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Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi del 07/03/2024

Insegnante e scrittore

2024, Avvenire, 5 marzo

Educare alla speranza. Se rinasco voglio insegnare ancora. Grazie a don Carlo

L'esempio di un sacerdote salesiano e la capacità di costruire futuro con i ragazzi, dando loro sempre fiducia e facendo emergere il potenziale positivo che c'è in ciascuno di noi

L’educazione si basa sulla fiducia nell’altro e sulla speranza. Un educatore crede che in ogni ragazzo ci sia qualcosa di buono, un potenziale positivo in grado di lasciare un segno sulla realtà. L’educatore è uno che scuote dal torpore, che risveglia quel bene perché si trasformi in impegno, in azione. Per fare ciò è necessario mettersi in gioco, entrare davvero in relazione coi ragazzi che ci troviamo di fronte. Se si pensa di insegnare solo da dietro la cattedra, in modo asettico e neutrale, si è fuori strada. Per questo don Bosco, il fondatore dei Salesiani, ripeteva che «l’educazione è cosa del cuore». Senza relazione profonda, senza simpatia e affetto, nessun cammino educativo può davvero partire.

Quando ero alle medie, ho avuto la fortuna di incontrare un sacerdote che sapeva davvero educare con il cuore di don Bosco. Per lui, tutto ciò che ho scritto fin qui non era un bell’ideale, ma un concreto stile di vita. Quel sacerdote si chiamava don Carlo ed era il preside della scuola salesiana che frequentavo. Era una persona decisa, con un carattere forte: all’inizio del primo anno delle medie, quando ci ritrovammo tutti in teatro, mi mise soggezione con i suoi richiami perentori alle regole e alla puntualità. Ma la soggezione finì in un attimo, nel cortile della scuola, il giorno dopo, quando don Carlo mi chiese chi ero, memorizzò il mio nome in un istante e si mise a parlare con me, interessato sul serio a ciò che gli dicevo. Faceva così con tutti i suoi studenti, con una semplicità disarmante. Era il preside, ma all’intervallo e in tutti gli altri momenti liberi non se ne stava mai chiuso nel suo ufficio: scendeva sempre in cortile, passeggiava tra i gruppetti di miei coetanei sotto il portico o costeggiava il campo da calcio, dove in un allegro caos si svolgevano più partite contemporaneamente.

Don Carlo stava in mezzo a noi, ci cercava: la soggezione scompariva, la sua presenza era benevola, era un punto di riferimento per tutti. Il nostro rispetto nei suoi confronti era smisurato, perché il rispetto, al contrario di ciò che si crede, si basa sulla relazione, non sulla paura. Se un ragazzo sente che un educatore gli vuole bene, si fida di quell’educatore, lo ascolta più volentieri, accetta più facilmente anche le critiche. E fidandosi, si affida, perché sa di poter contare su qualcuno.

Don Carlo, oltre che preside, era anche uno dei miei insegnanti. Io, che alle medie ero piuttosto agitato e collezionavo una nota via l’altra, durante le sue lezioni ero attentissimo. Ma non perché fosse il preside, perché era affascinante. Un giorno discutemmo di un tragico fatto di cronaca: un incidente nel quale un nostro coetaneo aveva perso la vita. Eravamo tutti sconcertati. «La vita a volte, apparentemente, può non avere senso», ci disse don Carlo. «Tutti moriremo, possiamo toccare ferro o fare gli scongiuri, ma questa è una certezza assoluta. E allora, che senso ha vivere, se tutto è destinato a finire? Eppure, il desiderio di senso rimane forte dentro ciascuno di noi. Tutti sentiamo di appartenere a qualcosa di più grande. Io credo che quel qualcosa sia un Qualcuno che mi ama, e credo che, nonostante il dolore, la mia morte non sarà la fine, ma un volo verso l’infinito, nel quale potrò vedere tutte le galassie più lontane e immergermi in abissi sconfinati». Mentre ascoltavo le sue parole, lo ricordo a trent’anni di distanza, mi mancava il respiro per l’emozione.

Un’altra volta eravamo tutti agitati: c’era la finale di Champions League e il Milan sfidava il Marsiglia. Don Carlo entrò in classe: «Che bello se fossi ricco, famoso e potente!», esclamò. «Che bello se potessi avere tutto quello che desidero! Il macchinone, l’aereo privato, vacanze da sogno quando voglio. Stasera, tribuna d’onore per tifare il Milan in finale ». Che bello, sì! Mentre don Carlo parlava, mi immaginavo quella vita. Non avrei chiesto di meglio. «Ma sarei felice? », aggiunse don Carlo a bruciapelo. «Tutto questo mi basterebbe per esserlo davvero? O ci sarebbe sempre qualcosa in più da possedere, qualcosa che, comunque, non riempirebbe la mia sete?». Ci fissò a uno a uno. «Che cosa ti rende davvero felice, felice fino in fondo?», chiese. «Cosa estingue davvero la tua sete?». Una domanda che da qual momento non mi ha più mollato.

