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Messaggi del 04/08/2018

E' stata costretta

Post n°2744 pubblicato il 04 Agosto 2018 da namy0000
 

L’INCREDIBILE STORIA DI PIERA A.. È stata costretta a sposare il figlio di un boss mafioso. Ha vissuto 27 anni con un’altra identità. Mentre sorseggia un cappuccino in un bar davanti alle banchine del porto di Palermo, una donna ricorda il dialogo drammatico avuto con la figlia. Un anno fa, racconta la donna, la figlia di 16 anni è salita nella soffitta di casa e ha aperto uno scatolone impolverato poggiato in un angolo. I genitori le avevano sempre vietato di mettere piede in quella stanza e di aprire gli scatoloni, ma in quel momento la ragazza era determinata a disubbidirgli. Nella scatola di cartone c’erano dieci pacchi, imballati uno a uno. Erano quadri paesaggi, mare, distese di alberi di ulivo, il profondo sud. Erano tutti firmati con lo stesso nome: Piera A..

Sua madre è entrata nella soffitta. “Li ho dipinti io”, ha detto. “Sono bellissimi”, ha risposto la figlia. “Ma mamma, se questi quadri sono tuoi, perché sono firmati con un altro nome? Chi è Piera A.?”.

Con le lacrime agli occhi la madre ha chiesto alla figlia di sedersi. “Sono io Piera A.”, ha detto. “Ed è arrivato il momento che tu sappia chi sono veramente”.

A., una donna alta, occhi scuri e capelli neri, sorride e gesticola vivacemente mentre racconta la sua storia. “La curiosità di mia figlia in quella scoperta nella soffitta è stata l’ennesima svolta della mia vita”, dice. “Le ho detto di ascoltarmi e ho cominciato dal principio, a oltre mille chilometri di distanza da quella soffitta, in Sicilia, dove tutto aveva avuto inizio”.

Suo padre era un muratore, sua madre una sarta. “I miei genitori non mi facevano mancare nulla”, ricorda, “L’infanzia è stato il periodo più sereno della mia vita. ma come si dice in questi casi, era solo la quiete prima della tempesta”.

La tempesta arrivò quando Piera aveva quattordici anni e conobbe un ragazzo chiamato Nicolò A., il boss locale. Il capomafia approvò la relazione di Nicolò non con una benedizione, ma con un ordine: Vito decise che Piera avrebbe sposato suo figlio. “Nicolò e io litigammo, non ricordo nemmeno per cosa. Don Vito allora mi venne a trovare a casa. Chiese a mio padre se poteva parlarmi in privato. Mi disse: ‘Siete giovani, prendetevi qualche giorno per risolvere questa situazione. Sappi però che tu e Nicolò presto vi sposerete. So che hai una famiglia alla quale vuoi bene”. Piera comprese la minaccia velata. “Il mio futuro suocero mi aveva appena avvertito che se non avessi sposato suo figlio avrebbe ucciso mio pare e mia madre. non potevo permetterlo”.

Il 9 novembre 1985 Piera diventò la moglie di Nicolò. Aveva diciott’anni. Nessuno poteva mettere in discussione l’autorità di don Vito. Anche Nicolò fu costretto ad assecondare la volontà del padre e a sposare una ragazza che non amava. In quel periodo in Sicilia si uccideva per molto meno: bastava uno sguardo alla persona sbagliata, un saluto non ricambiato. “Un giorno vidi lo stesso don Vito buttare in piscina sua moglie perché, a suo dire, lo aveva umiliato gettando a terra un gelato che lui le aveva offerto. Don Vito si sedette a bordo piscina a guardare impassibile la moglie che stava per annegare e solo l’intervento del figlio la salvò da una morte certa. Vi lascio solo immaginare cosa avrebbe potuto fare se avessi deciso di non sposare Nicolò”, racconta Piera. Don Vito era un mafioso della vecchia scuola, legato a uno spietato codice d’onore. “Una volta gli chiesi se era vero quello che si diceva di lui in città, che era il capo della mafia”, continua Piera. “Lui mi guardò e cominciò a sghignazzare. Disse che era uno a cui ‘la gente si rivolgeva quando aveva un problema da risolvere, che fosse un trattore rubato o un lavoro da trovare al figlio”.

