Post n°4039 pubblicato il 16 Luglio 2024 da namy0000
2024, Avvenire, 15 luglio Bologna. Muore sul Bianco Michele Raule, dall’Ac alle scalate per i bimbi malatiIl 50enne ingegnere stava compiendo l'ascesa per raccogliere donazioni a favore dei piccoli pazienti oncologici. «Il 12 luglio (meteo permettendo) tenterò un’impresa per me “estrema”: dal mare alla vetta del Monte Bianco senza dormire, con il solo uso delle gambe. Partirò alle 5 di mattina da Genova con la bici, che lascerò in fondo alla Val Veny, per proseguire a piedi fino alla vetta. Mi sono allenato parecchio (75.000m D+ da inizio anno), ma non è sicuro che ce la farò. La mia motivazione, già non piccola, sarà rafforzata da una buona causa in cui credo molto: raccogliere fondi per Ageop, associazione di Bologna che aiuta i bambini malati di tumore. Di seguito il link per fare una donazione, anche un piccolo contributo sarà molto gradito». Così scriveva qualche giorno fa sulla sua pagina Facebook Michele Raule. In questa avventura ha trovato la morte domenica pomeriggio, a soli 50 anni, cadendo in un crepaccio sul Monte Bianco, per cause ancora da accertare, quando ormai mancava poco alla meta, il Rifugio Gonella. Raule lascia la moglie e tre figli. ll suo progetto “Quattro vette per cinque Stati” era nato nel 2022 e si sarebbe concluso nel 2025, con la scalata delle cime più alte d'Italia e dei quattro Paesi confinanti – Francia, Svizzera, Slovenia, Austria – percorrendo con la bicicletta i chilometri dal mare più vicino alla meta. Nello stesso punto dell'incidente di Raule era morto un alpinista tedesco il 26 giugno. L’Associazione lo ricorda attraverso le parole della ex presidente diocesana Donatella Broccoli come persona «dal grande cuore», sempre disponibile a dare una mano in parrocchia. Il comparrocchiano Daniele Binda lo definisce proprio nella sua generosità: «Ha raggiunto la pienezza della vita, facendo ciò che più amava. Grande appassionato ed esperto di montagna, sfidava i suoi limiti, e lo faceva sempre con uno sguardo all’ambiente, di cui era grande difensore, e uno ai più deboli». Come dimostra la nobile causa che stava perseguendo con questa ennesima sfida. |
Post n°4038 pubblicato il 13 Luglio 2024 da namy0000
2024, Scarp de’ tenis, aprile Chef Wild. La scelta di Davide: Cucino nei boschi, così sono felice Davide Nanni, noto sui social come lo Chef wild, ha fatto della propria terra e dei legami familiari la sua forza, e il successo. Nella natura selvaggia c’è nato, in particolare a Castrovalva, un borgo fortificato abruzzese, di media montagna, piccolo piccolo, che conta quindici abitanti e si affaccia da uno sperone roccioso a ottocento metri di altitudine. A Castrovalva, Davide ha deciso di prendere in gestione l’agriturismo di famiglia: La locanda Nido d’Aquila. E nei boschi che circondano il paese cuoce le sue ricette in mezzo agli alberi: dalla pasta fresca ai dolci da forno, tutto sulla brace di fortuna che allestisce insieme al padre Mario, personaggio d’altri tempi. Tutto questo è diventato un libro, A sentimento. La mia cucina libera, sincera, selvaggia, edizioni Mondadori. Il libro conduce il lettore alla scoperta dei piatti tipici della tradizione abruzzese – cuore della cucina di Davide Nanni – imparati dal nonno Angelo quando insieme portavano al pascolo le pecore. «A 13 anni ho cominciato ad andare via da Castrovalva. Frequentavo l’istituto alberghiero a Villa Santa Maria, in provincia di Chieti. Vivevo là da lunedì a venerdì e tornavo a casa nel fine settimana. Finita la scuola, nel 2010, sono andato a Londra, ho lavorato anche Locanda Locatelli, ma poi sono tornato. Ho vissuto per qualche anno fra l’Abruzzo e Roma, lavoravo in vari ristoranti. Ma chiedevano orari pieni con uno stipendio molto basso. A un certo punto, nel 2019, ho deciso di partire per l’America, in Florida, in una città che si chiama Longboat Key. Lì ero chef in due ristoranti italiani. Avevo un ottimo stipendio, però facevano delle richieste assurde: la panna