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Messaggi di Luglio 2019
Post n°2279 pubblicato il 08 Luglio 2019 da blogtecaolivelli
Fonte: Le Scienze Il nuovo biomateriale creato sfruttando le proprietà di organismi marini unicellulari Fonte: Università di Bologna ©Biosphoto Un gruppo di ricercatori è riuscito ad arricchire lo scheletro di carbonato di calcio prodotto naturalmente dalla foraminifera Amphistrigina lessoni con nano-particelle magnetiche. Una nuova strategia che apre le porte a infinite possibilità per la sintesi di nuovi materiali. Un gruppo di ricercatori guidato da studiosi dell'Università di Bologna è riuscito per la prima volta a sintetizzare un nuovo biomateriale, a base di carbonato di calcio e arricchito con nano -particelle magnetiche, sfruttando le caratteristiche naturali di un organismo marino unicellulare, la foraminifera Amphistrigina lessoni. progressi per individuare i meccanismi da cui nascono i materiali naturali e che ne regolano le proprietà, infatti, in molti casi è ancora impossibile riprodurli in laboratorio. Per questo, gli studiosi autori della ricerca hanno cambiato approccio: non tentare di imitare i processi naturali, ma sfruttarli per produrre nuovi materiali. Una strategia innovativa - presentata sulla rivista Materials Horizons - che potrebbe ora essere replicata anche su altri organismi e con altri "ingredienti", dando così origine a infinite possibilità per la sintesi di nuovi materiali. Tutto parte dalla foraminifera Amphistrigina lessoni, un organismo marino unicellulare capace di produrre uno scheletro composto di carbonato di calcio, materiale molto studiato e molto utile soprattutto in campo biomedicale. Sfruttando questa abilità naturale, i ricercatori sono riusciti ad utilizzare la foraminifera come bioreattore per produrre cristalli bionici di carbonato di calcio arricchiti con nano-particelle magnetiche. Un ingrediente aggiuntivo che è in grado di dare allo scheletro di questi organismi delle proprietà magnetiche addizionali. assorbono l'acqua di mare attraverso vescicole", spiega Giuseppe Falini, professore dell'Università di Bologna che ha coordinato lo studio. "Noi abbiamo voluto studiare se la presenza di un additivo nel mezzo utilizzato per la crescita degli organismi consentisse di sintetizzare cristalli ibridi di calcite e additivo, con caratteristiche non ottenibili tramite la sola sintesi chimica in laboratorio". Una sfida che ha restituito un riscontro positivo: l'additivo aggiunto dai ricercatori ha portato gli organismi ad arricchire il loro scheletro con particelle magnetiche, creando di fatto un nuovo biomateriale. "Sfruttando il processo di biomineralizzazione delle foraminifere - conferma Giulia Magnabosco, prima autrice dello studio - siamo riusciti a fare in modo che all'interno dello scheletro venissero intrappolate particelle magnetiche. In questo modo, è stato possibile sintetizzare un nuovo materiale a base di carbonato di calcio che può essere controllato applicando un campo magnetico esterno". tratto vantaggio dalle abilità delle foraminifere, ma, sottolineano gli autori, in linea di principio può essere applicata anche ad altri organismi calcificanti e ad altre classi di additivi. Uno schema, insomma, da cui potrebbero nascere infinite possibilità per la sintesi di nuovi materiali. Horizons con il titolo "Bionic synthesis of a magnetic calcite skeletal structure through living foraminifera" - è stato condotto da Giulia Magnabosco, Simona Fermani, Matteo Calvaresi e Giuseppe Falini del Dipartimento di Chimica "Giacomo Ciamician" dell'Università di Bologna. Corticelli, Meganne Christian e Vittorio Morandi dell'Istituto per la microelettronica e microsistemi (IMM) del CNR di Bologna, con Cristiano Albonetti dell'Istituto per lo studio dei materiali nanostrutturati (ISMN) del CNR di Bologna e con Hagar Hauzer e Jonathan Erez della Hebrew University of Jerusalem. |
Post n°2278 pubblicato il 08 Luglio 2019 da blogtecaolivelli