Nove giorni dopo il matrimonio di Piera, don Vito fu ucciso in una vigna vicina. Gli interessi criminali della mafia stavano cambiando. L’eroina dilagava nelle strade di tutta Italia e i nuovi boss decisero di eliminare tutti quelli della vecchia generazione che si rifiutavano di investire nel traffico. “Quello stesso giorno, dentro una sala dell’obitorio, davanti alla salma di don Vito, mio marito Nicolò giurò che avrebbe vendicato suo padre. Giurò che avrebbe ucciso gli uomini che lo avevano assassinato come un animale”.

Piera passava i giorni facendo dolci nel bar e in una pizzeria di proprietà di Nicolò. Gli affari andavano bene, anche perché la gente continuava a rispettare “il figlio di don Vito”. “Incassavamo un milione di lire al giorno”, ricorda Piera. La vita a casa andava meno bene. Non amava Nicolò che la picchiava. Piera cominciò a prendere la pillola.

“Un giorno mi trascinò con la forza da un medico”, racconta. “Voleva capire se c’era qualcosa che non andava con la mia salute. Diceva che era strano che non fossi ancora rimasta incinta. Quando scoprì che prendevo la pillola mi picchiò per una settimana poi mi violentò”.

Due anni dopo la morte di don Vito, Piera scoprì di essere incinta. Nicolò sperava in un maschio e disse che lo avrebbe chiamato Vito in onore di suo padre. Piera invece sperava che non fosse un maschio, perché avrebbe potuto diventare un boss come Nicolò, o peggio, essere ucciso come il nonno.

Durante la gravidanza, il senso di ribellione di Piera si concentrò sulla cultura criminale e maschilista in cui era intrappolata. “Decisi di iscrivermi al concorso per diventare agente di polizia”, racconta. “Cominciai a studiare e quando Nicolò mi scoprì, come al solito, mi picchiò. Io non mollai mai. E la mia resistenza a ogni suo schiaffo, calcio o insulto, quella mia resistenza fu il mio modo di combattere cosa nostra”.

Piera non è mai diventata un’agente. Non passò l’esame. Ma diede alla luce una bambina che chiamò Vita.

Nicolò teneva alla figlia come non aveva mai tenuto a nessuno. Nelle rare occasioni in cui cucinava, era per lei che faceva le sue migliori pizze. L’ultima era a forma di cuore. Piera la portò a Vita la sera del 24 giugno 1991. “Quella stessa sera, quando entrai in cucina, sentii un grido provenire dall’ingresso. Fu un attimo. Le tende si mossero e vidi le sagome di due uomini armati e incappucciati”, racconta Piera.

Nicolò aveva mantenuto la promessa di vendicare suo padre. Ne aveva parlato con i suoi affiliati. Ne aveva parlato troppo. E la mafia decise che anche lui doveva morire. Gli spararono alla testa, alle braccia e all’addome, con un fucile a canne mozze, l’arma tipica usata nelle esecuzioni di mafia.

Piera provò a disarmare i killer, ma l’afferrarono per i capelli e la buttarono a terra. Quando se ne andarono, Nicolò era già morto. I medici legali gli tolsero dal ventre un chilo e mezzo di pallettoni.

“Avevo la faccia ricoperta di sangue. Sangue di mio marito. Odiavo Nicolò, eppure provai pietà per lui. Era solo un ragazzo. Aveva 27 anni e lo avevano ucciso come un animale”, ricorda Piera.

Il giorno dopo andò dai carabinieri. Da donna che conosceva bene i mafiosi, sapeva che la sua scelta le avrebbe cambiato la vita per sempre. “Dissi ai carabinieri che volevo testimoniare e denunciare i killer di mio marito. Uno di loro aveva cenato con lui una settimana prima. Il maresciallo sembrava più preoccupato di me. Sapeva che ero la nuora di don Vito e sapeva bene che i mafiosi avrebbero fatto di tutto per uccidermi. Mi consigliò di andare a parlare con il procuratore. Mi disse che era l’unico di cui mi potevo fidare”.