nella carbonara oppure la polpetta sopra l’amatriciana. Litigai ci proprietari e tornai a Castrovalva. Poi venne il Covid. Andai in depressione perché non sapevo che fare, dopo 10 anni in cui avevo girato il mondo, lavorando sempre, mi ritrovavo in un paese vuoto, senza una prospettiva di futuro. Mia madre era stufa di vedermi in quello stato. I miei genitori avevano un agriturismo, coltivavano i prodotti, allevavano gli animali, preparavano le cene e l’accoglienza. Un giorno, esasperata, mia madre mi disse: “Davide, perché non provi a lavorare con noi? Fai le tue ricette con i nostri prodotti. Male che vada ritorni all’estero”. Ci provai in estate e la sala era sempre piena. Però, finito il periodo delle vacanze, per tutto l’inverno non venne nessuno. Che ci stavo a fare lì? Ero solo, i miei amici erano andati via. Il mondo era da un’altra parte. Tornai a Roma. Ma non lavoravo. Me ne stavo sul letto, al massimo andavo in palestra. La depressione si riaffacciava. Fu sempre mia madre a prendere in mano la situazione. Un giorno mi disse che a trent’anni stavo buttando via la vita. Fu molto dura. Mi offesi, ma mi resi anche conto che mi aveva colpito nel vivo. le risposi che avevo bisogno di tempo per decidere cosa fare. Dopo due settimane chiamai mio padre e gli proposi di andare nei terreni di nonno Angelo, nel bosco, a cucinare. Lui venne, ma mi prendeva per matto. Gli proposi di girare dei video mentre cucinavo, li postai su Facebook per vedere quale reazione avrebbero suscitato. Mi accontentò. La gente apprezzava molto questo nostro rapporto, ironico, leggero, affettuoso. Ma anche la vita nella natura, il senso di libertà. Mi sono appassionato alla cucina sin da piccolo, quando tornavo da scuola restavo con le nonne: coi fazzoletti in testa impastavano chili e chili di pane e di biscotti per l’agriturismo di mamma e papà. Già allora volevo mettere le mani dentro la pasta soffice e da allora non ho più smesso di mettere il naso in cucina. Per me è una filosofia di vita: sono cresciuto allo stato brado qui in paese, a contatto con la montagna dura, aspra. Mio nonno Angelo era un pastore e un agricoltore, una persona meravigliosa, mi ha insegnato il rispetto della natura, gli animali, e anche per il cibo. Cucinare nei boschi mi ha ridato il sorriso, mi sentivo libero, non ero più schiavo del sistema, realizzavo qualcosa che mi faceva stare bene. Poi è arrivato anche il calore delle persone sui social, mi ha fatto molto bene. Da Pasqua al agosto, il ristorante dei miei genitori dove lavoro, è sempre sold out. E ora in televisione. (…) Gli autori della trasmissione È sempre mezzogiorno mi hanno notato; è piaciuto il format. Mi hanno chiesto se volevo fare un provino. È andata bene, mi dissero: “arrivi dritto al cuore, per quello che dici e come lo dici. Per come vivi la vita”. Adesso sono qui a Castrovalva, apprezzo il silenzio e la tranquillità, sto bene con me stesso e vivere qui mi rende felice. Se voglio vedere gli amici vado a Roma, a Milano vado per la trasmissione in Rai e per vedere la mia fidanzata, Giulia. Finalmente è arrivato anche l’amore. Non posso chiedere di più. La mia solitudine a Castrovalva me la vivo in grazia di Dio. La mia identità parte dalla tradizione, dal cuore abruzzese, quello che aggiungo sono le mie esperienze, anche le più lontane. Alla Locanda facciamo in casa l’87% dei prodotti. Dal vino al formaggio, dall’olio alla carne, dai salumi agli ortaggi. Così, diventa semplice creare un piatto: rinnovi la tradizione o la riprendi laddove era venuta meno. Cerco sempre di dare valore anche alle mie esperienze vissute all’estero. Oggi ho incontrato un amico, avevamo studiato insieme all’istituto alberghiero, non lo vedevo dal 2010. Da due anni non fa più il cuoco, stipendi troppo bassi e orari ingestibili per una famiglia. Dei 26 studenti che eravamo in classe, solo in 6 siamo cuochi. La ristorazione italiana ha un problema serio con il lavoro, non riesce a valorizzare le persone. Molti se ne vanno. Sicuramente vieni pagato meglio, ma non sempre sei felice. Molti, quando mangiano all’agriturismo mi dicono: “Altro che stellato dovresti essere!”