Fonte: Le Scienze 05 luglio 2019Comunicato stampa I faggi più vecchid'Europa scopertinel Parco del PollinoFonte: Università della Tuscia © Gianluca Piovesan Nel Parco Nazionale del Pollino scoperti faggi di oltre 600 anni, le latifoglie decidue di clima temperato più antiche del mondo. Il segreto di lunga vita è una crescita lenta ma che aumenta nel corso dei secoli, una condizione che sembra accomunare molti alberi longevi del pianeta inclusi i pini loricati.Pubblicato in "Ecology" l'articolo "Lessons from the wild: Slow but increasing long-term growth allows for maximum longevity in European beech"Scoprire, studiare e preservare le foreste vetuste e i vecchi alberi è una priorità assoluta per la conservazione della natura in questa epoca di cambiamenti globali. In questo studio abbiamo utilizzato il metodo dendrocronologico, ossia basato sulla misurazione degli anelli di accrescimento, per ricostruire le storie di crescita degli alberi in una faggeta vetusta altomontana del Pollinello (Parco Nazionale del Pollino). Due degli alberi datati con il metodo dendrocronologico sono di oltre 620 anni, un'età che li distingue per aver raggiunto una longevità massima nell'ambito della foresta temperato decidua. I due alberi sono stati chiamati Michele e Norman in memoria del botanico Michele Tenore e del viaggiatore e scrittore Norman Douglas che, rispettivamente, nell'ottocento e nei primi del novecento descrivono le fantastiche foreste del Pollino rimarcando la naturalità diffusa degli ecosistemi. Per fortuna la faggeta del Pollinello è stata solo marginalmente toccata dalle forti utilizzazioni forestali del secolo scorso per cui, ancora oggi, si rinvengono tratti praticamente primevi dove gli alberi nascono, crescono e muoiono seguendo un ciclo naturale. caratteri ecologici unici di foresta decidua che entra in contatto con le pinete oromediterranee di pino loricato il popolamento è stato candidato nella lista del patrimonio mondiale dell'umanità "Ancient and Primeval Beech Forests of the Carpathians and Other Regions of Europe". crescita individuale è molto variabile; un albero può impiegare da uno a oltre sette secoli per raggiungere una grande dimensione (diametro a petto d'uomo maggiore di 60 cm). Va rimarcato che in questi boschi la carie, ossia il marciume del legno, attacca spesso i tronchi del faggio rendendo difficile la datazione. Tuttavia, una ricostruzione delle età evidenzia la possibilità che alcuni alberi con il tronco cariato possano avere oltre 800 anni fino a sfiorare il millennio. La ricerca in corso con metodi integrati dendrocronologia e radiocarbonio ha quindi l'obiettivo di verificare scientificamente questa proiezione basata per ora su modelli di crescita basati sugli anelli misurati nella prima parte (ossia la più antica) del legno sano. faggi, i più antichi d'Europa, è quella di un accrescimento lento ma crescente nel lungo termine, una condizione che si sta confermando sempre più nel mondo degli alberi quale prerequisito per raggiungere longevità estreme. Soppressione della crescita nelle prime fasi della vita dovuta a competizione e condizioni climatiche estreme sembrano così essere il segreto di una vita lunga. Sempre a causa delle condizioni ambientali severe gli alberi non sviluppano altezze importanti ma mantengono una dimensione più ridotta intorno ai 15-25 m che conferisce loro una maggiore resistenza agli eventi climatici estremi. Faggi di oltre 500 anni sono stati rinvenuti in condizioni stazionali simili nelle boschi vetusti dei Parchi Nazionali del Casentino e di Abruzzo, faggete riconosciute patrimonio mondiale Unesco nel 2017. Gli alberi habitat che racchiudono queste faggete vetuste ospitano una biodiversità unica di tante specie di vegetali e animali oggi a rischio di estinzione perché l'uomo nel corso dei secoli ha distrutto quasi dappertutto nel bioma temperato questi ambienti di foresta vergine. Grazie ai nuclei di foresta vetusta sopravvissuti insieme ad la politica del rewilding attuata dai Parchi Nazionali e dai Carabinieri Forestali nel corso degli ultimi decenni oggi si sta cercando di salvare questi scrigni di biodiversità e di servizi ecosistemici per la collettività. lungo termine possibili grazie ad una collaborazione tra Parchi Nazionali, in questo caso del Pollino che ha finanziato lo studio, ed Università, nella fattispecie di questo studio Dipartimento di eccellenza Scienze Agrarie e Forestali dell'Università