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Messaggi del 11/10/2018

Impegnata più a fare che a parlare

Post n°2811 pubblicato il 11 Ottobre 2018 da namy0000
 

«Scelsi di essere per gli altri: i poveri, i sofferenti, gli abbandonati, i non amati, che ero bambina e così sono stata e confido di continuare fino alla fine della mia vita. Volevo seguire solo Gesù Cristo. Null'altro mi interessava così fortemente: Lui e i poveri in Lui. Per Lui feci una scelta di povertà radicale. » ‹‹Io impazzisco, perdo la testa per i brandelli di umanità ferita; più sono feriti, più sono maltrattati, disprezzati, senza voce, di nessun conto agli occhi del mondo, più li amo. Questo non è merito, è una esigenza della mia natura››.

Annalena Tonelli (nata a Forlì2 aprile 1943 – morta assassinata a Borama, il 5 ottobre 2003).

È stata una missionaria italiana cattolica, che indossava la tunica africana e il copricapo delle donne musulmane. Fu insignita dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati del prestigioso premio Nansen per l'assistenza ai profughi (Nansen Refugee Award), il 25 giugno 2003[2]. Spese circa trentatré anni della sua vita come volontaria in Africa prima di venir uccisa il 5 ottobre 2003 da un commando islamico nel centro assistenziale che dirigeva in SomaliaNata a Forlì nel 1943, dopo il liceo classico e la laurea in giurisprudenza, e dopo "sei anni di servizio ai poveri di uno dei bassifondi della mia città natale, ai bambini del brefotrofio, alle bambine con disabilità mentale e vittime di grossi traumi di una casa-famiglia"[3], nel 1969 la venticinquenne Annalena Tonelli si sposta in Africa grazie alle attività del Comitato per la lotta contro la fame del mondo di Forlì, che aveva contribuito a fondare, e che ancora oggi è attivo[4]Per diciassette anni, in Kenya, “fece fiorire il deserto”, condividendo la vita dei nomadi che salvò dal genocidio. ‹‹Io sono nobody, nessuno››, diceva. Quel nulla era il suo “tutto in Dio”. Giunta in Africa, depositò ogni privilegio, povera fra i poveri, senza sicurezze, senza istituzioni alle spalle. Sola, fra i somali che le furono amici, quando videro che rischiava la vita per loro. Più volte minacciata di morte, non se ne andò mai, anche quando ebbe la certezza che l’avrebbero uccisa. Accadde il 5 ottobre 2003, un colpo di fucile alla testa, nella sua stanzetta francescana, attigua all’ospedale di Borama. Era appena passata di letto in letto per dare a buona notte, con una carezza e una stretta di mano, agli ammalati dell’ultimo ospedale che aveva creato per curare ogni genere di malattia e accogliere bambini ciechi, sordi, disabili. La sua grande scommessa fu la tubercolosi, una delle prime cause di morte. Per debellarla creò un protocollo, riconosciuto dall’Organizzazione mondiale della Sanità, che ha salvato milioni di persone. Tutta la sua esistenza è stata un canto d’Amore: ‹‹La vita ha senso solo se si ama, nulla ha senso al di fuori dell’Amore… allora la nostra vita diventa degna di essere vissuta, diventa bellezza, grazia benedizione››. Inizialmente lavora come insegnante in una scuola superiore governativa a Wajir, nell'estremo nord-est del Kenya, regione semidesertica ove risiedono popolazioni di origine somala. Le precarie condizioni igienico-sanitarie locali la spingono ad approfondire le sue conoscenze mediche: consegue certificati e diplomi di controllo della tubercolosi in Kenya, di medicina tropicale e comunitaria in Gran Bretagna, di cura della lebbra in Spagna. Terza di cinque figli. Sin dall’infanzia si sentì chiamata a donarsi per gli altri. «Scelsi che ero una bambina di essere per gli altri, i poveri, i sofferenti, gli abbandonati, i non amati, e così sono stata e confido di continuare fino alla fine della mia vita; volevo seguire solo Gesù Cristo, null’altro mi interessava così fortemente: Lui e i poveri per Lui». Nel tempo libero dagli studi, organizzava convegni e incontri. Grande trascinatrice, portava le amiche al brefotrofio, trasformandole in mamme di tanti bambini. Nel 1963 contribuì in modo determinante a far nascere a Forlì il «Comitato contro la fame nel mondo», che sostiene ancora oggi un centinaio di missioni. Dopo la laurea, conseguita nel 1969, desiderava partire per l’India, che aveva imparato a conoscere mediante la lettura dei libri di Gandhi. I familiari non volevano che partisse né per l’India né per altri Paesi, ma lei colse la prima occasione possibile. Dietro consiglio di un’amica, partì quindi per Nairobi, capitale del Kenya. Nel 1970 passò a insegnare nella scuola governativa di Wajir, nel nord-est del Kenya. Raggiunta da Maria Teresa Battistini e da altre compagne, diede vita a una piccola comunità di laiche missionarie. Si dedicarono in particolare ai nomadi del deserto, dai quali Annalena riconobbe di aver imparato la fede e l’abbandono in Dio. La loro presenza, comunque, era spesso ostacolata: Annalena venne presa a sassate dai bambini del luogo e in un’altra circostanza malmenata pesantemente. Tuttavia, per aver denunciato il massacro avvenuto il 10 febbraio 1984 all’aeroporto di Wagalla, venne espulsa dal Paese come “persona non gradita”; la comunità di laiche missionarie venne sciolta. Annalena, quindi, si trasferì in Somalia, prima a Merka e poi, nel 1996, a Borama. Lì fondò un ospedale con 250 letti, per i tubercolotici e gli ammalati di AIDS, seguito da una scuola per bambini sordi e disabili. Era convinta che con l’istruzione potesse evolversi la situazione economica e sociale di quella che ormai considerava la sua gente. Si oppose anche alla pratica delle mutilazioni genitali femminili, appoggiata da altre donne somale. Sentiva costantemente la tensione verso una vita più ritirata, ma il pensiero dei suoi somali la spingeva a tornare da loro. Da sola imparò a convivere con il rischio quotidiano: era continuamente minacciata, perché bianca, donna, cristiana e non sposata. In una delle rare interviste che ha rilasciato, dichiarò: «Non ho paura, e anche questa è una cosa che non mi sono data. Sono stata in pericolo di vita, mi hanno sparato, picchiata, sono stata imprigionata, ma non ho mai avuto paura». Quando parlava dei suoi somali e della difficoltà di essere cristiana, fra popolazioni di fede diversa e spesso intollerante, diceva riassumendo: «Loro non lo sanno». Durante un suo passaggio a Forlì, sorridendo, spiegò meglio: «Siccome mi vogliono bene, hanno sperato che diventassi musulmana. Ma da quando un vecchio capo ha decretato che andrò in Paradiso, anche se sono un’infedele, tutti accettano che io resti l’unica cristiana del luogo».  Il 25 giugno 2003 ricevette dall’Alto Commissariato dell’ONU per i rifugiati il premio «Nansen Refugee Award», appunto per la sua opera a favore dei rifugiati e dei perseguitati. Dall’Italia e da altre parti di Europa arrivavano volontari per aiutarla: c’era chi rimaneva e chi trascorreva un determinato periodo, come le ferie estive. Veniva sostenuta dal Comitato di Forlì, ma anche da altre organizzazioni internazionali. Tuttavia non apparteneva a nessuna congregazione od organismo religioso o laico: le bastava la scelta, compiuta nella gioia tempo addietro, di dedicarsi a Dio e al prossimo senza etichette o simboli esteriori.

