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Messaggi di Luglio 2019

Un nuovo biomateriale.

Post n°2279 pubblicato il 08 Luglio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

Il nuovo biomateriale

creato sfruttando le

proprietà di organismi

marini unicellulari

Fonte: Università di Bologna

©Biosphoto Un gruppo di ricercatori è

riuscito ad arricchire lo scheletro di carbonato

di calcio prodotto naturalmente dalla foraminifera

 Amphistrigina lessoni con nano-particelle magnetiche.

Una nuova strategia che apre le porte a infinite

possibilità per la sintesi di nuovi materiali.

Un gruppo di ricercatori guidato da studiosi

dell'Università di Bologna è riuscito per la prima

volta a sintetizzare un nuovo biomateriale, a

base di carbonato di calcio e arricchito con nano

-particelle magnetiche, sfruttando le caratteristiche

naturali di un organismo marino unicellulare, la

foraminifera Amphistrigina lessoni.
 
Anche se negli anni sono stati fatti grandi

progressi per individuare i meccanismi da cui

nascono i materiali naturali e che ne regolano

le proprietà, infatti, in molti casi è ancora

impossibile riprodurli in laboratorio.

Per questo, gli studiosi autori della ricerca

hanno cambiato approccio: non tentare di

imitare i processi naturali, ma sfruttarli per

produrre nuovi materiali.

Una strategia innovativa - presentata sulla

rivista Materials Horizons - che potrebbe ora

essere replicata anche su altri organismi e

con altri "ingredienti", dando così origine a

infinite possibilità per la sintesi di nuovi materiali.
 
Un bioreattore naturale

Tutto parte dalla foraminifera Amphistrigina

lessoni, un organismo marino unicellulare capace

di produrre uno scheletro composto di carbonato

di calcio, materiale molto studiato e molto utile

soprattutto in campo biomedicale.

Sfruttando questa abilità naturale, i ricercatori

sono riusciti ad utilizzare la foraminifera come

bioreattore per produrre cristalli bionici di

carbonato di calcio arricchiti con nano-particelle

magnetiche.

Un ingrediente aggiuntivo che è in grado di dare

allo scheletro di questi organismi delle proprietà

magnetiche addizionali.
 
"Per produrre il loro scheletro, le foraminifere

assorbono l'acqua di mare attraverso vescicole",

spiega Giuseppe Falini, professore dell'Università

di Bologna che ha coordinato lo studio.

"Noi abbiamo voluto studiare se la presenza di

un additivo nel mezzo utilizzato per la crescita

degli organismi consentisse di sintetizzare cristalli

ibridi di calcite e additivo, con caratteristiche non

ottenibili tramite la sola sintesi chimica in laboratorio".
 
Scheletri magnetici

Una sfida che ha restituito un riscontro positivo:

l'additivo aggiunto dai ricercatori ha portato gli

organismi ad arricchire il loro scheletro con particelle

magnetiche, creando di fatto un nuovo biomateriale.

"Sfruttando il processo di biomineralizzazione

delle foraminifere - conferma Giulia Magnabosco,

prima autrice dello studio - siamo riusciti a fare in

modo che all'interno dello scheletro venissero

intrappolate particelle magnetiche.

In questo modo, è stato possibile sintetizzare

un nuovo materiale a base di carbonato di calcio

che può essere controllato applicando un campo

magnetico esterno".
 
Una nuova strategia che in questo caso ha

tratto vantaggio dalle abilità delle foraminifere,

ma, sottolineano gli autori, in linea di principio

può essere applicata anche ad altri organismi

calcificanti e ad altre classi di additivi.

Uno schema, insomma, da cui potrebbero

nascere infinite possibilità per la sintesi di

nuovi materiali.
 
I protagonisti dello studio
Lo studio - pubblicato sulla rivista Materials

Horizons con il titolo "Bionic synthesis of a

magnetic calcite skeletal structure through

living foraminifera" - è stato condotto da Giulia

Magnabosco, Simona Fermani, Matteo Calvaresi

e Giuseppe Falini del Dipartimento di Chimica

"Giacomo Ciamician" dell'Università di Bologna.
 