della Tuscia. La ricerca viene ora divulgata quale buona prassi per la conservazione degli ecosistemi forestali nell'ambito del progetto FISR-Miur Italian Mountain Lab con la finalità di diffondere i contributi della biologia della conservazione nella gestione forestale per intraprendere la strada dello sviluppo sostenibile in attuazione degli obiettivi previsti nell'ambito dell'Agenda 2030. long-term growth allows for maximum longevity in European beech" by Gianluca Piovesan, Franco Biondi, Michele Baliva, Giuseppe De Vivo, Vittoria Marchianò, Aldo Schettino, and Alfredo Di Filippo published in Ecology. https://doi.org/ 10.1002/ecy.2737 |
Post n°2277 pubblicato il 08 Luglio 2019 da blogtecaolivelli
Fonte:Ansa Scoperti i resti umani più antichi del Nord Italia Di 300mila anni fa, scoperta di ateneo Ferrara nel Vercellese Redazione ANSA FERRARA 05 luglio 201906:19 L'incisivo inferiore di un giovane adulto e un osso occipitale intero (la parte posteriore del cranio) risalenti a circa 300mila anni fa: sono i resti umani più antichi del Nord Italia e sono stati rinvenuti nel Vercellese, nella Grotta di Ciota Ciara a Borgosesia. La scoperta è avvenuta durante una campagna di scavi condotta da docenti, ricercatori e studenti del Dipartimento di Studi Umanistici dell'Università di Ferrara grazie alla concessione del Mibac. sono davvero fondamentali per definire la storia evolutiva dell'uomo in Europa", sottolinea Marta Arzarello, docente di Scienze preistoriche e antropologiche a Ferrara: "Proprio su di esso sono presenti delle strutture che definiscono la specie Neandertaliana: il famoso 'chignon' (rigonfiamento) occipitale e la sottostante fossa soprainiaca". spiegano i ricercatori, e permetteranno di documentare il periodo cronologico che vede il passaggio dall'Homo heidelbergensis all'Homo neanderthalensis. come rifugio durante la caccia e successivamente per delle occupazioni più lunghe, probabilmente stagionali per poi finire con un'ultima occupazione di breve durata. La datazione, con metodi radiometrici, del sito è ancora in corso presso il Muséum National d'Histoire Naturelle di Parigi ma i risultati preliminari lasciano pensare che la parte centrale (in termini di cronologia) del giacimento sia da attribuire a circa 300mila anni fa. RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA |
Post n°2276 pubblicato il 04 Luglio 2019 da blogtecaolivelli
due nuovi attori che hanno preso parte alle nostre origini: gran parte degli elementi pesanti presenti nel sistema solare non derivano nelle esplosioni di supernova, ma dalla fusione di due stelle di neutroni avvenuta nelle vicinanze del nostro Sole
così penetrato nella nostra mente da rischiare di perdere parte della sua poesia. Sì, elementi più pesanti dell'idrogeno e dell'elio presenti nell'ambiente terrestre sono stati forgiati da vari antichi cicli di vita di generazioni di stelle. Molte di queste fornaci cosmiche hanno espulso il loro contenuto nel vuoto, inquinando la nostra galassia con tracce dei nuclei atomici che chiamiamo ossigeno, carbonio, ferro e altro ancora. E nel corso degli eoni la gravità ha provocato la ricondensazione di questa materia interstellare. Come risultato, gli elementi sono stati separati, permettendo alla materia stellare di diventare straordinariamente concentrata, creando nuove stelle, pianeti, e gli ammassi di nuclei pesanti che costituiscono gli esseri umani e la loro assurda complessità. Tutto ciò è fantastico, ma ripetete la storia un gran numero di volte e comincerà a suonare un po' banale. Una parte della ragione è che la narrazione può diventare vaga - dal parlare in termini generali di generazioni precedenti di stelle ormai invisibili fino alle nostre ampie descrizioni della natura della materia interstellare. È un po' come quando un parente anziano vi racconta dell'albero genealogico della vostra famiglia fino alla quinta generazione. Ci può essere poco con cui identificarsi, anche se ci piacerebbe farlo. La storia diventa molto più interessante quando si guarda più da vicino. Per prima cosa, non tutti gli elementi sono prodotti allo stesso modo. Forse l'esempio più interessante è quello degli elementi del cosiddetto "processo r".
