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Messaggi del 07/06/2019
Post n°2228 pubblicato il 07 Giugno 2019 da blogtecaolivelli
fonte: Le Scienze I fulmini dei temporali producono antimateria: la studio giapponese AMBIENTE Angelo Petrone 12:48 25 Novembre 2017 Secondo i ricercatori dell'Università di Kyoto i fulmini sarebbero in grado di generare antimateria, immediatamente annullata dall'interazione con la materia. Lo studio, pubblicato sulla rivista Nature, ha rivelato una serie di dati catturati attraverso una rete di rilevatori di raggi gamma realizzata sulle coste del Giappone. Un notevole picco di raggi gamma è stato individuato, nel febbraio del 2017, a Kashiwazaki, subito dopo un fulmine. Analizzando i dati gli esperti hanno individuato tre lampi gamma, di diversa entità. Nel primo caso l'evento ha avuto una durata minima, pari a un millisecondo, il secondo è stato classificato come un bagliore residuo mentre il terzo si è protratto per quasi un minuto. antimateria: la studio giapponese Dai dati analizzati è emerso come il primo lampo gamma sia stato prodotto da un fulmine come anche gli altri due eventi. Il secondo, in particolare, sarebbe il frutto d i un processo che ha portato i raggi gamma del fulmine a cacciare dal nucleo dell'azoto, presente nell'atmosfera, un neutrone che successivamente è stato riassorbito dalle particelle dell'atmosfera con la produzione del bagliore di raggi gamma. Il terzo avvistamento di antimateria, invece sarebbe il frutto del collasso degli atomi atmosferici instabili per la mancanza dei neutroni: tutto ciò avrebbe prodotto le particelle di antimateria. Queste ultime, i positroni, si sarebbero scontrate con la materia, gli elettroni, producendo il rilascio dei raggi gamma. |
Post n°2227 pubblicato il 07 Giugno 2019 da blogtecaolivelli
© Science Photo Library / AG Dal 2013 i livelli atmosferici dei CFC, ovvero gas che distruggono lo strato di ozono, sono tornati ad aumentare nonostante la loro messa al bando in tutto il mondo. Una parte consistente di queste nuove emissioni illegali proviene da province della Cina orientale Dal 2013, le emissioni annuali di clorofluoro- carburi (CFC) - una delle più importanti classi di molecole che distruggono lo strato di ozono che ci protegge dalle radiazioni ultraviolette del Sole - il cui uso è vietato dal Protocollo di Montreal, sono aumentate in modo inaspettato. L'immissione in atmosfera di questi gas proviene in buona pare da alcune regioni della Cina orientale. A documentarlo è uno studio effettuato da un gruppo internazionale di ricercatori diretto da Matt Rigby dell'Università di Bristol, e pubblicato su "Nature", che ha in particolare tracciato il CFC-11, uno dei clorofluorocarburi in passato più diffusi. CFC-11 erano in discesa in seguito agli accordi internazionali per una loro progressiva messa al bando. Le analisi dei dati registrati da varie reti di monitoraggio sparse per il mondo hanno però mostrato che dal 2013 c'è stato un nuovo inaspettato rialzo, indice che da qualche parte erano riprese emissioni illegali di questo composto, un tempo ampiamente usato come fluido di refrigerazione nei frigoriferi e come schiumogeni negli isolati degli edifici. Il confronto fra le emissioni di CFC in Cina orientale nel periodo 2008-2012 (sinistra) e 2014-2017 (destra) indica un netto aumento. (University of Bristol )Per escludere che l'aumento fosse realmente dovuto a una nuova produzione, ha spiegato Rigby, "abbiamo esaminato le stime sulla quantità di CFC-11 che potrebbe essere inglobato in schiume isolanti in edifici o frigoriferi prodotti prima del 2010, ma le quantità erano troppo piccole per spiegare il recente aumento". è stato necessario allestire una nuova rete di rilevazione; le centraline di quella usata fino ad allora erano collocate in punti molto lontani dalle possibili fonti di emissione, proprio per essere sicuri di rilevare le concentrazioni medie globali di CFC-11. L'analisi dei dati provenienti dalla nuova rete - che copre diverse aree parti di Nord America, Europa, Australia