo di cui fa parte liberandosi dal cliché di cuore e batticuore, per entrare a gamba tesa ‹‹tra i muri di una cameretta in cui ha iniziato a stare stretta››. La camera è il traslato di un mondo personale, è esperienza simbolica di una vita introflessa come quella degli hikikomori, individui tra mito e realtà (soprattutto adolescenti) che scelgono di escludersi da qualsiasi tipo di vita sociale, rinchiudendosi in uno stato di completo isolamento dal mondo esterno. Eppure la giovanissima aspirante pop star decide di abbattere quelle mura, aprendosi a un pubblico che si alza in piedi per lei e addirittura sorprende i quattro giurati che promuovono all’unisono la sua performance.

Tra questi ci sono Asia Argento e Fedez, per certi versi simboli di un presente alla deriva. La prima, vittima (presunta) e poi carnefice (presunta) di molestie (e per questo esclusa dal talent show), il secondo, protagonista del primo matrimonio “social networking” della storia. Due personaggi, due vite triturate fino all’osso, allegorie di un “adesso online” fatto di emozioni prêt-à-porter, di odio scriteriato e di forsennata devozione. Sui media succede anche questo. La verità è ridotta a optional discrezionale. Si può essere mostro e il giorno dopo divo da osannare. È successo ad Asia Argento e ai Ferragnez. Può succedere a chiunque indipendentemente dall’indice di popolarità. Il digitale abbatte la gerarchia dei legami a cui siamo sempre stati abituati. Viviamo in tempi e spazi orizzontali che, invece di facilitare le relazioni autentiche, spesso rischiano di appiattirle a sterili contrapposizioni.

Ma c’è un altro rischio. Si chiama “assuefazione”. ‹‹Quando niente ti ferisce››, grida Martina nella sua canzone e quando ci si trova a vivere ‹‹l’indifferenza più totale verso la forma astrale del male››. Belle parole ma vuote di significato, dirà qualcuno. Anche questa è assuefazione a ciò che può provocare anche soltanto una piccola reazione emotiva.

Dalla cherofobia si passa quindi alla paura di amare (philofobia). L’amore diventa una minaccia al nostro equiibrio e, quindi, preferiamo mettere in pratica il comportamento opposto. Hate speech, fake news e tutto il negativo che conosciamo (e di cui siamo protagonisti) nascono da un desiderio recondito e inconsapevole di auto-protezione. Il male diventa rifugio, conforto, gratificazione. Like, post, condivisioni sono le armi con cui legittimiamo la nostra presenza. Perché sono immediate, disponibili, passeggere. Non comportano alcun “farsi carico”, alcun impegno o responsabilità, alcun sogno. E ‹‹un giovane che non sa sognare››, spiega papa Francesco (in occasione della veglia di preghiera al Circo Massimo con i giovani italiani dell’11 agosto 2018), ‹‹è un giovane anestetizzato; non potrà capire la vita, la forza della vita››. Quella vita che Martina ha deciso di vivere scrivendo e cantando e contribuendo a costruire quello che il Pontefice definisce ‹‹un cammino diverso per l‘umanità››. E non importa se quel sogno si avvererà e Martina diventerà una stella della musica. Ciò che è importante è ‹‹dirti››, conclude la sua Cherofobia, ‹‹che staremo insieme, dirti che staremo bene›› - Massimiliano P., Sociologo e presidente Copercom” (Lettera pubblicata da FC n. 38 del 23 sett. 2018).

 
 
 

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