Una settimana dopo l’assassinio di suo marito, Piera incontrò il magistrato Paolo Borsellino che, insieme a Giovanni Falcone, aveva da poco condotto un’indagine contro la mafia siciliana che aveva portato a centinaia di arresti. Si instaurò una forte amicizia tra Piera e Borsellino. Lei lo chiamava “zio Paolo” e lui si occupava di lei. Le offrì una guardia del corpo, le trovò una città sicura in cui nascondersi e la aiutò a lasciare la Sicilia. La sorella di Nicolò, Rita, andò con lei.

La sorella di Nicolò aveva 16 anni, era piena di vita, forte e sicura di sé. Piera si era occupata di lei fin da quando era bambina. Sapeva che la scelta di Rita era ancora più difficile della sua. Dopotutto lei era la figlia di don Vito. Rita aveva una relazione di sangue con quella famiglia mafiosa. La sua ribellione avrebbe lasciato una cicatrice nel codice d’onore mafioso che nessuna vendetta avrebbe potuto riparare.

“Trascorrevamo le giornate nei commissariati di polizia. Borsellino ci veniva a trovare spesso. Avevamo paura. Sapevamo che i boss stavano già pianificando il modo per ammazzarci. Un giorno, dopo l’ennesimo interrogatorio, corsi fuori dalla stanza piangendo. Borsellino uscì ad abbracciarmi. Gli confessai che avevo paura di morire. Mi disse: ‘Non ti succederà niente’. Sorridendo aggiunse: ‘Morirò di sicuro prima io’”. Alcuni mesi dopo, il 19 luglio 1992, la mafia uccise Borsellino con un’autobomba in via D’Amelio, a Palermo. Due mesi prima, il 23 maggio 1992, lo stesso destino aveva colpito Falcone, ucciso con 300 chili di esplosivo sull’autostrada, mentre tornava a Palermo dall’aeroporto di Punta Raisi. Oggi l’aeroporto internazionale di Palermo è dedicato a loro.

Piera era disperata, Rita ancora di più. la mafia aveva ucciso suo padre, suo fratello e ora Borsellino. Una settimana dopo l’omicidio del magistrato, il 26 luglio, Rita si buttò dalla finestra di un appartamento al settimo piano e morì. “Ero devastata”, racconta Piera. “Mi sentivo come abbandonata da Rita. Ero una ragazza anch’io e a quel punto sentivo di dover portare sulle mie spalle anche la sua ribellione. Solo dopo capii che il gesto di Rita era il gesto di una ragazza che aveva perso tutto”.

Le testimonianze di Piera e Rita portarono all’arresto di decine di mafiosi. La vedova di don Vito non perdonò mai la figlia e un giorno distrusse la sua lapide con un martello. “Mia suocera odiava me e Rita. Sperava che ci ammazzassero. La nostra decisione di collaborare con la polizia per lei era un disonore. Io non nutrivo rancore nei suoi confronti. Mia suocera, come me, era stata costretta a sposare un uomo che non amava. Era stata violentata dal padre e non aveva mai conosciuto il vero amore. Era una donna vittima della cultura mafiosa in cui era cresciuta. Provavo pietà per lei”.

Piera si creò una nuova vita. cambiò nome e cominciò a lavorare come baby-sitter. Nel tempo libero dipingeva. Dopo alcuni anni s’innamorò. Era arrivato il momento di prendere le decisioni da sé, ma c’era un problema: “Quell’uomo non sapeva niente di me. Una sera lo invitai a cena e, dopo aver mangiato, gli chiesi di sedersi e di ascoltarmi”. Piera gli raccontò di Nicolò, Vito, Borsellino e Rita. Dopo lui le chiese di sposarlo e l’8 agosto del 2000 diventarono marito e moglie. Il marito promise di mantenere il segreto di Piera anche con le loro due figlie. Ogni tanto la polizia le chiedeva di tenere discorsi nelle scuole o a eventi organizzati dalle associazioni che combattono la mafia. Partecipava anonimamente, coprendosi il volto. Fino a quel fatidico pomeriggio in soffitta.