Hanno collaborato inoltre Vittorio Franco

Corticelli, Meganne Christian e Vittorio Morandi

dell'Istituto per la microelettronica e microsistemi

(IMM) del CNR di Bologna, con Cristiano Albonetti

dell'Istituto per lo studio dei materiali nanostrutturati

(ISMN) del CNR di Bologna e con Hagar Hauzer e

Jonathan Erez della Hebrew University of Jerusalem.

 
 
 

I più antichi faggi d'Europa.

Post n°2278 pubblicato il 08 Luglio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

05 luglio 2019Comunicato stampa

I faggi più vecchid'Europa scopertinel Parco del Pollino

Fonte: Università della Tuscia

© Gianluca Piovesan Nel Parco Nazionale del

Pollino scoperti faggi di oltre 600 anni, le

latifoglie decidue di clima temperato più antiche

del mondo.

Il segreto di lunga vita è una crescita lenta ma

che aumenta nel corso dei secoli, una condizione

che sembra accomunare molti alberi longevi del

pianeta inclusi i pini loricati.Pubblicato in "Ecology"

l'articolo "Lessons from the wild:

Slow but increasing long-term growth allows for

maximum longevity in European beech"Scoprire,

studiare e preservare le foreste vetuste e i

vecchi alberi è una priorità assoluta per la

conservazione della natura in questa epoca

di cambiamenti globali. In questo studio

abbiamo utilizzato il metodo dendrocronologico,

ossia basato sulla misurazione degli anelli di

accrescimento, per ricostruire le storie di crescita

degli alberi in una faggeta vetusta altomontana

del Pollinello (Parco Nazionale del Pollino).

Due degli alberi datati con il metodo dendrocronologico

sono di oltre 620 anni, un'età che li distingue per

aver raggiunto una longevità massima nell'ambito

della foresta temperato decidua.

I due alberi sono stati chiamati Michele e Norman

in memoria del botanico Michele Tenore e del

viaggiatore e scrittore Norman Douglas che,

rispettivamente, nell'ottocento e nei primi del

novecento descrivono le fantastiche foreste

del Pollino rimarcando la naturalità diffusa degli

ecosistemi.

Per fortuna la faggeta del Pollinello è stata solo

marginalmente toccata dalle forti utilizzazioni

forestali del secolo scorso per cui, ancora oggi,

si rinvengono tratti praticamente primevi dove

gli alberi nascono, crescono e muoiono

seguendo un ciclo naturale.

Per le alte caratteristiche di naturalità e per i

caratteri ecologici unici di foresta decidua che

entra in contatto con le pinete oromediterranee

di pino loricato il popolamento è stato candidato

nella lista del patrimonio mondiale dell'umanità

"Ancient and Primeval Beech Forests of the

Carpathians and Other Regions of Europe".

In queste foreste vetuste la storia della

crescita individuale è molto variabile; un albero

può impiegare da uno a oltre sette secoli per

raggiungere una grande dimensione (diametro

a petto d'uomo maggiore di 60 cm).

Va rimarcato che in questi boschi la carie,

ossia il marciume del legno, attacca spesso

i tronchi del faggio rendendo difficile la datazione.

Tuttavia, una ricostruzione delle età evidenzia

la possibilità che alcuni alberi con il tronco cariato

possano avere oltre 800 anni fino a sfiorare

il millennio.

La ricerca in corso con metodi integrati

dendrocronologia e radiocarbonio ha quindi

l'obiettivo di verificare scientificamente questa

proiezione basata per ora su modelli di crescita

basati sugli anelli misurati nella prima parte

(ossia la più antica) del legno sano.

La regola che contraddistingue questi vecchi

faggi, i più antichi d'Europa, è quella di un

accrescimento lento ma crescente nel lungo

termine, una condizione che si sta confermando

sempre più nel mondo degli alberi quale prerequisito

per raggiungere longevità estreme.