. E a me fa più piacere così, che siano le persone a riconoscere il lavoro, la cura, la passione, non un titolo stellato che fa spendere molti soldi sia ai clienti che a me. Contengo i prezzi perché voglio dare l’opportunità di vivere una bella esperienza anche a quelli che non possono permettersi di spendere 200 euro a persona per una cena. Certo, non ci saranno i camerieri in guanti bianchi, però se le persone riescono a percepire “la stella” mangiando alla Locanda, io sono felice. Non chiedo altro». |
Post n°4037 pubblicato il 11 Luglio 2024 da namy0000
2024, Avvenire, 10 luglio A Hiroshima la sfida delle religioni per la paceHiroshima è un luogo profondamente simbolico, perché testimonia le conseguenze di una tecnologia distruttiva e la necessità di una duratura ricerca della pace. Alla tragedia della bomba atomica è associata la figura di Sadako Sasako, una bambina giapponese che quando fu sganciata la bomba atomica su Hiroshima, il 6 agosto 1945, aveva solo due anni. Dopo l’esplosione, Sadako non riportò ferite visibili immediate ma dieci anni dopo, nel 1954, le fu diagnosticata una forma di leucemia causata dalle radiazioni. Durante il suo ricovero in ospedale, Sadako iniziò a realizzare gru di carta secondo la tecnica dell’origami. Si ispirava, in questo suo gesto, a una leggenda giapponese secondo la quale chi piega mille gru vedrà esaudito il proprio desiderio. Nonostante la malattia e i dolori costanti, Sadako riuscì a piegare 1.300 gru prima di morire, il 25 ottobre 1955. |
Post n°4036 pubblicato il 11 Luglio 2024 da namy0000
2024, Avvenire, 10 luglio Manuel, malato di Sla, benedice il suo amico vescovoDall’altare di piazza Unità il vescovo di Trieste, monsignor Enrico Trevisi, domenica ha invocato la benedizione di papa Francesco «su Manuel, un giovane malato di Sla, e su tutti i malati di Sla e di altre gravi patologie». Ma chi è Manuel Riccio Bergamas? Ha 37 anni ed è ammalato di Sla da quando ne aveva ventuno. È a letto, immobilizzato, muove soltanto gli occhi. Per comunicare usa un puntatore ottico, un computer che tiene sopra la testa, in grado di leggere il movimento delle pupille. «Io voglio vivere, non sopravvivere», ha spesso scritto. Il vescovo lo ha chiamato per nome davanti al Papa e alla folla di piazza Unità. «Sì, lo conosco – confida Trevisi –. La patologia era stata diagnostica addirittura nel 2008 e Manuel era ventunenne quando i primi sintomi avevano iniziato a manifestarsi. La sua vita è cambiata radicalmente, ora è immobilizzato in un letto, non ha potuto proseguire l’università. Ma ha lottato e continua a lottare, tant’è che vive in un appartamento che gli è stato dato con un’assistenza 24 ore su 24. Le condizioni del suo fisico sono peggiorate gradualmente, non può respirare, mangiare o bere da solo, eppure Manuel ha un grande cuore ed è attentissimo a quello che succede nel mondo». Sono stati un prete e un amico di Trieste che dopo il suo arrivo in città hanno accompagnato monsignor Trevisi a conoscerlo. «Ho cominciato qualche volta, in loro compagnia, ad andare a trovarlo la sera. Manuel talvolta mi stupisce perché prende lui l’iniziativa mandandomi un messaggio via whatsapp attraverso il puntatore ottico con il quale mi invia la sua benedizione e l’augurio di una buona giornata, e devo dire che la cosa non solo mi sorprende ma è una carica di grazia per l’intera giornata. Lui adesso continua a studiare, continua a impegnarsi, continua a essere interessato a quello che avviene». Un suo messaggio prima della visita del Papa invocava la pace, da una città iconica come Trieste per lingua, culture, fede, opportunità, talvolta contraddizioni, fatiche, ma anche tante speranze. «Manuel – aggiunge il vescovo – chiedeva al Papa di continuare a impegnarsi e a lottare per la pace, a chiedere ai potenti di mettere al bando le armi nucleari e mettere al