di alcuni elementi, ma per quella degli elementi più pesanti del ferro sono necessari processi ancora più energetici. (© Science Photo Library / AGF) Questi elementi hanno nuclei più pesanti del ferro e sono costruiti da un meccanismo chiamato cattura rapida dei neutroni. Come suggerisce il nome, c'è bisogno di qualcosa per catturare i neutroni, sotto forma di nuclei "seme", e c'è bisogno di un tremendo flusso di neutroni, che sia abbastanza veloce da andare a formare dei nuclei al di là di qualsiasi configurazione intermedia altamente instabile. Ma dove si trovano ambienti di questo tipo? Nel 2017 gli osservatori delle onde gravitazionali LIGO e Virgo hanno fatto scalpore rilevando la firma di una fusione di due stelle di neutroni. Due sfere di massa stellare di materiale nucleare hanno spiraleggiato una verso l'altra con un urlo di oscillazioni spazio-temporali di intensità crescente. A differenza della fusione di un buco nero binario, quell'evento ha prodotto una quantità prodigiosa di radiazioni elettromagnetiche nella cosiddetta kilonova (letteralmente, mille volte l'emissione di una normale stella nova). Lo studio telescopico della kilonova ha fornito un sostegno convincente all'idea che la fusone di stelle di neutroni rappresenti un paradiso per il processo r. Ciò suggerisce che questi eventi cataclismatici giochino un ruolo importante nel rifornire il nostro paesaggio galattico di alcuni degli elementi più pesanti. Dall'oro, platino e iridio al torio e all'uranio, fino a elementi di breve durata come il plutonio. Ora, una nuova ricerca di Bartos e Marka, pubblicata nei giorni scorsi su "Nature", offre una visione creativa e piuttosto sorprendente delle origini degli elementi del processo r nel nostro sistema solare. I ricercatori hanno combinato due analisi chiave. Una quella dei dati sui meteoriti che conservano le prove del mix di elementi nel nostro sistema solare in formazione, circa 4,6 miliardi di anni fa. L'altra è un ingegnoso modello statistico della storia delle fusioni di stelle di neutroni della galassia. La ricerca indica che all'alba della nostra storia cosmica locale si è verificata una collisione di stelle di neutroni molto vicina. Tracce di questo evento unico sembrano essere presenti nei dettagli dei radioisotopi dovuti al processo r che hanno irrorato il nostro sistema in formazione dopo la collisione delle stelle di neutroni. Raggiungere questa conclusione richiede una certa flessibilità mentale e un duro lavoro. Le fusioni di stelle di neutroni sono cosmicamente rare nella Via Lattea, variando tra uno e cento eventi per milione di anni in tutta la sua estensione. Alcuni elementi del processo r, come gli attinidi ( tra cui curio-247, plutonio-244 e iodio-129), hanno emivite relativamente brevi, nell'ordine delle decine di milioni di anni, ma hanno lasciato tracce specifiche nel materiale meteoritico dell'antico sistema solare, che ci permettono di misurare le loro abbondanze originali. Quindi, la quantità di questi elementi che esisteva durante la finestra di tempo in cui si stava formando il nostro sistema solare offre uno strumento per valutare non solo l'epoca in cui sono stati forgiati quegli elementi, ma anche la distanza a cui doveva trovarsi quella fucina. Costruendo una simulazione delle fusioni di stelle di neutroni nella nostra galassia, nel corso della sua storia fino alla formazione del nostro sistema solare (nei circa 9 miliardi di anni di esistenza della Via Lattea), Bartos e Marka hanno potuto esaminare quali scenari potrebbero aver prodotto la miscela di attinidi ricavata dalle analisi meteoritiche.