Soppressione della crescita nelle prime fasi della

vita dovuta a competizione e condizioni climatiche

estreme sembrano così essere il segreto di una

vita lunga. Sempre a causa delle condizioni ambientali

severe gli alberi non sviluppano altezze importanti

ma mantengono una dimensione più ridotta intorno

ai 15-25 m che conferisce loro una maggiore

resistenza agli eventi climatici estremi.

Faggi di oltre 500 anni sono stati rinvenuti in

condizioni stazionali simili nelle boschi vetusti dei

Parchi Nazionali del Casentino e di Abruzzo, faggete

riconosciute patrimonio mondiale Unesco nel 2017.

Gli alberi habitat che racchiudono queste faggete

vetuste ospitano una biodiversità unica di tante

specie di vegetali e animali oggi a rischio di estinzione

perché l'uomo nel corso dei secoli ha distrutto

quasi dappertutto nel bioma temperato questi

ambienti di foresta vergine.

Grazie ai nuclei di foresta vetusta sopravvissuti

insieme ad la politica del rewilding attuata dai

Parchi Nazionali e dai Carabinieri Forestali nel

corso degli ultimi decenni oggi si sta cercando di

salvare questi scrigni di biodiversità e di servizi

ecosistemici per la collettività.

Si tratta di politiche ambientali e di ricerche di

lungo termine possibili grazie ad una collaborazione

tra Parchi Nazionali, in questo caso del Pollino

che ha finanziato lo studio, ed Università, nella

fattispecie di questo studio Dipartimento di

eccellenza Scienze Agrarie e Forestali dell'Università

della Tuscia.

La ricerca viene ora divulgata quale buona prassi

per la conservazione degli ecosistemi forestali

nell'ambito del progetto FISR-Miur Italian Mountain

Lab con la finalità di diffondere i contributi della

biologia della conservazione nella gestione

forestale per intraprendere la strada dello

sviluppo sostenibile in attuazione degli obiettivi

previsti nell'ambito dell'Agenda 2030.


 "Lessons from the wild: Slow but increasing

long-term growth allows for maximum longevity

in European beech" by Gianluca Piovesan, Franco

Biondi, Michele Baliva, Giuseppe De Vivo,

Vittoria Marchianò, Aldo Schettino, and Alfredo

Di Filippo published in Ecology. https://doi.org/

10.1002/ecy.2737

 
 
 

Scoperti i resti umani più antichi del Nord Italia

Post n°2277 pubblicato il 08 Luglio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte:Ansa

Scoperti i resti umani più antichi del Nord Italia

Di 300mila anni fa, scoperta di ateneo Ferrara nel Vercellese

Redazione ANSA FERRARA 

05 luglio 201906:19

L'incisivo inferiore di un giovane adulto e un osso

occipitale intero (la parte posteriore del cranio) risalenti

a circa 300mila anni fa: sono i resti umani più antichi del

Nord Italia e sono stati rinvenuti nel Vercellese, nella

Grotta di Ciota Ciara a Borgosesia.

La scoperta è avvenuta durante una campagna di scavi

condotta da docenti, ricercatori e studenti del Dipartimento

di Studi Umanistici dell'Università di Ferrara grazie alla

concessione del Mibac.

"I reperti che abbiamo rinvenuto, soprattutto l'osso occipitale,

sono davvero fondamentali per definire la storia evolutiva

dell'uomo in Europa", sottolinea Marta Arzarello, docente

di Scienze preistoriche e antropologiche a Ferrara: "Proprio

su di esso sono presenti delle strutture che definiscono la

specie Neandertaliana: il famoso 'chignon' (rigonfiamento)

occipitale e la sottostante fossa soprainiaca".

Ritrovamenti di questo genere sono molto rari in Europa,

spiegano i ricercatori, e permetteranno di documentare il

periodo cronologico che vede il passaggio dall'Homo heidelbergensis

all'Homo neanderthalensis.

