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Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi di Giugno 2021

il tempo ti fa capire tutto ciò che è importante

Post n°3602 pubblicato il 12 Giugno 2021 da namy0000
 

Il cantante. Mahmood: «Le mie radici mi hanno salvato dal successo»

Avvenire 11 giugno 2021

Il cantante pubblica il nuovo album “Ghettolimpo” e racconta la sua vita dopo la vittoria di Sanremo nel 2019. «Ho rischiato di essere travolto. Ma ho tenuto i piedi per terra grazie a mia madre»

«Questo disco è molto personale, ho voluto mettervi dentro tante mie radici. Ho dato giusta forma alla mia radice sarda, che m’ha cresciuto e bene. Ed anche recuperare le origini egiziane. Perché il successo può essere pericoloso se non lo sai gestire». Il milanesissimo Alessandro Mahmood a 29 anni fa il punto, nel nuovo disco Ghettolimpo in uscita oggi per Universal, di due anni passati sull’ottovolante: «E’ successo tutto in modo inaspettato». Dal lavoro come barista nella sua Gratosoglio, periferia Sud di Milano, alle lezioni di canto al Cpm di Franco Mussida, da Sanremo Giovani alla vittoria a sorpresa al Festival 2019 con quella Soldi dedicata al difficile rapporto col padre, arrivata seconda all’Eurovision Song Contest, che con 100 milioni di streaming è la canzone italiana più ascoltata di sempre su Spotify e Apple music.

La pandemia non ha fermato però un successo travolgente per Mahmood che ha azzeccato una hit dopo l’altra (Calipso, Barrio – 80 milioni di visualizzazioni su Youtube –, e poi Dorado, Inuyasha, Rapide contenuti nel nuovo album, senza contare i brani scritti per altri) grazie ai suoi testi e alle collaborazioni con i più lanciati produttori del momento. Facendo due conti il cantautore ha collezionato nel giro di un paio d’anni 15 dischi di platino, 6 dischi d’oro e oltre 400 milioni di streaming. Ma Mahmood, nonostante gli studiatissimi video che ne propongono l’immagine da duro del ghetto, è rimasto il simpatico ragazzo della porta accanto, cosa non scontata. «Dopo Eurovision la percezione di me stesso è cambiata – spiega il cantante e autore –. Ho passato momenti difficili dopo il successo di Sanremo: c’era di che destabilizzarsi, ma sono cose che mi fortificano, sai che devi lavorare su te stesso. Il successo può dare alla testa, ma come esempio ho sempre guardato a mia madre».

Mahmood per mettere a fuoco la sua vita ha deciso da ripartire dalla sua infanzia e dalla sua passione per la mitologia greco-romana, aprendo il disco con la filastocca Dei che cita Poseidone, Atena, Zeus e Venere. «Passavo le ore a sfogliare l’enciclopedia per bambini che avevo da piccolo, fra quelle pagine ho scoperto un mondo fatto di miti e storie favolose che amo ancora oggi». Da qui il titolo dell’album e dell’omonimo brano Ghettolimpo che sulla copertina riporta Mahmood che si specchia nell’acqua come un moderno Narciso, vedendo riflesso però un altro sé quasi demoniaco. «Ciò è legato al periodo in cui mi guardavo allo specchio e non mi piacevo» racconta svelando le proprie insicurezze. Un disco che racconta vite sospese tra il ghetto e l’Olimpo, appunto «come stessero nell’Ade, un mondo di persone che sono una via di mezzo tra l’alto e il basso, ma cercano di dare un senso alla propria vita. Anche io sto nel mezzo. Quando scrivo mi sento immortale, mentre nella vita normale mi sento più attaccabile, vivo paure e paranoie». Anticipato dal singolo Inuyasha ( Disco di platino), Klan e la significativa Zero, colonna sonora della serie di Netflix sugli italiani di seconda generazione, Ghettolimpo ospita un duetto con Elisa e con Woodkind, e coinvolge produttori di grido come Muut, Dardust, Francesco Fugazza Francesco Catitti e autori quali Davide Petrella, Salvatore Sini e Cheope.