gravitazionali da parte di LIGO, in primo piano a destra (Science Photo Library / AGF) sola kilonova prodotta da una fusione di stelle di neutroni che si darebbe verificata entro 80 milioni di anni (più o meno 40) dalla formazione del sistema solare e a circa mille anni luce di distanza. I ricercatori stimano che un evento di kilonova così vicino avrebbe occultato tutto il cielo notturno per oltre un giorno. Quattro miliardi e mezzo di anni fa, quando gli elementi appena generati dalla fusione furono proiettati all'esterno e si diffusero nello spazio interstellare, circa 10^20 chilogrammi di essi finirono per depositarsi nel nostro giovane sistema. Da lì si può capire quanta parte del deposito terrestre di elementi del processo r proveniva da quell'unico evento. Per esempio, l'equivalente di un ciglio circa dello iodio nel vostro corpo sarà arrivato da quelle stelle di neutroni. Un'automobile Tesla Model 3 contiene un totale di circa 5 grammi dei nuclei generati da questa specifica fusione di stelle di neutroni. Un moderno reattore a fissione, che usa uranio arricchito, conterrà circa 200 chilogrammi di materiale che è stato prodotto in quell'unica esplosione cosmica. Cosa significativa, lo studio sembra anche escludere che fra i produttori primari di elementi di processo r in tutta la galassia vi siano stati eventi come le supernove a collasso nucleare, legate all'implosione di stelle massicce. Quegli eventi, che si verificano centinaia o addirittura migliaia di volte più frequentemente delle fusioni di stelle di neutroni, non sembrano corrispondere ai dati. Nel complesso, sembra che possiamo aggiornare il racconto delle nostre origini dalla "polvere di stelle". Non solo siamo in debito con una fisica ancora più esotica ed estrema di quanto forse immaginassimo, ma ora dobbiamo collocare sull'albero genealogico due membri molto specifici della nostra tribù ancestrale: una coppia di stelle di neutroni amanti, il cui abbraccio è stato letteralmente infuocato. della Columbia University. E' autore e coautore di oltre 100 articoli di ricerca in astronomia e astrofisica. Nel 2012 ha vinto il premio Chambliss dell'AAS. Per "Le Scienze" ha scritto L'universo in scala, (In) significanza cosmica, La generosità dei buchi neri. ------------------------- "Scientific American" il 1° maggio 2019. Traduzione ed editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.) |
Post n°2275 pubblicato il 04 Luglio 2019 da blogtecaolivelli
Fonte: Internet Homo di Denisova Ingresso della grotta luogo di ritrovamento dei resti dell'Homo di Denisova L'Homo di Denisova o donna X è il nome dato ad un ominide i cui scarsi resti sono stati ritrovati nei Monti Altaj in Siberia. La scoperta è stata annunciata nel marzo 2010, quando al termine della completa analisi del DNA mitocondriale (mtDNA) è stato ipotizzato che possa trattarsi di una nuova specie. Questo esemplare di ominide è vissuto in un periodo compreso tra 70.000 e 40.000 anni fa in aree popolate principalmente da sapiens e in parte da neanderthal; ciononostante, la sua origine e la sua migrazione apparirebbero distinte da quelle delle altre due specie, e il mtDNA del Denisovarisulterebbe differente dai mtDNA di H. neanderthalensis e H. sapiens. L'uomo di Denisova è strettamente imparentato con l'uomo di Neanderthal: le due specie si sarebbero separate circa 300.000 anni or sono. Scoperta Un team di scienziati dell'Istituto Max Planck di antropologia di Lipsia guidati da Svante Pääbo sequenziò il DNA mitocondriale (che si eredita solo per linea materna), estratto dal frammento osseo di un dito mignolo di un giovane individuo di età stimata tra i 5 e i 7 anni e di sesso incerto nonostante gli fosse stato attribuito il soprannome di donna X. Il reperto