La grotta fu probabilmente utilizzata in una prima fase solo

come rifugio durante la caccia e successivamente per delle

occupazioni più lunghe, probabilmente stagionali per poi finire

con un'ultima occupazione di breve durata.

La datazione, con metodi radiometrici, del sito è ancora in corso

presso il Muséum National d'Histoire Naturelle di Parigi ma i

risultati preliminari lasciano pensare che la parte centrale (in

termini di cronologia) del giacimento sia da attribuire a circa

300mila anni fa.

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

 
 
 

Onde gravitazionali, fuoco nucleare, rocce e amore

Post n°2276 pubblicato il 04 Luglio 2019 da blogtecaolivelli

 


EVOLUZIONE MICROBIOLOGIA FISICA TEORICA
ARCHEOLOGIA POLITICHE DELLA RICERCA

08 maggio 2019
Onde gravitazionali, fuoco nucleare, rocce e amore
di Caleb A. Scharf / Scientific American

Un giallo di cinque miliardi di anni fa rivela

due nuovi attori che hanno preso parte alle

nostre origini: gran parte degli elementi

pesanti presenti nel sistema solare non

derivano nelle esplosioni di supernova,

ma dalla fusione di due stelle di neutroni

avvenuta nelle vicinanze del nostro Sole


ASTROFISICA

ONDE GRAVITAZIONALI

COSMOLOGIA

Il vecchio detto "siamo polvere di stelle" è

così penetrato nella nostra mente da rischiare

di perdere parte della sua poesia.

Sì, elementi più pesanti dell'idrogeno e dell'elio

presenti nell'ambiente terrestre sono stati

forgiati da vari antichi cicli di vita di generazioni

di stelle.

Molte di queste fornaci cosmiche hanno espulso

il loro contenuto nel vuoto, inquinando la nostra

galassia con tracce dei nuclei atomici che

chiamiamo ossigeno, carbonio, ferro e altro

ancora.

E nel corso degli eoni la gravità ha provocato

la ricondensazione di questa materia interstellare.

Come risultato, gli elementi sono stati separati,

permettendo alla materia stellare di diventare

straordinariamente concentrata, creando nuove

stelle, pianeti, e gli ammassi di nuclei pesanti

che costituiscono gli esseri umani e la loro

assurda complessità.

Tutto ciò è fantastico, ma ripetete la storia un

gran numero di volte e comincerà a suonare un

po' banale.

Una parte della ragione è che la narrazione può

diventare vaga - dal parlare in termini generali

di generazioni precedenti di stelle ormai invisibili

fino alle nostre ampie descrizioni della natura della

materia interstellare.

È un po' come quando un parente anziano vi

racconta dell'albero genealogico della vostra

famiglia fino alla quinta generazione.

Ci può essere poco con cui identificarsi, anche

se ci piacerebbe farlo.

La storia diventa molto più interessante quando

si guarda più da vicino.

Per prima cosa, non tutti gli elementi sono prodotti

allo stesso modo.

Forse l'esempio più interessante è quello degli

elementi del cosiddetto "processo r".


All'interno delle stelle puà avvenire la nucleosintesi

di alcuni elementi, ma per quella degli elementi più

pesanti del ferro sono necessari processi ancora

più energetici. (© Science Photo Library / AGF)

Questi elementi hanno nuclei più pesanti del ferro

e sono costruiti da un meccanismo chiamato cattura

rapida dei neutroni.

Come suggerisce il nome, c'è bisogno di qualcosa

per catturare i neutroni, sotto forma di nuclei "seme",

e c'è bisogno di un tremendo flusso di neutroni,

che sia abbastanza veloce da andare a formare

dei nuclei al di là di qualsiasi configurazione intermedia

altamente instabile.

Ma dove si trovano ambienti di questo tipo?