A don Carlo bastava un gesto per dire mille parole. Un giorno risposi male a un insegnante e fui mandato fuori dall’aula. Don Carlo passò e scosse la testa. Passò una seconda volta e mi rimproverò. La terza volta, però, mi sorrise: «Ho bisogno di te», mi disse. Di me? Di me che avevo risposto male al prof? Di me che prendevo tutte quelle note? Pensavo di avere capito male. «Tra un quarto d’ora è l’intervallo e io ho bisogno di te, perché di te mi fido», disse di nuovo don Carlo. «Tieni», aggiunse, e mi diede in mano il suo mazzo di chiavi: quello del preside, quello che apriva tutte le porte di tutta la scuola. Mi indicò una chiave in particolare: «Questa apre il deposito dei palloni. Scendi giù, aprilo e distribuisci i palloni ai tuoi compagni. Poi, alla fine dell’intervallo, quando te li restituiscono, mettili via, chiudi a chiave e riportami il mazzo».

Chi distribuiva i palloni all’intervallo era in quegli anni, per dieci minuti, la persona più importante della scuola. Tutti si mettevano in fila e dipendevano da lui per giocare. Don Carlo, con quel gesto, aveva dato la sua totale fiducia a me che non me la meritavo, aveva guardato al bene che c’era dentro di me, alla mia possibilità di riscatto, più che all’errore che avevo commesso. Aveva fatto un gesto educativo di enorme portata, dando una grande responsabilità a me che mi ritenevo irresponsabile, spingendo a fare qualcosa di buono e utile proprio me, che spesso pensavo solo a fare lo stupido.

Quando iniziai a insegnare, don Carlo era ancora preside. In una sera d’autunno parlammo lungamente nel suo ufficio del mio desiderio di diventare prof. Mi disse: «L’artigiano costruisce manufatti. L’elettricista costruisce impianti. Il meccanico costruisce automobili. Noi insegnanti accompagniamo ragazze e ragazzi che costruiscono se stessi, per diventare le donne e gli uomini che saranno. Noi costruiamo futuro».

Ogni tanto, in tutti questi anni, ho scritto a don Carlo. Le sue risposte sono sempre state perle preziose. Ne ricordo una in particolare, un elenco di cognomi e nomi: Federico, Alessandro, Stefania, Claudia, Giuseppe… Capii e rimasi spiazzato. Quanti volti, quanti ricordi. Sotto, don Carlo scriveva: «Caro Marco, questi sono i tuoi compagni delle medie. Conservo tutti gli elenchi delle classi che ho incontrato. Se vedi ancora qualcuno, salutalo da parte mia. Io vi ricordo sempre e vi porto sempre con me. Non potete più scappare. Voi siete la mia vita».

Oggi don Carlo è un sacerdote anziano: non è più preside e non insegna più. Ama però ancora passeggiare per i cortili, tra i ragazzi che giocano. Proprio in un cortile lo ho incontrato di recente, quando sono andato a trovarlo con la mia famiglia. Ha ripetuto ad alta voce il mio nome e il mio cognome, come per richiamare alla memoria gli anni passati. Mi ha fatto sentire accolto come un tempo. Mi ha detto: «È successa una cosa incredibile: sono venuti a trovarmi alcuni miei ex allievi. Li ricordo ragazzini di prima media e ora sono adulti, hanno le loro famiglie. Uno ha anche dei nipoti!». Ha sorriso, gli occhi pieni di meraviglia. «Quanti anni sono passati», ha aggiunto. «Quanta fatica! Quanto mi avete fatto disperare. Ma quanta vita, quante cose belle! Se rinasco, voglio fare di nuovo l’insegnante».

Trovo queste parole di una potenza straordinaria. Don Carlo è riuscito a essere un maestro ancora una volta: mi ha ricordato che una vita non è realizzata quando è perfetta e facile, ma quando è spesa con passione fino in fondo, tanto da farti dire che rifaresti tutto, perché accogli tutto quanto come un dono.

Insegnante e scrittore

 
 
 

Costruttori di Giustizia

2024, don Ciotti, Avvenire, 6 marzo

Preti minacciati. Tutti insieme ai costruttori di giustizia

Nelle ultime settimane abbiamo saputo di nuove minacce contro alcuni sacerdoti, da parte di ambienti mafiosi. E c’è chi, anche con intenti lodevoli, ha parlato di “preti antimafia”, “preti di frontiera”. Queste definizioni però non aiutano, lo dico come qualcuno che se le è viste attribuire a sua volta. Non sono d’aiuto perché fanno passare l’idea che l’opposizione al crimine organizzato sia un’opzione facoltativa, e non una necessità ovvia per chi predica il Vangelo. ​Noi siamo sacerdoti come gli altri, coi nostri limiti, le nostre fatiche, ma anche con la gioia di spendere la vita per dare vita. Sappiamo che testimonianza cristiana e responsabilità civile devono saldarsi, per offrire un esempio coerente di servizio alle persone. La Parola di Dio è spesso scomoda, provocante, «urticante», come diceva don Milani, ma è parola di vita e speranza. Aveva ragione il cardinale Carlo Maria Martini nell’osservare che «missione della Chiesa è essere coscienza della società in cui vive e voce propositiva dei valori più alti e spirituali».