venne alla luce nel 2008 nelle grotte di Denisova sui Monti Altaj in Siberia. Nello stesso strato di terreno apparvero piccoli oggetti lavorati riconducibili all'Homo di Denisova. L'analisi del mtDNA ha inoltre suggerito che questa nuova specie di ominidi sia il risultato di una migrazione precoce dall'Africa, distinta dalla successiva migrazione dall'Africa associata a uomini di Neanderthal e umani moderni, ma anche distinta dal precedente esodo africano di Homo erectus.Pääbo ha rilevato l'esistenza di questo ramo lontano che crea un quadro molto più complesso del genere umano durante il tardo Pleistocene. Nel 2010, un secondo documento del gruppo di Svante Pääbo ha riferito di una prima scoperta del 2000, di un terzo molare superiore di un giovane adulto, risalente a circa lo stesso periodo (il dito era nel livello 11 della sequenza della grotta, il dente nel livello 11.1). Il dente differiva in diversi aspetti da quelli di Neanderthal pur avendo caratteristiche arcaiche, simili ai denti dell'Homo erectus. Il gruppo eseguì nuovamente l'analisi del DNA mitocondriale sul dente e rilevò che la sequenza era diversa, ma simile a quella dell'osso del dito, indicando un tempo di divergenza di circa 7500 anni, e suggerendo che appartenesse ad un individuo differente della stessa popolazione. Nel 2011 un osso del dito di un piede è stato scoperto nello strato 11 della grotta, quindi contemporaneo all'osso del dito della mano. La caratterizzazione preliminare del DNA mitocondriale del midollo suggerisce che appartenesse ad un uomo di Neanderthal e non ad un Denisovano. La grotta Altaj contiene anche reperti ossei e strumenti di pietra fatti da esseri umani moderni e Pääbo ha commentato: "L'unico posto in cui siamo sicuri che tutte e tre le forme umane hanno vissuto anche se in diversi periodi temporali, è qui nella grotta Denisova". Ibridazione con Homo sapiens Studi genetici indicano che approssimativamente il 4% del DNA dell'Homo sapiens non africano è lo stesso trovato nell'Homo neanderthalensis suggerendo una origine comune.I test che mettano in comparazione il genoma dell'Homo di Denisova con quello di 6 differenti Homo sapiens come un ǃKung dal Sudafrica, un nigeriano, un francese, un Papua della Nuova Guinea, un abitante dell'isola di Bougainville e uno della stirpe Han, dimostrano che dal 4 al 6% del genoma deimelanesiani (rappresentato dagli uomini dell'isola di Bougainville), derivano dalla popolazione di Denisova. Questi geni sono stati verosimilmente introdotti durante la prima migrazione umana degli antenati dei melanesiani nel sud-est asiatico. Quindi, concludendo, è verosimile ipotizzare un'ibridazione tra Homo di Denisova e Homo sapiens, che ha interessato le popolazioni del sud-est asiatico antico e quelle, loro dirette discendenti, australiane. L'apporto genetico denisoviano alle altre popolazioni asiatiche è limitato e, come in quelle europee e amerindie, deriva in buona parte dall'ibridazione, avvenuta in precedenza, con i Neanderthal (che a loro volta si erano ibridati con i Denisova). Nel 2019, un team internazionale di ricercatori, dopo aver analizzato il genoma completo di 161 persone provenienti da 14 gruppi differenti in Indonesia e Papua Nuova Guinea, suggerisce l'ipotesi che un gruppo di denisoviani si sia ibridato tardivamente con le popolazioni locali diHomo sapiens circa 15.000 anni fa. Come affermato nello studio gli abitanti della Papua Nuova Guinea recano infatti tracce nel dna di due popolazioni denisoviane differenti, denominate D1 e D2, e divergenti tra loro di circa 283.000 anni. Mentre la seconda tipologia è molto più diffusa, la prima è identificabile unicamente negli abitanti dell'isola. Non tutto il mondo accademico tuttavia si è detto convinto