Nel 2017 gli osservatori delle onde gravitazionali LIGO

e Virgo hanno fatto scalpore rilevando la firma di una

fusione di due stelle di neutroni.

Due sfere di massa stellare di materiale nucleare hanno

spiraleggiato una verso l'altra con un urlo di oscillazioni

spazio-temporali di intensità crescente.

A differenza della fusione di un buco nero binario,

quell'evento ha prodotto una quantità prodigiosa

di radiazioni elettromagnetiche nella cosiddetta

kilonova (letteralmente, mille volte l'emissione di

una normale stella nova).

Lo studio telescopico della kilonova ha fornito un

sostegno convincente all'idea che la fusone di

stelle di neutroni rappresenti un paradiso per il

processo r.

Ciò suggerisce che questi eventi cataclismatici

giochino un ruolo importante nel rifornire il nostro

paesaggio galattico di alcuni degli elementi più pesanti.

Dall'oro, platino e iridio al torio e all'uranio, fino a

elementi di breve durata come il plutonio.

Ora, una nuova ricerca di Bartos e Marka, pubblicata

nei giorni scorsi su "Nature", offre una visione creativa

e piuttosto sorprendente delle origini degli elementi

del processo r nel nostro sistema solare.

I ricercatori hanno combinato due analisi chiave.

Una quella dei dati sui meteoriti che conservano le

prove del mix di elementi nel nostro sistema solare

in formazione, circa 4,6 miliardi di anni fa.

L'altra è un ingegnoso modello statistico della storia

delle fusioni di stelle di neutroni della galassia.

La ricerca indica che all'alba della nostra storia

cosmica locale si è verificata una collisione di stelle

di neutroni molto vicina.

Tracce di questo evento unico sembrano essere

presenti nei dettagli dei radioisotopi dovuti al processo

r che hanno irrorato il nostro sistema in formazione

dopo la collisione delle stelle di neutroni.

Raggiungere questa conclusione richiede una certa

flessibilità mentale e un duro lavoro.

Le fusioni di stelle di neutroni sono cosmicamente

rare nella Via Lattea, variando tra uno e cento eventi

per milione di anni in tutta la sua estensione.

Alcuni elementi del processo r, come gli attinidi (

tra cui curio-247, plutonio-244 e iodio-129), hanno

emivite relativamente brevi, nell'ordine delle decine

di milioni di anni, ma hanno lasciato tracce specifiche

nel materiale meteoritico dell'antico sistema solare,

che ci permettono di misurare le loro abbondanze

originali.

Quindi, la quantità di questi elementi che esisteva

durante la finestra di tempo in cui si stava formando

il nostro sistema solare offre uno strumento per

valutare non solo l'epoca in cui sono stati forgiati

quegli elementi, ma anche la distanza a cui doveva

trovarsi quella fucina.

Costruendo una simulazione delle fusioni di stelle

di neutroni nella nostra galassia, nel corso della sua

storia fino alla formazione del nostro sistema solare

(nei circa 9 miliardi di anni di esistenza della Via Lattea),

Bartos e Marka hanno potuto esaminare quali scenari

potrebbero aver prodotto la miscela di attinidi ricavata

dalle analisi meteoritiche.


Raffigurazione schematica della rilevazione delle onde

gravitazionali da parte di LIGO, in primo piano a

destra (Science Photo Library / AGF)
Dal risultato dell'analisi sembra che ci sia stata una

sola kilonova prodotta da una fusione di stelle di

neutroni che si darebbe verificata entro 80 milioni di

anni (più o meno 40) dalla formazione del sistema solare

e a circa mille anni luce di distanza.

I ricercatori stimano che un evento di kilonova così

vicino avrebbe occultato tutto il cielo notturno per

oltre un giorno.

Quattro miliardi e mezzo di anni fa, quando gli

elementi appena generati dalla fusione furono

proiettati all'esterno e si diffusero nello spazio

interstellare, circa 10^20 chilogrammi di essi finirono

per depositarsi nel nostro giovane sistema.