meridionale, Corea e Giappone - ha ora mostrato che dal 40 al 60 per cento delle nuove emissioni, pari a circa 7000 tonnellate all'anno di gas, proviene dalla Cina orientale, e in particolare dalle province di Shandong e di Hebei. Per l'individuazione dei responsabili specifici bisognerà chiedere la collaborazione diretta delle autorità cinesi, che peraltro proprio di recente hanno individuato e chiuso alcuni impianti di produzione illegali. si siano verificati anche in altri paesi o nelle regioni più occidentali della Cina, tutte aree troppo lontane dagli attuali punti di monitoraggio della rete di monitoraggio. molte aree del globo, specie nei paesi in via di sviluppo, ma quel che è peggio, osservano i ricercatori, è che "probabilmente abbiamo rilevato solo una parte del totale dei CFC prodotti. Il resto potrebbe essere incluso in edifici e refrigeratori e verrà rilasciato nell'atmosfera nei prossimi decenni", ritardando il tempo necessario allo strato di ozono e al "buco" dell'ozono antartico per riprendersi. (red) |
Post n°2226 pubblicato il 07 Giugno 2019 da blogtecaolivelli
04 gennaio 2018 Fonte: Le Scienze Nuovi dati genetici ottenuti da resti ritrovati in Alaska suggeriscono che il popolamento dell'America sia avvenuto in un'unica ondata migratoria, risalente ad almeno 20.000 anni fa. Ne fu protagonista un'antica popolazione, finora sconosciuta, gli antichi Beringi, da cui discenderebbero tutti i nativi americani(red) L'analisi genetica del DNA ottenuto dai resti di una neonata di 6 settimane ritrovati in un sito archeologico dell'Alaska ha fornito i primi dati diretti relativi all'antica popolazione - finora sconosciuta - capostipite di tutti i nativi americani. Le analisi - condotte da ricercatori dell'Università dell'Alaska a Fairbanks e dell'Università di Copenaghen e pubblicate su "Nature" - gettano nuova luce sul popolamento delle Americhe. primi colonizzatori del Nuovo Mondo abbiano attraversato un antico ponte terrestre che collegava la Siberia orientale e l'Alaska prima che, alla fine dell'ultima era glaciale, si formasse lo Stretto di Bering, i tempi e le modalità di questa migrazione erano ancora in discussione. a Upward Sun River (Cortesia Eric S. Carlson / Ben Potter)Ma nel 2013, nel sito archeologico di Upward Sun River, nel bacino idrografico del fiume Tanana, in Alaska, sono stati ritrovati i resti di due neonate risalenti a 11.500 anni fa, dai quali ora sono stati estratti e seque nziati campioni di DNA. ricostruire l'intero genoma scoprendo che, pur essendo vissuta molto dopo l'arrivo dei primi uomini nella regione, le sue informazioni genetiche non corrispondevano a nessuno dei due rami noti dei primi nativi americani, corrispondenti alle popolazioni che colonizzarono il Nord e il Sud America. Eske Willerslev e colleghi hanno chiamato questa nuova popolazione antichi Beringi. (Dell'altra neonata si è potuto solo appurare che era una parente stretta dell'altra, probabilmente una cugina di primo grado.) mostrato che gli antichi Beringi erano una propaggine della stessa popolazione antenata dei gruppi dell'America del Nord e del Sud, dai quali si erano però separati poco dopo l'arrivo nel continente. popolazione ancestrale dei nativi americani si separò dalle popolazioni del nord est asiatico circa 36.000 anni fa, pur conservando con esse un piccolo flusso genetico fino a 25.000 anni fa, per poi spostarsi in Alaska circa 20.000 anni fa. continuarono a vivere in quelle lande, il resto della popolazione migrò più a sud, per suddividersi poi a sua volta (fra 17.000 e 14.000 anni fa) nei gruppi che hanno dato origine alle popolazioni indigene del Nord e Sud America. Gli scavi nel sito di Upward Sun River, in Alaska (Cortesia Ben Potter)Molto dopo gli eventi migratori iniziali, infine, si verificò una migrazione "di ritorno" delle popolazioni del ramo nordamericano verso l'Alaska, che alla fine sostituì o assorbì gli antichi Beringi, diluendone il contributo genetico alle popolazioni indigene attuali fino al limite del rilevabile. |