Dal punto di vista musicale, Mahmood presenta un mix stilistico originale, che tenta una innovazione mescolando sonorità internazionali, hip hop, urban, rap e melodia italiana. E se scivola su qualche brano che usa termini forti cedendo ai canoni di moda della trap, si apre nella maggior parte dei brani in momenti poetici e a melodie di pieno respiro dove la voce dell’artista incanta per il suo timbro unico, come nel brano Rapide. Sonorità orientali spuntano in Ghettolimpo, una sorta di «preghiera libera dedicata a tutti coloro che si rivolgono al cielo, indipendentemente dalla religione o se siano o no credenti» spiega Mahmood, di educazione cattolica, facendo iniziare il brano con un canto che riprende un muezzin arabo. «Io in Egitto sono stato due volte, a 8 e 12 anni, e udivo quella melodia potente che scandiva le cinque preghiere della giornata. Ho cercato una sonorità che mi ricordasse quei momenti». E se in Icaro è libero il giovane del mito è paragonato a un carcerato di oggi, simboleggiando anche l’oppressione della società, Mahmood guarda al se stesso adolescente, ai primi amori, ma anche al disagio che provava in quegli anni in Rubini in cui duetta con Elisa, e alle delusioni di Kobra. «Ho un problema, che non mi fido di nessuno. Mi sono fidato tantissimo, ma ho imparato che anche le fregature aiutano a crescere. Come quando io davo i pezzi alle case discografiche e questi venivano pubblicati all’estero a mia insaputa e non vedevo un euro mentre lavoravo al bar» ci racconta ancora scottato l’artista.

«Non è stato facile da sola crescere / chi per metà ti ricorda l’uomo che ti ha lasciato / Famiglia significa stare qua / in 2 anche se difficile». La famiglia è e rimane un punto solido nella vita di Alessandro, soprattutto l’adorata madre a cui dedica il pezzo più bello dell’album, T’amo, con una citazione da pelle d’oca di Non potho reposare «che mia madre mi faceva ascoltare da piccolo e che per me è la canzone che più rappresenta la Sardegna. Sono fan di Maria Carta e di Andrea Parodi e per interpretare questo brano ho scelto il coro femminile sardo di Orosei, paese di origine di mia mamma, 'Intrempas', di cui fa parte mia cugina Antonellina». E la mamma come ha reagito? «La prima volta che l’ha sentita si è messa a piangere. Non aveva mai pianto prima… – sorride il cantante –. Io e mia madre abbiamo passato insieme dei momenti difficili, anni in cui gli unici soldi che guadagnavo poi li spendevo con il 'car sharing' necessario per andare a lavorare, in un continuo circolo vizioso. Questa situazione mi ha insegnato che non serve litigare per farti realizzare che una persona ti sta a cuore, è il tempo che ti fa capire tutto ciò che è importante». Per ascoltare Mahmood dal vivo si dovrà aspettare novembre per la parten zadel tour Dei rimandato. «Questa quarantena mi ha fatto crescere paure che prima non avevo –ammette Mahmood –. Con la ripresa dei concerti passerà. Io questo lavoro lo faccio perché voglio avere contatto con la gente».

 
 
 

Arte e fede

Post n°3601 pubblicato il 09 Giugno 2021 da namy0000
 

2021, Avvenire 9 giugno

Arte&fede. Una parrocchia di Bologna si lancia nella cripto-arte, crea e vende NFT

Gli intrecci di arte, fede e tecnologia nell’esperienza della comunità parrocchiale bolognese di Santa Maria della Carità. A raccontarla il parroco don Davide Baraldi

frutto anche della passione e dell'intuizione del parroco 43enne che la guida, la parrocchia bolognese punta a essere la prima comunità religiosa in Italia a cavalcare l'onda della tecnologia Nft, 'Non Fungible Token', in altre parole un certificato di proprietà di un oggetto digitale «non fungibile», cioè non replicabile, come un'opera d'arte che utilizza il sistema della blockchain e sul quale si sono scatenati big come Elon Musk ed Edward Snowden.