“Quella stessa sera ci siamo riuniti tutti in salotto, ci siamo seduti e abbiamo parlato fino a tarda notte. Qualche settimana prima ero stata contattata da alcuni politici del Movimento 5 stelle. Mi avevano chiesto i candidarmi alle elezioni con loro. Non ero convinta. È stata mia figlia a persuadermi”. Durante la campagna elettorale non poteva mostrare il suo volto. Era conosciuta come “la candidata senza volto”.

A marzo Piera è stata eletta in parlamento. La maggioranza dei voti è arrivata da Trapani e ne è stata “molto felice”, dice, “perché Trapani è uno degli ultimi capisaldi della mafia”. I voti sono arrivati da tutte le fasce sociali. “Ho scelto questo partito perché è stato l’unico a darmi la possibilità di non scendere a compromessi”, racconta. Sotto la protezione della polizia ha realizzato che spesso gli informatori vengono abbandonati dallo stato una volta che le loro informazioni sono state usate. Questo sarà il fulcro del suo lavoro in parlamento. Migliorare la vita degli informatori significa incoraggiare le persone a ribellarsi.

Quel giorno, in soffitta, davanti alla scoperta di quei dipinti trovati da mia figlia, la mia vita è cambiata. Io, Piera A., sono tornata e non ho più intenzione di restare nascosta in soffitta”. (Internazionale n. 1266 del 27 luglio 2018).

 
 
 

Vertice dei brics

2018, Internazionale n. 1266 del 27 luglio. CINA-AFRICA. “Prima di andare al vertice dei brics di Johannesburg del 25 luglio, il presidente cinese Xi Jinping ha fatto tappa in Senegal e in Ruanda. Il Senegal è il primo paese dell’Africa occidentale a firmare un accordo di cooperazione con Pechino nell’ambito della Belt and road initiative, il megaprogetto infrastrutturale che collegherà la Cina all’Europa occidentale e all’Africa. La Cina è il paese che più di tutti ha rapporti commerciali con il continente africano, in forte contrasto con lo scarso interesse degli Stati Uniti, scrive Reuters. Senegal e Ruanda puntano ad attirare aziende cinesi che investano nel settore manifatturiero, come già successo in Etiopia, scrive sull Washington Post l’esperta Deborah Brautigam. Per questo Dakar ha affidato a un’azienda cinese la costruzione di una zona economica speciale vicino alla città. Xi ha poi promesso di dare priorità all’industrializzazione del paese.

“Ho letto con interesse l’articolo sullo sviluppo dell’Africa, di cui ho apprezzato in particolare lo sforzo di dare un volto umano alla narrazione di un argomento complesso. L’articolo mi ha suggerito due riflessioni. Come occidentali non abbiamo ancora elaborato che, usando le parole di Kapuściński: “In realtà l’Africa non esiste”. È un continente enorme, che comprende regioni dalle caratteristiche molto diverse, piccoli stati e giganteschi stati federali. Forse è arrivato il momento di riconsiderare l’equazione Africa uguale area subsahariana. Inoltre, se è vero che la povertà è ancora un tema chiave nel continente, è anche vero che negli ultimi anni si è registrato uno sviluppo in  alcuni settori. Per esempio il Gender equality index della Banca africana di sviluppo rivela che in undici paesi africani le donne occupano più di un terzo dei seggi parlamentari, un risultato ben al di là della media europea. Oppure si pensi allo sviluppo della tecnologia sulle microtransazioni, inizialmente concepita per Kenya e Tanzania, che ora si sta diffondendo al di fuori del continente. – Jacopo B.” (Lettera pubblicata da Internazionale n. 1266 del 27 luglio 2018).

 
 
 

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