Post n°2225 pubblicato il 07 Giugno 2019 da blogtecaolivelli
21 maggio 2019 Fonte: Le Scienze Sotto la superficie del pianeta nano si trova un oceano di acqua non del tutto ghiacciata. A trattenere il calore rispetto alla coltre di ghiaccio superficiale sarebbe uno strato di gas idrati, formati da metano intrappolato in un reticolo di molecole di acqua Le osservazioni di Plutone effettuate nel 2015 dalla missione New Horizons della NASA indicavano la presenza sul pianeta nano di un oceano al di sotto di uno strato di ghiaccio superficiale di spessore variabile. Ora un articolo pubblicato su "Nature Geoscience" da Shunichi Kamata, dell'Università della California a Santa Cruz, e colleghi di una collaborazione internazionale ipotizza che a separare la coltre di ghiaccio dall'oceano sottostante vi sia uno strato di gas idrati, cioè di molecole di gas intrappolate in un reticolo di molecole di acqua. Immagine di Sputnik Planitia (NASA) Il risultato è di fondamentale importanza per lo studio della composizione e della formazione dell'intero sistema solare. I planetologi ipotizzano che oceani di acqua liquida possano trovarsi all'interno non solo di Plutone - riclassificato nel 2006 come pianeta nano dopo essere stato considerato dal 1930, anno della scoperta, il nono pianeta del sistema solare - ma anche di satelliti dei pianeti giganti, per esempio le lune Europa ed Encelado. Il problema è capire quali siano le condizioni chimico-fisiche che permettano la stabilità di acqua liquida. si è concentrata su Sputnik Planitia, una bacino depresso del diametro di circa 1000 chilometri situato vicino all'equatore. Qui gli strumenti hanno rilevato un'anomalia gravitazionale positiva. Ciò significa che il valore di gravità misurato è superiore a quello teorico, indicando la presenza sotto la superficie di una massa con una densità superiore a quella prevista: l'idea è che si tratti di un oceano "caldo", cioè non completamente ghiacciato. D'altra parte, la superficie è indubitabilmente ghiacciata, e quindi la sua temperatura deve essere più bassa rispetto a quella dell'oceano. fredda la superficie? Kamata e colleghi si sono interrogati sulla sua possibile origine. Nel caso di un pianeta nano come Plutone, è da escludere un ruolo delle deformazioni di marea, dovute all'interazione gravitazionale con altri copri celesti, che invece possono riscaldare i satelliti ghiacciati. È da escludere anche un riscaldamento dovuto alla radioattività degli elementi presenti nel suo interno, considerato insufficiente a generare gli effetti osservati. chimico-fisiche di Plutone ha portato gli autori ipotizzare un sottile strato di gas idrati, che agisce da isolante termico, impedendo all'oceano di ghiacciare completamente e mantenendo fredda la coltre ghiacciata superficiale. probabilità metano. L'idea alternativa, basata sulla presenza di azoto allo stato gassoso, un gas volatile che avrebbe presto raggiunto l'atmosfera di Plutone, è stata scartata. Questo metano probabilmente era già presente nel materiale cometario che ha contribuito a formare il pianeta nano, oppure è frutto delle reazioni chimiche che avvengono nel suo nucleo roccioso. Ma è plausibile anche la presenza di metano delle due diverse origini. sottosuperficiale isolante di gas idrati potrebbe essere valida anche per altri corpi della fascia di Kuiper, l'ampia zona del sistema solare che si estende oltre l'orbita di Nettuno e che comprende anche Plutone. (red) |
Post n°2224 pubblicato il 07 Giugno 2019 da blogtecaolivelli