ho sempre avuto interesse per quello che gli strumenti tecnologici rappresentano come rivoluzione antropologica".

l'idea di trasformare il patrimonio artistico della chiesa e di renderlo un bene digitale "unico" grazie alla tecnologia NFT. Le cripto-opere sono in vendita su Zillica, acquistabili con questa criptomoneta. L'operazione è partita ad aprile e già ci sono stati i primi acquirenti, collezionisti e appassionati.

 
 
 

Progetti di speranza

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI GIOVANI DEL "PROGETTO POLICORO"
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Sala Clementina
Sabato, 5 giugno 2021

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Vi do il benvenuto. Sono lieto di condividere con voi il 25° del Progetto Policoro della Chiesa italiana. Ringrazio i due “portavoce” che lo hanno presentato ed estendo il mio saluto a tutti i giovani e i collaboratori coinvolti in questi anni. Ringrazio il Cardinale Presidente e il Segretario Generale, come pure coloro che vi accompagnano sul cammino formativo. E grazie per il bel dono annunciato della statua di San Giuseppe! Grazie!

Il Progetto Policoro è stato ed è un segno di speranza, soprattutto per tanti territori del Sud d’Italia carenti di lavoro o che sfruttano i lavoratori. Oggi siete chiamati a esserlo in un modo nuovo – essere speranza è un modo nuovo –, perché questo importante anniversario capita in un periodo di forte crisi socio-economica a causa della pandemia. Vorrei suggerire quattro verbi che possano servire per il vostro cammino e perché sia concreto.

Il primo è animare, cioè dare animo. Mai come in questo tempo sentiamo la necessità di giovani che sappiano, alla luce del Vangelo, dare un’anima all’economia, perché siamo consapevoli che «ai problemi sociali si risponde con reti comunitarie» (Lett. enc. Laudato si’, 219). È il sogno che sta coltivando anche l’iniziativa “Economia di Francesco” – di San Francesco! Voi vi chiamate “animatori di comunità”. In effetti, le comunità vanno animate dal di dentro attraverso uno stile di dedizione: essere costruttori di relazioni, tessitori di un’umanità solidale, nel momento in cui l’economia si “vaporizza” nelle finanze, e questo è una nuova forma più sofisticata della catena di Sant’Antonio che tutti conosciamo. Si tratta di aiutare le parrocchie e le diocesi a camminare e progettare sul «grande tema [che] è il lavoro», cercando di «far germogliare i semi che Dio ha posto in ciascuno, le sue capacità, la sua iniziativa, le sue forze» (Lett. enc. Fratelli tutti, 162).  È un problema di dignità. La dignità della persona non viene dai soldi, non viene dalle cose che si sanno, viene dal lavoro. Il lavoro è un’unzione di dignità. Chi non lavora non è degno. Così, semplice.

Occuparsi del lavoro è promuovere la dignità della persona. Infatti, il lavoro non nasce dal nulla, ma dall’ingegno e dalla creatività dell’uomo: è un’imitazione di Dio creatore. Voi non siete di quelli che si limitano a lamentele per il lavoro che manca, ma volete essere propositivi, protagonisti, per favorire la crescita di figure imprenditoriali al servizio del bene comune. L’obiettivo da perseguire è quello «dell’accesso al lavoro o del suo mantenimento, per tutti» (Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 32). A voi giovani non manca la creatività – non abbiate paura, non abbiate paura –:  vi incoraggio a lavorare per un modello di economia alternativo a quello consumistico, che produce scarti. La condivisione, la fraternità, la gratuità e la sostenibilità sono i pilastri su cui fondare un’economia diversa. È un sogno che richiede audacia, infatti sono gli audaci a cambiare il mondo e a renderlo migliore. Non è volontarismo: è fede, perché la vera novità proviene sempre dalle mani di Dio. Questo è animare, il primo verbo.