Da lì si può capire quanta parte del deposito

terrestre di elementi del processo r proveniva da

quell'unico evento.

Per esempio, l'equivalente di un ciglio circa dello iodio

nel vostro corpo sarà arrivato da quelle stelle di neutroni.

Un'automobile Tesla Model 3 contiene un totale

di circa 5 grammi dei nuclei generati da questa

specifica fusione di stelle di neutroni.

Un moderno reattore a fissione, che usa uranio

arricchito, conterrà circa 200 chilogrammi di materiale

che è stato prodotto in quell'unica esplosione cosmica.

Cosa significativa, lo studio sembra anche escludere

che fra i produttori primari di elementi di processo

r in tutta la galassia vi siano stati eventi come le

supernove a collasso nucleare, legate all'implosione

di stelle massicce.

Quegli eventi, che si verificano centinaia o addirittura

migliaia di volte più frequentemente delle fusioni di

stelle di neutroni, non sembrano corrispondere ai dati.

Nel complesso, sembra che possiamo aggiornare

il racconto delle nostre origini dalla "polvere di stelle".

Non solo siamo in debito con una fisica ancora più

esotica ed estrema di quanto forse immaginassimo,

ma ora dobbiamo collocare sull'albero genealogico

due membri molto specifici della nostra tribù ancestrale:

una coppia di stelle di neutroni amanti, il cui abbraccio

è stato letteralmente infuocato.
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L'autore
Caleb A. Scharf è direttore del Centro di astrobiologia

della Columbia University. E' autore e coautore di

oltre 100 articoli di ricerca in astronomia e astrofisica.

Nel 2012 ha vinto il premio Chambliss dell'AAS.

Per "Le Scienze" ha scritto L'universo in scala, (In)

significanza cosmica, La generosità dei buchi neri.

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L'originale di questo articolo è stato pubblicato su

"Scientific American" il 1° maggio 2019. Traduzione

ed editing a cura di Le Scienze.

Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)

 
 
 

Homo di Denisova

Post n°2275 pubblicato il 04 Luglio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Internet

Homo di Denisova

.

Ingresso della grotta luogo di ritrovamento

dei resti dell'Homo di Denisova

L'Homo di Denisova o donna X è il nome dato

ad un ominide i cui scarsi resti sono stati ritrovati

nei Monti Altaj in Siberia.

La scoperta è stata annunciata nel marzo 2010,

quando al termine della completa analisi del DNA

mitocondriale (mtDNA) è stato ipotizzato che

possa trattarsi di una nuova specie.

Questo esemplare di ominide è vissuto in un

periodo compreso tra 70.000 e 40.000 anni fa 

in aree popolate principalmente da sapiens e in

parte da neanderthal; ciononostante, la sua

origine e la sua migrazione apparirebbero distinte

da quelle delle altre due specie, e il mtDNA del 

Denisovarisulterebbe differente dai mtDNA di H.

neanderthalensis e H. sapiens

L'uomo di Denisova è strettamente imparentato

con l'uomo di Neanderthal: le due specie si

sarebbero separate circa 300.000 anni or sono.

Scoperta

Un team di scienziati dell'Istituto Max Planck 

di antropologia di Lipsia guidati da Svante Pääbo

 sequenziò il DNA mitocondriale (che si eredita

solo per linea materna), estratto dal frammento

osseo di un dito mignolo di un giovane individuo

di età stimata tra i 5 e i 7 anni e di sesso incerto

nonostante gli fosse stato attribuito il soprannome

di donna X.

Il reperto venne alla luce nel 2008 nelle grotte di

 Denisova sui Monti Altaj in Siberia.

Nello stesso strato di terreno apparvero piccoli oggetti

lavorati riconducibili all'Homo di Denisova.