Fonte: Le Scienze 1Aspergillus fumigatus - Pur essendo occasionalmente dannoso per l'uomo, produce idrofobine, piccole proteine che formano un rivestimento i drorepellente applicabile in nano e biotecnologie. Lo foto mostra la sua presenza in un campione di aria. (Credits: Institut Pasteur, Paris, France) Virus, batteri, lieviti, funghi filamentosi, microalghe. I microrganismi in genere sono associati all'idea di un problema di salute, ma solo una minoranza ne è responsabile, mentre gli altri hanno ruoli importanti nell'ambiente, nell'evoluzione di altri organismi e sono indispensabili alla sopravvivenza nostra e del resto del mondo. Basti pensare che un essere umano ospita più microrganismi delle stelle della Via Lattea e che il nostro microbioma occupa da 2 a 4 chilogrammi di peso e svolge ruoli di protezione e buon funzionamento del corpo. grazie a una mostra fotografica che raccoglie 44 immagini scattate nei laboratori di tutta Europa e allestita in piazza Vittorio Veneto, a Torino, fino al 16 giugno. Microrganismi in Mostra in concomitanza con il XXXVIII Annual Meeting of the European Culture Collections' Organization (ECCO2019) organizzato dal Dipartimento di scienze della vita e biologia dei sistemi (DBIOS) e dalla Mycotheca Universitatis Taurinensis (MUT) dell'Università degli Studi di Torino, in collaborazione con Fondazione CRT ed European Culture Collections' Organization (ECCO), e sostenuta dalla Regione Piemonte. |
Post n°2223 pubblicato il 07 Giugno 2019 da blogtecaolivelli
Fonte: Le Scienze (Credit: NASA) L'acqua allo stato liquido che dovrebbe trovarsi sotto il Polo Sud marziano potrebbe provenire dallo scioglimento di ghiaccio alimentato da una fonte di calore al di sotto della superficie, come per esempio una camera magmatica. Lo ha dimostrato un nuovo modello geologico del Pianeta Rosso(red) Al Polo Sud di Marte, sotto una calotta di ghiaccio spessa un chilometro e mezzo, c'è acqua allo stato liquido. Questa era l'ipotesi formulata l'anno scorso in uno studio pubblicato su "Science" da un gruppo di ricerca tutto italiano, sulla base dei dati di riflessione radar ottenuti dalla sonda Mars Express dell'Agenzia spaziale europea (ESA). Nessuno però aveva mai analizzato le condizioni fisiche e geologiche in grado di determinare la fusione del ghiaccio alla base della coltre. Il Polo Sud di Marte. (Credit: NASA) Una nuova ricerca pubblicata sulle "Geophysical Research Letters" a firma di Michael Sori e Ali Bramson, entrambi dell'Università dell'Arizona a Tucson, aggiunge un elemento importante alla comprensione di questa formazione idrogeologica, senza tuttavia esprimersi sulla sua effettiva esistenza. I due scienziati hanno stabilito che l'eventuale presenza di acqua liquida deve essere necessariamente legata a una fonte di calore sotterranea. L'ipotesi più probabile è la formazione di una camera magmatica negli ultimi 100.000 anni. più freddo della Terra, quindi non è evidente a priori quale tipo di ambiente sarebbe necessario per sciogliere il ghiaccio alla base della calotta glaciale. Gli autori hanno elaborato un modello del Pianeta Rosso per stimare la quantità di calore che potrebbe uscire dal suo interno e la quantità di sali necessaria alla base della calotta glaciale per rendere possibile la sua fusione. potrebbe abbassare il punto di fusione del ghiaccio in misura sufficiente a creare così tanta acqua liquida. Deve perciò esistere una fonte di calore consistente all'interno del pianeta. E una fonte plausibile potrebbe essere l'attività vulcanica. l'emersione del magma dalle profondità di Marte, avvenuta circa 300.000 anni fa. Il magma non eruttò in superficie ma formò una camera magmatica al di sotto di essa. Nel corso dei millenni, questo magma si raffreddò, cedendo il suo enorme calore alla calotta di ghiaccio polare e fondendone in parte gli strati più profondi. E secondo il modello, il processo è attivo ancora oggi: sarebbe questa la fonte di calore responsabile della presenza di acqua liquida. Marte come pianeta attivo dal punto di vista geologico, contribuendo a una migliore comprensione della sua evoluzione, una comprensione preziosa anche nella prospettiva di una futura colonizzazione umana del Pianeta Rosso. E considerando la presenza di acqua allo stato liquido, il pensiero va subito anche alla possibilità di forme di vita extraterrestre. di vita, allora probabilmente è confinata nel sottosuolo per essere protetta dalle radiazioni, secondo Bramson. "Se sono ancora attivi oggi, allora significa che nel recente passato questi processi magmatici erano più comuni e potevano fornire una fusione più diffusa del ghiaccio alla base della calotta, e garantire così un ambiente più favorevole per la presenza duratura di acqua liquida e quindi, forse, di vita", ha concluso Bramson. |