Il secondo verbo è abitare. Vi chiediamo di mostrarci che è possibile abitare il mondo senza calpestarlo – è importante questo –: sarebbe una bella conquista per tutti! Abitare la terra non vuol dire prima di tutto possederla, no, ma saper vivere in pienezza le relazioni: relazioni con Dio, relazioni con i fratelli, relazioni con il creato e con noi stessi (Lett. enc. Laudato si’, 210). Vi esorto ad amare i territori in cui Dio vi ha posti, evitando la tentazione di fuggire altrove. Anzi, proprio le periferie possono diventare laboratori di fraternità. Dalle periferie spesso nascono esperimenti di inclusione: «da tutti, infatti, si può imparare qualcosa, nessuno è inutile, nessuno è superfluo» (Lett. enc. Fratelli tutti, 215). Possiate aiutare la comunità cristiana ad abitare la crisi della pandemia con coraggio e con speranza. Dio non ci abbandona mai e noi possiamo diventare segno della sua misericordia se sappiamo chinarci sulle povertà del nostro tempo: sui giovani che non trovano lavoro, i cosiddetti Neet, su quelli che soffrono la depressione, su quelli demotivati, su quelli stanchi nella vita, su quelli che hanno smesso di sognare un mondo nuovo. E ci sono giovani che hanno smesso di sognare. È triste, perché la vocazione di un giovane è sognare. Il Servo di Dio Giorgio La Pira sosteneva che la disoccupazione è «uno sperpero di forze produttive». [1]

E poi, in questo momento in Italia, voglio fermarmi su una cosa grave: la disoccupazione che fa sì che tanti giovani cerchino un’alienazione. Voi sapete tante cose… Un numero consistente cerca il suicidio. Poi, alienarsi, andare fuori della vita, in un momento nel quale non siamo nell’estate della vita demografica italiana; siamo nell’inverno! Ci mancano i giovani e per questo i giovani non possono darsi il lusso di non entrare in questo lavoro. La media dell’età in Italia è 47 anni! Beh, siete vecchi. Non ha futuro. “Ma, come posso fare figli se non ho il lavoro?”, “Io, donna, come posso fare i figli, che appena il capo dell’ufficio vede la pancia mi caccia via, a tal punto che la pancia è diventata una vergogna?”. È tutto in un altro modo! Dovete reagire contro questo. Che i giovani incomincino a sognare, a fare i genitori, a fare figli. E per questo, che abbiano dei lavori. Il lavoro è un po’ una garanzia di questo futuro.

Inoltre, è il momento di abitare il sociale, il lavoro e la politica senza paura di sporcarsi le mani. Voi potete dare una mano ad aprire le porte e le finestre delle parrocchie, affinché i problemi della gente entrino sempre più nel cuore delle comunità.

E non abbiate paura di abitare anche i conflitti. Li troviamo nel mondo, ma anche a livello ecclesiale e sociale. Serve la pazienza di trasformarli in capacità di ascolto, di riconoscimento dell’altro, di crescita reciproca. Le tensioni e i conflitti sono parte della vita, ma sappiamo che la loro «risoluzione su di un piano superiore» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 228) è il segno che abbiamo puntato più in alto, più in alto dei nostri interessi particolari, per uscire dalle sabbie mobili dell’inimicizia sociale.