L'analisi del mtDNA ha inoltre suggerito che

questa nuova specie di ominidi sia il risultato di

una migrazione precoce dall'Africa, distinta dalla

successiva migrazione dall'Africa associata a

uomini di Neanderthal e umani moderni, ma

anche distinta dal precedente esodo africano

di Homo erectus.Pääbo ha rilevato l'esistenza

di questo ramo lontano che crea un quadro

molto più complesso del genere umano durante

il tardo Pleistocene.

Nel 2010, un secondo documento del gruppo

di Svante Pääbo ha riferito di una prima scoperta

del 2000, di un terzo molare superiore di un

giovane adulto, risalente a circa lo stesso periodo

(il dito era nel livello 11 della sequenza della grotta,

il dente nel livello 11.1).

Il dente differiva in diversi aspetti da quelli di

Neanderthal pur avendo caratteristiche arcaiche,

simili ai denti dell'Homo erectus.

Il gruppo eseguì nuovamente l'analisi del DNA

mitocondriale sul dente e rilevò che la sequenza

era diversa, ma simile a quella dell'osso del dito,

indicando un tempo di divergenza di circa 7500

anni, e suggerendo che appartenesse ad un

individuo differente della stessa popolazione.

Nel 2011 un osso del dito di un piede è stato

scoperto nello strato 11 della grotta, quindi

contemporaneo all'osso del dito della mano.

La caratterizzazione preliminare del DNA

mitocondriale del midollo suggerisce che appartenesse

ad un uomo di Neanderthal e non ad un Denisovano.

La grotta Altaj contiene anche reperti ossei e strumenti

di pietra fatti da esseri umani moderni e Pääbo ha

commentato: "L'unico posto in cui siamo sicuri che

tutte e tre le forme umane hanno vissuto anche se

in diversi periodi temporali, è qui nella grotta Denisova".

Ibridazione con Homo sapiens

Studi genetici indicano che approssimativamente il

4% del DNA dell'Homo sapiens non africano è lo

stesso trovato nell'Homo neanderthalensis suggerendo

una origine comune.I test che mettano in comparazione

il genoma dell'Homo di Denisova con quello di 6 differenti 

Homo sapiens come un ǃKung dal Sudafrica, un

nigeriano, un francese, un Papua della Nuova

Guinea, un abitante dell'isola di Bougainville e

uno della stirpe Han, dimostrano che dal 4 al

6% del genoma deimelanesiani (rappresentato

dagli uomini dell'isola di Bougainville), derivano

dalla popolazione di Denisova.

Questi geni sono stati verosimilmente introdotti

durante la prima migrazione umana degli antenati

dei melanesiani nel sud-est asiatico.

Quindi, concludendo, è verosimile ipotizzare

un'ibridazione tra Homo di Denisova e Homo sapiens,

che ha interessato le popolazioni del sud-est asiatico

antico e quelle, loro dirette discendenti, australiane.

L'apporto genetico denisoviano alle altre popolazioni

asiatiche è limitato e, come in quelle europee e

amerindie, deriva in buona parte dall'ibridazione,

avvenuta in precedenza, con i Neanderthal (che

a loro volta si erano ibridati con i Denisova).

Nel 2019, un team internazionale di ricercatori,

dopo aver analizzato il genoma completo di 161

persone provenienti da 14 gruppi differenti in

Indonesia e Papua Nuova Guinea, suggerisce

l'ipotesi che un gruppo di denisoviani si sia ibridato

tardivamente con le popolazioni locali diHomo sapiens

 circa 15.000 anni fa. Come affermato nello studio gli

abitanti della Papua Nuova Guinea recano infatti

tracce nel dna di due popolazioni denisoviane

differenti, denominate D1 e D2, e divergenti tra

loro di circa 283.000 anni.

Mentre la seconda tipologia è molto più diffusa,

la prima è identificabile unicamente negli abitanti

dell'isola.

Non tutto il mondo accademico tuttavia si è detto

convinto delle conclusioni della ricerca.

Un altro scenario ipotizzato prevede un primo incontro

tra umani moderni e denisoviani.