bando la guerra. Ecco, Manuel è questo. Lui, immobilizzato, non può parlare se non tramite gli occhi, eppure continua a essere attento al mondo intero e alle sofferenze delle persone – racconta Trevisi –. Penso che ci insegni a non essere ripiegati soltanto su sé stessi ma ad avere uno sguardo rivolto al mondo intero. Io ringrazio Manuel, ma ho rivolto la benedizione del Papa su Manuel e su tutti gli ammalati di patologie gravi perché nelle vita talvolta ci possono essere fasi che diventano particolarmente pesanti. E allora ecco l’augurio, il bisogno di una benedizione, perché Manuel e tutte le altre persone possano sentirsi sempre nel cuore di Dio ma anche nel nostro cuore, della Chiesa e di tanti amici, vicini di casa, persone che magari occorre rallentino un poco per stargli vicino. Ma farlo è una grazia». È una grazia, spiega ancora il vescovo, avere il suo cuore capace di attenzione verso tutto quello che sta succedendo nel mondo, con una responsabilità, una chiamata di Dio a non starsene rinchiusi: «Il Papa ha parlato del cancro dell’indifferenza e di essere invece capaci, nel nome di Dio, di assumerci la responsabilità di costruire un mondo diverso di giustizia e di pace». |
Post n°4035 pubblicato il 10 Luglio 2024 da namy0000
2024, Avvenire, 9 luglio Filomena Pennacchio, la brigantessa che passò dalla selva al rosarioValentino Romano ricostruisce la vicenda delle donne che, in Lucania a fine '800,si unirono alle bande guidate dai loro uomini. Furono tutte arrestate, ma non giustiziate
Filomena Pennacchio (1841-1915) (74 anni)
Finalmente un libro su Filomena Pennacchio, una delle brigantesse più fascinose delle lotte postunitarie italiane, prova a raccontare la vita della brigantessa lucana liberandola delle notizie romantiche e fantasiose tramandateci dalla narrativa e dalla saggistica di fine Ottocento. Il libro è curato da Valentino Romano, esperto di brigantaggio e di biografie banditesche, Filomena Pennacchio la regina delle selve. Storia e storie delle donne del brigantaggio, (Carocci, pagine 216, euro 22,00). Consultando l’Archivio storico della Camera dei deputati e l’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito alla voce “Brigantaggio”, il Romano ha modo di ricostruire l’effettiva vicenda biografica di Filomena Pennacchio e quella di molte altre donne cadute nelle mani di briganti postunitari, dalle sorelle Ciminelli di Francavilla sul Sinni a Cherubina Di Pierro di Ferrandina a Concetta Di Muro di Melfi e al numero infinito di donne che “abitarono la selva” e poi le galere, ognuna legata alla banda di un brigante più o meno famoso. Filomena nacque a San Sossio da famiglia povera ed è lei stessa a raccontare davanti al Tribunale militare il suo destino di donna costretta alla macchia. Sostiene di avere 20 anni (ma è una furbata per godere della clemenza riservata ai minorenni) di essere orfana e di essere stata costretta a lavorare in campagna per vivere. «Nell’agosto del 1863, mi trovava a lavorare nella masseria Collamisso, di proprietà di Nicola Misso, in un giorno che più non ricordo, si presentò colà Schiavone colla sua banda. A quella vista mi nascosi impaurita sotto un mucchio di paglia; ma avvedutosene quel brigante venne a trarmi fuori dal mio nascondiglio. E afferratami per un braccio, mi costrinse a montare in groppa al suo cavallo. Non valsero le preghiere e i pianti perché mi lasciasse libera, ma volle condurmi al bosco dopo aver percosso il padrone e il curatolo di quella masseria perché intercedevano per me». In realtà, questa fu una dichiarazione fatta sotto interrogatorio dalla ragazza che era allora di ventitrè anni e non di venti. Non le servì a molto, perché la condanna fu pesante. Sappiamo che Filomena incontrò la prima volta Schiavone il 7 aprile 1862. La scelta della costrizione, spiega Romano, fu adottata da quasi tutte le donne che si accompagnarono a bande brigantesche. Così deposero Maria Giovanna Tito, donna di Crocco, Giuseppina Vitale, donna di Sacchitiello, Filomena