Post n°22 pubblicato il 02 Aprile 2009 da Ahira28
"Rondini malinconia di sole, penso a te che nun voi bene a me, voleno pe l'aria le parole…"
A Rina piaceva quella canzone, perché aveva il moroso di Roma e quando la cantava pensava a lui che stava sul fronte russo.
**** Rina era antifascista da quando aveva nove anni, cioè dalla sera in cui una squadraccia aveva sfondato la porta di casa per picchiare suo padre. Ociobel, come lo chiamavano in paese per via dell'unico occhio buono di un azzurro intenso, era colpevole solo di aver litigato con la moglie, la matrigna di Rina, ma dato che lei era amica di una camicia nera era andata, per dispetto, alla sede del fascio a dire che il marito parlava male di Mussolini. Suo padre lo avevano gonfiato al punto che per tre giorni non s'era mosso dal letto. Adele poi si era pentita davanti al sangue schizzato sul muro a calce della cucina, ma Rina, che aveva capito di chi era la colpa, non l'aveva mai più perdonata e non era più andata alle adunanze delle piccole italiane.
A sedici anni Rina se n'era andata di casa, prima dalla nonna con la scusa che il lavoro del tabacco era più vicino, dopo a Verona con una amica, alla Glaxo a chiudere le fiale dei farmaci, che allora si confezionavano a mano, ad una ad una. Il padre l'aveva fatta cercare dai carabinieri ma appena aveva saputo che lei guadagnava più di lui si era calmato e, in cambio di qualche aiuto, l'aveva lasciata in pace in città, non senza qualche sincero piagnucolamento ogni volta che la vedeva tornare al paese più sveglia e più donna. La matrigna invece era contenta quando la vedeva arrivare, perché lei portava sempre del caffè vero e, a volte, anche del pane bianco nonostante la guerra.
Quel giorno Rina faceva vent'anni, era il primo di marzo. Lia la caposquadra le aveva chiesto di restare dentro all'ora del pranzo perché le voleva parlare. Lia e Rina erano amiche, tra le poche nella fabbrica a non essere fasciste anche se non se lo erano mai detto. S'erano capite con lo sguardo quando le compagne commentavano le notizie di guerra o le gesta del Duce. Uscite tutte le operaie alla fine del turno, Lia le si era avvicinata e aveva alzato il volume della radio che le ragazze tenevano accesa per farsi compagnia durante il lavoro. Stavano trasmettendo "Serenata sincera". - Ho bisogno del tuo aiuto all'uscita- - Che devi fare?- - E' una cosa seria Rina- - Allora lo chiedi a me?… Guarda che hai sbagliato persona- aveva risposto lei ridendo. - No, dico per davvero, e lo chiedo a te perché sei quella giusta. Qui nella fabbrica sono nascosti due paracadutisti inglesi- Rina aveva sgranato gli occhi e si era portata la mano sulla bocca quasi a proteggere il silenzio. - Sono nello ripostiglio del materiale, dietro le scatole, gli ho fatto posto io, ma devono essere fuori stasera. Ho portato dei vestiti da donna, devono confondersi in mezzo alle operaie all'uscita, ma io e te dobbiamo distrarre i tedeschi al cancello.- - Perché proprio io?- - Perché posso fidarmi solo di te, e quei crucchi di merda appena vedono una che gli da confidenza subito si immaginano chissacchè e non pensano ad altro, per questo ci vuole una svelta, una con la parlantina sciolta, e che….- - Va bene.- Rina l'aveva interrotta prima che Nella, una delle operaie che stava rientrando, riuscisse a sentire il loro discorso, poi aveva tirato fuori la gavetta con la minestra fredda della sera prima come se niente fosse, ma lo stomaco le si era fatto piccolo piccolo e la fame era sparita. - Avranno fame- aveva aggiunto più piano - Portagli questa prima che rientrano le altre, io vado al bagno.- - Abbiamo i segreti…- aveva scherzato Nella passando loro accanto. Lia non sera mossa, era troppo pericoloso andare nel ripostiglio con le ragazze che stavano rientrando.
La fine del turno era venuta più presto del solito, il tempo era volato e a Rina tremavano le gambe, Lia l'aveva presa sottobraccio ed erano schizzate fuori tra le prime. Al cancello c'era un tedesco giovane e uno più anziano, grasso e con la pelle sudata. Lia lo aveva salutato chiamandolo Fritz poi s'era fermata a chiacchierare. Il tedesco giovane s'era prima guardato intorno con l'aria seccata ma poi aveva ceduto ai sorrisi di Rina e aveva cominciato a pavoneggiarsi del suo mitra nuovo di zecca. Rina continuava a toccare la canna del mitra, a sorridere e fargli i complimenti, lui annuiva con un sorriso ebete senza saper rispondere, convinto di essere assolutamente irresistibile.
Poi era suonato l'allarme aereo, le operaie erano uscite tutte di corsa disperdendosi verso i rifugi, i tedeschi s'erano messi ad urlare com'era loro solito. Rina e Lia erano saltate sulle biciclette ma non erano corse via, Lia con la coda dell'occhio seguiva i due inglesi che a bordo delle biciclette avevano appena voltato l'angolo, Rina s'era incantata a guardare il cielo rosso sopra la strada, pieno di richiami di rondini appena arrivate. - Le rondini Lia, sono arrivate!- - Ti giuro Rina, se va bene oggi, se restiamo vive dopo la guerra, ogni primo marzo ti farò cantare alla radio "serenata sincera"- - Per quanto?- aveva riso Rina - Per sempre!- E mentre si sentivano già le mitragliate non troppo lontane loro se n'erano andate via pedalando piano e cantando "Rondini, malinconia di sole…" col tedesco sudato che urlava loro dietro "Verrückt!"