Il terzo verbo è appassionarsi. E questo è un po’ di moda dappertutto: l’inimicizia sociale e non l’amicizia sociale alla quale siamo tutti chiamati. Il terzo verbo, forse, è il più giovanile di tutti e quattro: appassionarsi. C’è uno stile che fa la differenza: la passione per Gesù Cristo e per il suo Vangelo. E questo si vede nel “di più” che mettete per accompagnare altri giovani a prendere in mano la loro vita, ad appassionarsi al loro futuro, a formarsi competenze adeguate per il lavoro. Il Progetto Policoro sia sempre al servizio dei volti concreti, della vita delle persone, soprattutto dei poveri e degli ultimi della nostra società. Come scrivevo nell’Esortazione Apostolica Christus vivit, «voglio ricordare qual è la grande domanda: Tante volte, nella vita, perdiamo tempo a domandarci: “Ma chi sono io?”. Tu puoi domandarti chi sei tu e fare tutta una vita cercando chi sei tu. Ma domandati: “Per chi sono io?”. Tu sei per Dio, senza dubbio. Ma Lui ha voluto che tu sia anche per gli altri, e ha posto in te molte qualità, inclinazioni, doni e carismi che non sono per te, ma per gli altri» (n. 286). In questo senso, puoi domandarti: per chi mi appassiono? Prima di tutto: sono appassionato? E poi: per chi mi appassiono? Che cosa prende il mio cuore? Questa vita è presa con lungimiranza? E non prigioniera delle piccole cose, delle cosine.  Per che cosa mi spendo? Non siamo creati per fare carriera, ma per crescere in comunione con il Creatore e con le creature. Per far crescere.

E qui va ribadito che ci si appassiona quando si ha cura della propria interiorità, se non si trascura la spiritualità, se si studia, se si conosce in profondità la dottrina sociale della Chiesa e ci si sforza di tradurla nel concreto delle situazioni. Non abbiate paura di prestarvi anche gratuitamente per risollevare la vita di chi è scartato. Andate alle periferie a trovare gli scartati. Il contrario della passione, cosa è? L’accidia? La mediocrità o la superficialità, che induce a pensare di sapere già tutto in partenza e a non ricercare soluzioni ai problemi mettendosi in gioco in prima persona. Come ci ricorda don Milani: «Non vedremo sbocciare dei santi finché non ci saremo costruiti dei giovani che vibrino di dolore e di fede pensando all’ingiustizia sociale!». [2] E vi faccio la domanda: voi vibrate di dolore e di fede davanti a tante ingiustizie sociali, allo sfruttamento, alla mancanza di lavoro, allo scarto degli anziani? Appassionarsi è vibrare per questo.

Il quarto e ultimo verbo è accompagnare. Il Progetto Policoro è una rete di relazioni umane ed ecclesiali: molte persone si impegnano ad accompagnarvi, le vostre diocesi vi guardano con speranza, e ciascuno di voi è capace di farsi compagno di strada verso tutti i giovani che incontra sul suo cammino. La vostra presenza nei territori diventa così il segno di una Chiesa che sa prendere per mano. E questo è lo stile di Cristo nei confronti dei discepoli di Emmaus (cfr Lc 24,13-35), che si dimostravano rassegnati, sfiduciati, chiusi, per quello che era capitato a Gerusalemme. Gesù lascia esprimere la loro delusione, ma li aiuta anche a rileggere tutto a partire dalla Pasqua. Così meditava il vescovo Tonino Bello: «È necessario mettersi in viaggio sulla Gerusalemme – Gerico. È l’asse su cui la fede interseca la storia, e la speranza incrocia la disperazione, e la carità si imbatte nei frutti della violenza» [3]. La fede ci dice che la crisi può essere un passaggio di crescita. Voi sapete che da una crisi mai usciremo uguali. Si esce o migliori o peggiori, mai uguali. Lo Spirito di Cristo risorto anima la speranza per uscirne, che diventa aiuto alle persone perché si rialzino, si rimettano in cammino, tornino a sognare e si impegnino nella vita, nella famiglia, nella Chiesa e nella società. E anzi, ricordate che da una crisi non si può uscire da soli. O usciamo insieme o non si può uscire. Rimarremo nel labirinto della crisi.