Di Poto, donna di Tranchella, Giocondina Marino, rapita da Alessandro Pace e Filomena Cianciarulo, amante di Nicola Masini. L’analisi del Romano è puntuale nel descrivere le scorrerie di Filomena Pennacchio in compagnia di Schiavone. Nell’ottobre del 1862 è a Trevico attiva in un’estorsione, il 7 aprile 1863 è a Vallata dove ruba dei cappotti e un capretto, in luglio è a Orsara nel furto di una mula, il 4 luglio è a Sferracavallo con una banda di settanta uomini che attaccano un drappello del 45° reggimento di linea. Un soldato depose che «Filomena aveva in mano un grosso pistolo di cavalleria e nel tirare i colpi gridava “uccideteli tutti”... era la più franca ad assalire col cavallo che inforcava la forza e ad offenderla con continue esplosioni di una grossa pistola... con due colpi di quell’arma ridusse cadaveri due di quei prodi... si batteva con un coraggio sorprendente e sparava come un uomo, anzi era più spietata». Nel descrivere l’epilogo della vicenda banditesca dei due amanti, Romano smentisce categoricamente l’episodio romantico della visita di Schiavone a Filomena narrata da De Witt e dal medico militare Basilide Del Zio. Lo Sparviero, catturato in tenimento di Candela fu tradotto nelle carceri di Melfi. Qui, nella speranza di un addolcimento di pena il bandito dettò una lista di nomi di compagni sparsi nei territori lucani. Tra questi fece il nome di Filomena che venne arrestata in casa di una levatrice, Angela Battista Prato. Filomena venne rinchiusa nel carcere di Melfi e contribuì con le sue deposizioni alla cattura della Tito e della Vitale. Insieme a Concetta Di Muro e a Luisa Gisi, riconosciute colpevoli di brigantaggio furono condannate a venti anni di lavori forzati. Altre trentacinque donne furono condannate a cinque o dieci anni di carcere semplice o di lavori forzati, altre ventisei popolane furono assolte. Il registro delle pene racconta che per buona condotta o per indulto dovuto ad eventi come il matrimonio del principe Umberto con Margherita gli anni vennero dimezzati. I tribunali non comminarono mai condanne a morte alle donne, se non nell’unico caso di Maria Oliverio, detta Ciccilla. Condanna che fu tramutata in carcere a vita. Il 30 giugno 1865 Filomena Pennacchio venne condannata a vent’anni di lavori forzati, nonostante lo stesso colonnello Pallavicini scrivesse ai giudici che la donna aveva aiutato alcuni soldati e aveva dato notizie sui nascondigli di altre bande. Valentino Romano attacca i De Witt e i Del Zio, tuttavia non va sottaciuto che senza costoro non avremmo focalizzato la sua e nostra attenzione su figure come la Pennacchio. Così continua col discutere intorno alle condanne di genere, ovvero la clemenza che i tribunali mostrarono verso l’universo femminile e scopre la traduzione delle condannate verso carceri del Nord Italia. Filomena, come la Oliverio furono tradotte all’Ergastolo femminile di San Salvario di Torino, dove furono affidate alle suore di San Vincenzo. Nel 1872 Filomena si vide ridurre la pena a sette anni e dai lavori forzati passò a un carcere meno duro e poi liberata. Forse visse a servizio presso qualche famiglia e il 19 aprile 1883 sposò il commerciante di olio Antonio Valperga, con il quale condusse una vita borghese ma tranquilla. Nel carcere Filomena aveva imparato a leggere e scrivere, grazie alle suore vincenziane. Lo comprendiamo dalla firma in calce al documento di matrimonio e che sostituisce un eventuale segno di croce. La regina delle selve si era redenta ed era passata dalle pistole al rosario. Su di lei è in corso di realizzazione un docufilm, Io sono la briganta, e la ricerca dei luoghi ha permesso di individuare la data di morte, impressa sulla tomba, fossa 594, nel cimitero di Torino: il 17 febbraio 1915. |
Inviato da: Penna_Magica
il 08/02/2024 alle 11:19
Inviato da: cassetta2
il 27/12/2023 alle 17:41
Inviato da: cassetta2
il 11/09/2022 alle 12:06
Inviato da: cassetta2
il 31/08/2022 alle 18:17
Inviato da: cassetta2
il 09/05/2022 alle 07:28