Donna di poche parole, era impegnata più a fare che a parlare, tanto meno di sé stessa. Se in Italia, oltre la sua regione d’origine, poteva sembrare poco conosciuta, «le somale emigrate in Italia, i nomadi del Kenya, i tubercolotici di Manyatta, i malati di Aids di Borama e i rifugiati del Nord Somalia, cioè loro, gli sconsolati della Terra, conoscevano bene Annalena Tonelli». Le sue ceneri sono state sparse, come aveva espressamente chiesto, nell’eremo di Wajir, ‹‹sulla sabbia del deserto più amato del mondo››.

 
 
 

Un aiuto corrispondente

Post n°2810 pubblicato il 11 Ottobre 2018 da namy0000
 

“In questa domenica la Parola di Dio ci consegna una meravigliosa catechesi sulla famiglia e sull’amore: è un messaggio che bisogna comprendere profondamente per non travisarlo o comprometterlo con le situazioni in cui ci troviamo nella società contemporanea.

Di fronte ai farisei che fondano le loro argomentazioni affidandosi al precetto di Mosè, Gesù spiega che il significato dell’essere famiglia non si basa essenzialmente su un contratto, deve essere fatto risalire al progetto creativo di Dio (Vangelo). Adamo, infatti, riceve da Dio un aiuto corrispondente a lui: cioè una persona da amare e non qualcosa di cui semplicemente servirsi (I lettura).

Così facendo, egli dichiara che l’amore e l’unione familiare hanno origine in Dio Amore e da Dio fonte inesauribile di Amore. Solo mantenendo il suo primato nella vita umana è possibile realizzare la pienezza dell’amore e costruire la famiglia su basi che non potranno sgretolarsi. Diversamente, la durezza del cuore umano troverà sempre qualche appiglio per disintegrare ciò che credeva aver costruito, come quella casa costruita sulla sabbia, che al primo vento contrario rischia di distruggersi (Cfr. Mt 7,26-27)” (Tiberio Cantaboni, La Domenica, 7 ott. 2018).

 
 
 

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