Post n°2222 pubblicato il 07 Giugno 2019 da blogtecaolivelli
Fonte: Le Scienze L'obiettivo principale della breve missione scientifica del lander israeliano Beresheet è studiare i campi magnetici delle rocce lunaridi Elizabeth Gibney / Nature Beresheet è un veicolo leggero - 180 chilogrammi senza carburante - lanciato da un razzo SpaceX Falcon 9. Staccatosi dal razzo 30 minuti dopo il decollo è entrato nell'orbita terrestre. Poi, nei prossimi due mesi, il lander userà li propulsori per spostarsi su orbite sempre più ellittiche fino a essere abbastanza vicino alla Luna da venire catturato dalla gravità lunare. navicella spaziale lontana e sottoposta a un complesso campo gravitazionale, e far sì che il lander atterri in modo dolce e arrivi a destinazione intatto. suolo lunare (Wikipedia/Creative Commons) L'obiettivo principale della missione scientifica di Beresheet, che durerà appena due giorni, è studiare i campi magnetici delle rocce lunari su cui transiterà prima dell'atterraggio e misurare il magnetismo dalla superficie, dice Oded Aharonson, planetologo al Weizmann Institute of Science a Rehovot, in Israele, che guida la collaborazione internazionale per la missione scientifica. magnetici delle rocce con la loro età, suggerita dalla loro geologia, nel tentativo di svelare se un tempo la Luna ha avuto un nucleo metallico liquido che avrebbe potuto magnetizzare le rocce. ma è improbabile che si realizzi un precedente progetto di spostamento in una nuova posizione, come avrebbe dovuto fare per vincere l'ormai "defunto" Google Lunar XPRIZE. |
Post n°2221 pubblicato il 07 Giugno 2019 da blogtecaolivelli
Fonte: Le Scienze Scoperta in Pakistan la sepoltura degli antichi indoeuropei Stoffe, canestri e vasi di legno: sono questi gli arredi scoperti per la prima volta in una tomba degli antichi indoeuropei da una spedizione di archeologi italiani guidati da Massimo Vidale, del dipartimento Beni Culturali dell'Università di Padova, e Roberto Micheli, archeologo della Soprintendenza Archeologia del Friuli Venezia Giulia.
che si trova nella valle dello Swat, nel nord del Pakistan, vicino al confine con l'Afghanistan, risale a un periodo compreso tra il 1400 e il 900 a.C., un'epoca culturalmente importante per la diffusione delle lingue indo-arie dall'Asia centrale verso il subcontinente indopakistano. sarcofagi fatti di pali e travi di legno, che confermano l'antica presenza nella valle di cimiteri monumentali coperti da costruzioni lignee descritte dagli storici che seguivano l'impresa di Alessandro Magno. della missione di Vidale e Micheli.(red) |
Post n°2220 pubblicato il 07 Giugno 2019 da blogtecaolivelli
Fonte: Le Scienze 06 dicembre 2018 Scoperto uno scrigno di pianeti sconosciuti nascosti nella polvere Comunicato stampa - Lo studio di un gruppo internazionale, di cui fanno parte astronomi italiani di INAF e Università Statale di Milano, ha riconosciuto, osservando affascinanti strutture ad anello intorno a giovani stelle, pianeti in via di sviluppo. I risultati, pubblicati sull'Astrophysical Journal, segnano un passo fondamentale per la comprensione delle fasi chiave della formazione planetariadi INAF/Università Statale di Milano Roma, 6 dicembre 2018 - Osservando un campione di giovani stelle in una regione di formazione stellare nella ostellazione del Toro, un gruppo internazionale di astronomi ha scoperto che molte di esse sono circondate da strutture interpretabili come tracce create da pianeti giovani e in via di sviluppo, alcuni dei quali potrebbero raggiungere la dimensione di Nettuno o delle super Terre (pianeti fino a 20 masse terrestri). Allo studio, pubblicato oggi sull'Astrophysical Journal e la cui autrice principale è Feng Long dell'Università di Pechino, hanno collaborato per l'Italia le ricercatrici dell'Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) Brunella Nisini ed Elisabetta Rigliaco e