Senza dimenticare, secondo l’insegnamento continuo di papa Francesco, che la Chiesa deve abitare la storia, non può rimanere ai margini della lotta per la libertà, la dignità, l’uguaglianza, il rispetto dell’ambiente: tutti i cristiani sono chiamati a preoccuparsi della costruzione di un mondo migliore. Anche se, come ha detto sempre il Papa, ad alcuni «dà fastidio che si parli di un Dio che esige un impegno per la giustizia». Noi sacerdoti abbiamo il compito di tradurre quella Parola in ogni contesto, dunque anche di “sporcarci le mani” nelle grandi questioni sociali. Ecco perché dico che dobbiamo rifiutare certe etichette, e l’idea che esistano delle “specializzazioni” nel nostro ruolo. Sono immagini stereotipate che non rispettano la ricchezza della missione che abbiamo scelto, quella di saldare la Terra con il Cielo. Ognuno ha la sua vocazione, nella Chiesa come nella vita. A me fu affidata, da padre Michele Pellegrino, una parrocchia inusuale: la strada. Ma qualsiasi parrocchia ha le sue specificità e difficoltà, anzi, possiamo dire che non esista una realtà più complessa: lì accompagni la vita delle persone, dalla nascita alla morte, ti trovi ad ascoltare e consolare, a misurarti con le situazioni più delicate. Tocchi davvero con mano le preoccupazioni e il sentire della gente. Ed è per questo che ai bravi preti di alcuni territori, che ce la mettono tutta per costruire spirito di comunità e usano parole ferme rispetto al male, la mafia risponde.

Facciamo un passo indietro di una trentina d’anni: un momento cruciale. Dopo l’accorato discorso di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi ad Agrigento, il 9 maggio 1993, la mafia è “stizzita”. Il collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia fa una dichiarazione che ci aiuta a capire cosa accadrà di lì a poco: «Gli uomini d’onore mandano a dire ai sacerdoti di non interferire». Ecco la parola chiave, “interferire”. I boss si sentono toccati e destabilizzati dall’autorevolezza del Papa, dalle sue parole cristalline contro il crimine. Così il 27 luglio 1993 due attentati con esplosivo colpiranno San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro, a Roma. È una risposta alle “interferenze”. Altre più tragiche verranno: gli omicidi di don Puglisi e don Diana.
A trent’anni di distanza da quei fatti, e di fronte e nuove minacce più o meno esplicite, non possiamo voltarci dall’altra parte. Vogliamo che la gente veda che viviamo il Vangelo senza compromessi, senza timidezze, senza paura.
Per questo i sacerdoti minacciati non vanno lasciati soli. Devono sentire che la comunità cristiana cammina compatta insieme a loro. In questa come in altre circostanze, dobbiamo ribadire che c’è una totale convergenza tra la servitù al Signore e il servizio per il bene comune.
È ovvio che siamo contro l’illegalità, la corruzione, le mafie, ma il nostro impegno dev’essere soprattutto per.

Siamo chiamati a costruire quelle opportunità in positivo che sono la prima forma di prevenzione del malaffare: educazione, diritti, giustizia. Percorsi che diano libertà, dignità e speranza alle persone. Tanti vorrebbero che ci limitassimo a predicare e “curare la salute delle anime”. Ma noi abbiamo il dovere di pensare al benessere dei nostri fratelli e sorelle già qui sulla terra, di curare la salute dei rapporti sociali e aprire delle brecce persino dove sembra impensabile. Il nostro obiettivo è collaborare per la conversione anche di chi ha commesso dei reati terribili. Non dobbiamo demordere, bisogna sempre sperare che sia possibile! Oggi vediamo minacciati sacerdoti giovani che vanno a ogni costo incoraggiati. È normale che attraversino questo momento di prova con smarrimento, e chi ha più anni, con grande umiltà e rispetto, li deve sostenere. A volte bastano piccoli segni di affetto per restituire fiducia. E molto conta l’esempio. Noi con loro, dobbiamo sempre più vivere il Vangelo nella sua essenzialità spirituale, nella sua intransigenza etica e anche nel suo intrinseco significato politico. Ci sono momenti nella vita in cui tacere diventa una colpa e parlare un obbligo morale e una responsabilità civile. Facciamo qualche bella “telefonata” al Padreterno – non si paga neanche la bolletta – perché ci dia una spinta per andare avanti, e la dia soprattutto ai quei sacerdoti e a quei laici impegnati nei territori più difficili. La luce del Signore possa illuminare il loro cammino e schiarire le menti di chi è loro ostile.

 
 
 

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