Dopo un'ibridazione iniziale, il gruppo si sarebbe

separato portando con sé due differenti "set" di geni

denisoviani.

Infine, le due popolazioni sarebbero venute nuovamente

a contatto, incrociando nuovamente il dna.

Aspetto fisico

Data l'estrema limitatezza dei reperti, ben poco si sa

sulle caratteristiche fisiche di questi individui.

Il sequenziamento del genoma estratto dalla falange

ritrovata nel 2008 a Denisova (Siberia meridionale) ha

permesso di definire che il soggetto esaminato, una

femmina, avesse carnagione scura con occhi e capelli

castani.

Dalle ultime analisi del mtDNA e del DNA nucleare risulta

che l'Uomo di Denisova si sarebbe separato dal comune

antenato di Neanderthal e uomo moderno circa 1.000.000

di anni fa e che in seguito si sarebbe incrociato con

l'Homo sapiensprogenitore dei moderni abitanti della

Papua Nuova Guinea, con i quali condivide il 4-6%

del genoma; provando così (come già con l'uomo di

Neanderthal) l'Ipotesi multiregionale di interscambio

genetico tra antichi e moderni Homo sapiens

Analisi del DNA mitocondriale

Il DNA mitocondriale (mtDNA) proveniente dall'osso

del dito è diverso da quello degli esseri umani moderni

per 385 basi (nucleotidi), su un totale di circa 16.500

basi presenti in un lfilamento del DNA mitocondriale,

mentre la differenza tra gli esseri umani moderni ed i

Neanderthal è di circa 202 basi.

Considerando che la differenza tra scimpanzé e gli esseri

umani moderni è di circa 1.462 paia di basi del DNA

mitoconpdriale ciò suggerisce un tempo di divergenza

di circa un milione di anni.

L'mtDNA di un dente aveva una somiglianza elevata con

quella dell'osso del dito, indicando che entrambi

appartenevano alla stessa popolazione.

È stata recuperata una sequenza di mtDNA su un secondo

dente che ha mostrato un numero inaspettatamente

elevato di differenze genetiche rispetto a quella riscontrata

nell'altro dente e nel dito, suggerendo un elevato

grado di diversità mtDNA.

Questi due individui, rinvenuti nella stessa grotta,

hanno mostrato una diversità tra loro maggiore di

quella rilevata campionando gli uomini di Neanderthal

di tutta l'Eurasia.

Un tasso di diversità paragonabile a quello che

distingue gli esseri umani moderni provenienti da

diversi continenti

Analisi del DNA nucleare

Nello stesso studio del 2010, gli autori hanno

effettuato l'isolamento e il sequenziamento del

DNA nucleare dell'osso del dito del Denisova.

Questo esemplare ha mostrato un insolito grado

di conservazione del DNA e un basso livello di

contaminazione.

Sono stati in grado di raggiungere quasi il completo

sequenziamento genomico, consentendo un confronto

dettagliato con i Neanderthal e gli umani moderni.

Da questa analisi hanno concluso, nonostante l

'apparente divergenza della loro sequenza mitocondriale,

che gli uomini di Denisova e i Neanderthal hanno

condiviso un ramo comune ancestrale che porta

ai moderni esseri umani africani.

Il tempo medio stimato di divergenza tra le sequenze

dei denisoviani e dei Neanderthal è di circa 640 000

anni fa, mentre il tempo di divergenza tra le sequenze

di ciascuno di essi e le sequenze degli africani moderni

è di 804 000 anni fa.

Ciò suggerisce che la divergenza dei risultati mitocondriali

del Denisova derivi o dalla persistenza di un lignaggio

epurato dagli altri rami attraverso deriva genetica

oppure da un'introgressione di un lignaggio di un ominide

più arcaico.

Nel 2013, la sequenza di mtDNA prelevata dal femore di

un Homo heidelbergensis di 400.000 anni fa proveniente

dalla Grota Sima in Spagna è risultata essere simile a

quella di Denisova.

 
 
 

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