i professori di Università Statale di Milano e associati INAF Giuseppe Lodato ed Enrico Ragusa. di gas e polvere che ruotava intorno al nostro sole appena nato. Nelle fasi iniziali, questo cosiddetto disco protoplanetario non aveva caratteristiche specifiche, ma presto parti di esso iniziarono a fondersi in gruppi di materia - i futuri pianeti. Con passare del tempo, il disco polveroso lasciò il posto alla disposizione relativamente ordinata che noi conosciamo oggi, composta da pianeti, lune, asteroidi. Questo scenario di formazione del nostro Sistema solare è stato ricostruito dagli scienziati in base alle osservazioni di dischi protoplanetari attorno ad altre stelle, abbastanza giovani da essere in questo momento nel processo di formazione planetaria. composto da 45 antenne radio e situato nel deserto di Atacama, in Cile, il gruppo di ricercatori autori del nuovo studio ha eseguito un'analisi di giovani stelle nella regione di formazione stellare del Toro, una vasta nube di gas e polveri situata a 450 anni luce da Terra. Osservando l'emissione della polvere di 32 stellecircondate da dischi protoplanetari, i ricercatori hanno scoperto che ben 12 di loro mostrano anelli e divisioni, strutture che hanno interpretato come tracce dalla presenza di pianeti nascenti. dei "blob" privi di strutture interne, in altri casi erano già stati osservati anelli luminosi concentrici separati da divisioni, ma poiché gli studi precedenti si erano concentrati sulle stelle giovani più brillanti (le più facili da osservare) non era ancora chiaro quanto questi dischi con strutture ad anelli fossero davvero comuni nell'Universo. I risultati di questa ricerca sono quindi i primi ad essere statisticamente significativi proprio perché i dischi oggetto delle osservazioni sono stati selezionati indipendentemente dalle loro proprietà. osservate con ALMA alla ricerca di possibili spiegazioni alternative, gli scienziati hanno inoltre potuto escludere che tali strutture potessero essere il risultato di effetti dipendenti dalle proprietà stellari (come ad esempio le cosiddette "ice lines"), confermando quindi la presenza di pianeti appena nati quale origine più probabile di queste affascinanti formazioni. I calcoli effettuati per avere un'idea della tipologia di pianeti che potrebbero formarsi nella regione di formazione stellare del Toro hanno dimostrato che la gran parte degli anelli sembrano causati da pianeti gassosi delle dimensioni di Nettuno o delle cosiddette super-Terre. Solo due dei dischi osservati potrebbero potenzialmente ospitare pianeti giganti come Giove, il più grande pianeta del Sistema solare. una borsa Marie Sk?odowska-Curie tramite il programma AstroFIt2, spiega: "In dischi protoplanetari strutture come anelli e cavità (spazi vuoti) sono molto comuni, e le strutture osservate in questi dischi nel Toro sono dovute alla presenza di pianeti di piccola massa, come super-Terre o nettuniani, c he operando insieme ad altri processi producono queste affascinanti strutture". all'Università Statale di Milano e associato INAF, aggiunge: "L'osservazione della morfologia dei dischi potrebbe affermarsi come una nuova metodologia per rilevare la presenza di pianeti attorno a stelle giovani, complementare agli studi sui pianeti extrasolari che in genere si concentrano su stelle adulte, dell'età del Sole", "Inoltre - conclude Lodato - questo metodo permette di osservare pianeti altrimenti non rilevabili, in quanto troppo poco massicci e troppo lontani dalla loro stella". collocazione delle antenne di ALMA per ottenere una maggiore risoluzione e osservare strutture su scale dell'ordine della distanza Terra-Sole, rendendo le antenne sensibili a grani di polvere più grandi. ricerca il finanziamento del progetto PRIN-INAF 2016 The Cradle of Life - GENESIS-SKA (General Conditions in Early Planetary Systems for the rise of life with SKA). the Taurus Star-forming Region", di Long et al., è stato pubblicato su Astrophysical Journal https://arxiv.org/abs/1810.06044 |
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