Cari giovani, alla scuola del magistero sociale della Chiesa, voi siete già segni di speranza. La vostra presenza nelle diocesi possa aiutare tutti a comprendere che l’evangelizzazione passa anche attraverso la cura del lavoro. I 25 anni del Progetto Policoro siano una ripartenza. Vi incoraggio a «sognare insieme» (Lett. enc. Fratelli tutti, 8) per il bene della Chiesa che è in Italia. E vi incoraggio a fare chiasso. I giovani devono fare chiasso. Vi accompagno con la mia preghiera. Invoco sulle vostre famiglie e comunità la benedizione del Signore. E vi chiedo, per favore, di non dimenticarvi di pregare per me. Grazie!

 
 
 

Società solidale

LA MIA LOTTA PER UNA SOCIETA’ SOLIDALE

«Le mie battaglie vanno avanti. Continuerò a lottare, con chi vuole unirsi a me, per costruire una società fondata sui valori della cura, dell’accoglienza e un nuovo umanesimo». Il 30 maggio don Franco Monterubbianesi ha compiuto 90 anni. E lui, dal suo ufficio di Grottaferrata, sui Castelli romani, nella sede della cooperativa sociale Agricoltura Capodarco dove vive ormai da anni, non smette mai di guardare avanti, di fare progetti, di pensare ai più vulnerabili della società, alle persone con disabilità fisica e psichica e alle loro famiglie, ai giovani senza un lavoro e un futuro.

 

Originario di Servigliano, in provincia di Fermo, più di cinquant’anni fa don Monterubbianesi prese con sé un gruppo di 13 persone disabili miodistrofiche, potendole via dalle residenze assistenziali, e andò a vivere insieme a loro in una grande casa sulle colline marchigiane, a Capodarco. Era il Natale del 1966: da quella esperienza di accoglienza e condivisione comunitaria, che indicava una strada alternativa e possibile di inclusione sociale delle persone con disabilità, nasceva la Comunità di Capodarco, una realtà associativa che si sarebbe poi allargata ed estesa nel resto d’Italia, fra cui Roma. In questi decenni, il vulcanico pretedi frontiera marchigiano è stato sostenitore di tante conquiste di civiltà. Lui stesso ricorda quelle che oggi gli stanno più a cuore: «Il problema del “dopo di noi”, ovvero il futuro delle persone disabili una volta che venga meno il sostegno delle famiglie e della loro rete di relazioni. E poi la promozione dell’agricoltura sociale».

 

Nel 1978 a Grottaferrata un gruppo di ospiti della Comunità di Capodarco di Roma ha dato vita a una nuova esperienza comunitaria agricola che oggi è la cooperativa Agricoltura Capodarco, impegnata in percorsi riabilitativi e nell’inserimento lavorativo di persone con disabilità, ex tossicodipendenti, ex carcerati, migranti: una realtà che include 45 dipendenti disabili, un laboratorio vivaistico con 16 ragazzi con disabilità psichica, un centro di formazione professionale per i giovani del territorio, la casa-famiglia per il dopo di noi “Milly e Memmo”.

 

Ora la Comunità di Capodarco vive un momento molto difficile: dopo anni di profonda crisi, lo scorso marzo la Comunità di Roma è stata dichiarata fallita. A novembre del 2020 la cooperativa di Grottaferrata è stata raggiunta da ingiunzione di sfratto, perché gli immobili sui quali sorge e opera appartengono alla Comunità romana. Ma sradicare Agricoltura Capodarco dal suo territorio significherebbe cancellare una storia di solidarietà e integrazione socio-lavorativa di oltre quattro decenni. Il prossimo 4 luglio 2021, a Casal di Principe (Caserta) don Franco riceverà il Premio nazionale “don Peppe Diana”. «Il 19 agosto 2021 ricorrono i miei 65 anni di sacerdozio. Li festeggerò nella nostra sede a Capodarco di Fermo, la nostra prima casa dove tutto è nato». (FC n. 22 del 30 maggio 2021).

 
 
 

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