delle conclusioni della ricerca. Un altro scenario ipotizzato prevede un primo incontro tra umani moderni e denisoviani. Dopo un'ibridazione iniziale, il gruppo si sarebbe separato portando con sé due differenti "set" di geni denisoviani. Infine, le due popolazioni sarebbero venute nuovamente a contatto, incrociando nuovamente il dna. Aspetto fisico Data l'estrema limitatezza dei reperti, ben poco si sa sulle caratteristiche fisiche di questi individui. Il sequenziamento del genoma estratto dalla falange ritrovata nel 2008 a Denisova (Siberia meridionale) ha permesso di definire che il soggetto esaminato, una femmina, avesse carnagione scura con occhi e capelli castani. Dalle ultime analisi del mtDNA e del DNA nucleare risulta che l'Uomo di Denisova si sarebbe separato dal comune antenato di Neanderthal e uomo moderno circa 1.000.000 di anni fa e che in seguito si sarebbe incrociato con l'Homo sapiensprogenitore dei moderni abitanti della Papua Nuova Guinea, con i quali condivide il 4-6% del genoma; provando così (come già con l'uomo di Neanderthal) l'Ipotesi multiregionale di interscambio genetico tra antichi e moderni Homo sapiens Analisi del DNA mitocondriale Il DNA mitocondriale (mtDNA) proveniente dall'osso del dito è diverso da quello degli esseri umani moderni per 385 basi (nucleotidi), su un totale di circa 16.500 basi presenti in un lfilamento del DNA mitocondriale, mentre la differenza tra gli esseri umani moderni ed i Neanderthal è di circa 202 basi. Considerando che la differenza tra scimpanzé e gli esseri umani moderni è di circa 1.462 paia di basi del DNA mitoconpdriale ciò suggerisce un tempo di divergenza di circa un milione di anni. L'mtDNA di un dente aveva una somiglianza elevata con quella dell'osso del dito, indicando che entrambi appartenevano alla stessa popolazione. È stata recuperata una sequenza di mtDNA su un secondo dente che ha mostrato un numero inaspettatamente elevato di differenze genetiche rispetto a quella riscontrata nell'altro dente e nel dito, suggerendo un elevato grado di diversità mtDNA. Questi due individui, rinvenuti nella stessa grotta, hanno mostrato una diversità tra loro maggiore di quella rilevata campionando gli uomini di Neanderthal di tutta l'Eurasia. Un tasso di diversità paragonabile a quello che distingue gli esseri umani moderni provenienti da diversi continenti Analisi del DNA nucleare Nello stesso studio del 2010, gli autori hanno effettuato l'isolamento e il sequenziamento del DNA nucleare dell'osso del dito del Denisova. Questo esemplare ha mostrato un insolito grado di conservazione del DNA e un basso livello di contaminazione. Sono stati in grado di raggiungere quasi il completo sequenziamento genomico, consentendo un confronto dettagliato con i Neanderthal e gli umani moderni. Da questa analisi hanno concluso, nonostante l 'apparente divergenza della loro sequenza mitocondriale, che gli uomini di Denisova e i Neanderthal hanno condiviso un ramo comune ancestrale che porta ai moderni esseri umani africani. Il tempo medio stimato di divergenza tra le sequenze dei denisoviani e dei Neanderthal è di circa 640 000 anni fa, mentre il tempo di divergenza tra le sequenze di ciascuno di essi e le sequenze degli africani moderni è di 804 000 anni fa. Ciò suggerisce che la divergenza dei risultati mitocondriali del Denisova derivi o dalla persistenza di un lignaggio epurato dagli altri rami attraverso deriva genetica oppure da un'introgressione di un lignaggio di un ominide più arcaico. Nel 2013, la sequenza di mtDNA prelevata dal femore di un Homo heidelbergensis di 400.000 anni fa proveniente dalla Grota Sima in Spagna è risultata essere simile a quella di Denisova. |
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