Io non so se Lia sia riuscita davvero a far trasmettere alla radio questa canzone, o se veniva programmata per caso, pero' quand'ero ragazzina ogni primo marzo trasmettevano "Serenata sincera" e mia madre continuava a dire che era la Lia che non se n'era mai dimenticata; la storia m'è tornata in mente oggi, forse perché qui da noi sono arrivate le rondini.
San Marino 4 Aprile 2002
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Quando esco dall'ospedale la mattina, mentre albeggia, di colpo mi sento addosso la fatica della notte. Stamattina più che mai. Mi pesa il cielo. Libero la macchina dalla nevicata, apro a fatica lo sportello, butto la borsa sul sedile, sento un peso addosso, quasi insopportabile. Non ho voglia di mettere in moto, mi accendo una sigaretta, apro poco poco il vetro, butto la testa indietro e fuori il fumo tutto insieme, come sputassi fuori l’anima e i pensieri. Penso. Penso che ho fatto bene, che era la cosa migliore da fare, poi penso che è la cazzata più grande della mia vita, che mi costerà cara, che costerà cara ad un sacco di gente. Forse. Senza forse, di sicuro. O forse no. Penso che sono una stronza. Penso che ora non ci posso più fare niente. Niente e vada come vada. Io sto al reparto maternità, tre giorni fa si ricovera una per partorire, carina, impaurita, grande, trentacinque anni, un parto a rischio, una gravidanza difficile. Un sacco di gente intorno, un marito tipo -il mio tesoro come sta oggi?- da farti venire il diabete solo a sentirlo. Amiche che arrivano con il cornetto caldo la mattina, a turno, per farle fare colazione che lei non mangia niente, televisore, telefonino con internet, fiori, nonne, zie, gente da cacciare via alla fine dell’ora di visita, insomma una rottura di balle che metà bastava. Stanotte succede il casino, parti a raffica, camere operatorie, sotto sopra, l’ascensore bloccato, l’altra che fa il turno con me che non riesce ad arrivare per la neve, io da sola, due infermiere e un medico di meno. Poi in mezzo al casino che più casino non si può arriva dal pronto soccorso un’altra, una ragazzona sana, tosta, bionda, bella. Una ragazzona dell’est, moldava, con un cognome complicato, che abbiamo subito ribattezzato laslavadeltre. Tre è il numero del letto. Lo so, non si dovrebbe fare. Le faccio firmare i documenti e Dusea, laslavadeltre, mi ha chiede come fare per lasciare il bambino. - Come lasciare? Vuoi dire non riconoscere? Insomma abbandonarlo?- - No abbandonarlo, darlo a istituto infantile. - Non mi guarda neanche in faccia, ha gli occhi lucidi ma l’aria decisa. Poi le sono prese le doglie a raffica e non c’è stato più verso di parlarle. Neanche a dirlo si trovano nella stessa sala travaglio lei e l’altra, quella del parto a rischio. Da una a cacciare via le persone, l’altra sola come un cane, mi divido come posso e aiuto i colleghi, io che dovrei occuparmi solo dei bambini. Insomma, senza giraci tanto intorno, partoriscono insieme e mi ritrovo in braccio due bambini, uno che non respira, cianotico, freddo, e l’altro bello e vitale che scalcia e urla. Sono sola con due bambini, so per esperienza che uno non passerà la notte, ma cazzo, quello bello e grosso finirà chissà dove in un fottuto istituto. Tra un attimo arriva il pediatra a portarsi via quello malandato. Ho due braccialetti in mano e decido, senza pensarci decido, le mani fanno da sole, prendo il braccialetto di Dusea e lo infilo al bambino malandato che non respira, prendo il braccialetto di Ludovica, e lo infilo al bambino di Dusea. Poi mi pento, un frammento di secondo, e se il malandato si riprende? E se qualcuno che ha seguito i parti se li ricorda? Giuro se si riprende domattina denuncio l’errore, con la carenza di gente che c’è non mi licenziano, mi beccherò il cazziatone e pure una denuncia, pace, ne vale la pena. Mi accosto a quell’esserino cianotico, non respira, e in quel momento entra Alberto il pediatra. -Dottore questo è già morto, poi aggiungo - è il figlio della slavadetre, quello che deve essere abbandonato -. Alberto rallenta, l’ho detto apposta, mi sento una grande stronza. E poi il resto va come deve andare, ci metto un sacco di tempo a preparare il bambino da portare a Ludovica, poi telefono in pediatria e mi dicono che il malandatino è stato dichiarato morto. Prendo su Filippo e lo porto alla madre, passo da Dusea e trovo Alberto che le sta dicendo che il bambino è morto. - E’ meglio…è meglio- ripete mentre le lacrime le scendono sul viso. Il mio turno sarebbe finito già da un’ora ma il cambio non arriva e io non ho più tempo da dedicarmi ai pensieri. Non so perché ma stamattina mi sono lavata le mani molte più volte del solito, non ho mangiato niente e non ho preso neanche un caffè. Poi finalmente sono uscita, finalmente una sigaretta finalmente posso smettere di pensarci.
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