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Messaggi di Luglio 2021
Post n°3437 pubblicato il 27 Luglio 2021 da blogtecaolivelli
Fonte: Il Serenissimo, giornale regionale veneto. Dopo 7 secoli svelato il mistero di Cangrande: non morì avvelenato ma per una rara malattia. di pubblicato 21 Maggio 2021 Cangrande entra a Padova.Le analisi condotte dal Laboratorio di Genomica Funzionale del Dipartimento di Biotecnologie dell'UniVR hanno svelatoun mistero che durava da sette secoli. A stroncare il Signore di Verona Cangrande della Scala non fu il veleno, ma una rara malattia la Glicogenosi tipo II Sette secoli di misteri e congetture. Sette secoli di accuse e rimpianti. Cangrande, il principe di Verona. Il fedele alleato dell'Imperatore. Il conquistatore che voleva unificare tutta la Marca, ovvero il Veneto. E che quasi stava per riuscirci. In molti ipotizzano una storia differente, perlomeno per la nostra regione, se Cangrande non fosse mancato all'improvviso, all'età di 38 anni. Ebbene le analisi condotte dall'Università scaligera hanno svelato un mistero che durava da sette secoli. A stroncare il Signore di Verona Cangrande della Scala non fu il veleno, ma una rara malattia genetica, la Glicogenosi tipo II. A svelare il mistero sono state le analisi condotte dal Laboratorio di Genomica Funzionale del Dipartimento di Biotecnologie dell'Università di Verona. Fu questo a portarlo alla morte il 22 luglio 1329, a Treviso. Nessuna cospirazione quindi. La Glicogenosi tipo II è una malattia genetica rara ad esordio tardivo. A rivelarlo sono state le analisi condotte dal Laboratorio di Genomica Funzionale del Dipartimento di Biotecnologie dell'Università di Verona, diretto dal professor Massimo Delledonne. Un'indagine di questo tipo non era mai stata eseguita prima sul DNA di una mummia. Il Laboratorio di Antropologia Molecolare e Paleogenetica dell'Università di Firenze, coordinato dal professor David Caramelli e dalla professoressa Martina Lari, ha collaborato nell'estrazione del DNA. Luminari nell'estrazione di DNA antico. La partnership tra Museo di Storia Naturale e Università degli Studi di Verona e di Firenze ha permesso per la prima volta di analizzare un DNA così antico usando però le più moderne tecniche scientifiche. E riuscendo per la priva volta a giungere ad una diagnosi clinica certa anche in assenza di fonti storiche. La malattia da cui era affetto si evidenzia in una scarsa resistenza alla fatica fisica, difficoltà respiratoria, debolezza muscolare e crampi. Ma anche fratture ossee spontanee e cardiopatia Cangrande è stato quindi "sequenziato" come se si trattasse di un paziente dei nostri giorni. Ad essere analizzato, un piccolo frammento di falange. L'analisi bioinformatica degli 83 milioni di sequenze prodotte ha portato alla ricostruzione del 93.4% dei suoi geni. La malattia da cui era affetto si evidenzia in una scarsa resistenza alla fatica fisica, difficoltà respiratoria, debolezza muscolare e crampi. Ma anche fratture ossee spontanee e cardiopatia. La morte dei pazienti adulti è spesso quasi improvvisa. Come accaduto a Cangrande, deceduto dopo solo tre giorni di malattia "Una giornata storica per la città di Verona - sottolinea il sindaco di Attraverso uno studio genetico mai eseguito prima su campioni di mummia risalenti a 700 anni fa è stato possibile svelare molti aspetti della vita e della morte di una delle figure storiche più importanti della nostra città. La morte di Cangrande oggi non è più un mistero. Contrariamente a quanto sospettato per secoli, il Signore di Verona non fu assassinato. Ma morì per cause naturali o, più correttamente, per una malattia genetica. Un risultato straordinario, frutto di un lavoro di squadra importante". Il medico di Cangrande, nel tentativo di contrastare la debolezza data dalla malattia, somministrò dosi eccessive di digitale. Questo fece pensare ad un avvelenamento Alcune opere storiche hanno messo in luce piccoli indizi compatibili con questa patologia, relativi a soste forzate nel corso di tragitti a cavallo abbastanza brevi, ad improvvisi malesseri e, forse, anche alla preferenza per l'uso dell'arco rispetto alla spada. Il quadro clinico della morte di Cangrande è pertanto compatibile con la malattia di Glicogenosi tipo II ad esordio tardivo. Il medico di Cangrande, nel tentativo di contrastare questa debolezza, somministrò dosi eccessive di digitale (una sostanza utilizzata come cardiotonico). Questo fece pensare ad un avvelenamento. Tanto che il medico venne impiccato di lì a poco. Oggi sappiamo che quella somministrazione era ben lungi dall'intento di avvelenare il Principe. Il 18 luglio 1329 si ammala e dopo tre giorni muore: era il 22 luglio 1329. Cangrande aveva solo 38 anni In ambito storico sono riportati alcuni dei momenti più critici della salute di Cangrande. Prima crisi, il 17 settembre 1314, all'età di 23 anni. Dopo una cavalcata veloce il Signore di Verona deve lasciare il cavallo e viene trasferito su un carro. Seconda crisi, il 25 agosto 1320, a 29 anni. Ferito ad una coscia fu trasportato all'accampamento, dove si riprese e ritornò in battaglia. In realtà, dalle autopsie effettuate sul corpo non sono state riscontrate cicatrici sulla coscia. Ciò fa supporre si trattasse di altri sintomi, sempre riconducibili a lla malattia. Terza crisi, il 4 luglio 1325, all'età di 34 anni. In una cavalcata da Verona verso Vicenza Cangrande ebbe un improvviso malore e tornò a Verona, dove peggiorò. Rimanendo tra la vita e la morte per dieci giorni e poi malato per mesi. Quarta crisi, il 18 luglio 1329 si ammala e dopo tre giorni muore: era il 22 luglio 1329. Cangrande aveva solo 38 anni. |
Post n°3436 pubblicato il 27 Luglio 2021 da blogtecaolivelli
Fonte: risorse della rete. Sfoglia l'archivio Adnkronos GENETICA: CONTE UGOLINO - TEST DEL DNA CONFERMA, SUE LE OSSA PRIMA DI MORIRE IL LEGGENDARIO PERSONAGGIO SOFFRI' DAVVERO FAME (Adnkronos Salute) - ''C'e' lo scheletro di uomo morto tra i 75 e gli 80 anni, molto alto, all'incirca un metro e 80 centimetri'', spiega Mallegni che fin dall'inizio del ritrovamento ha proposto l'identificazione di questi resti con quelli di Ugolino della Gherardesca. ''Ci sono poi due persone morte tra i 40 e 50 anni che l'esame del Dna - afferma Mallegni - ha dimostrato essere fratelli. Infine abbiamo altre due persone piu' giovani, uno intorno ai 25 anni e l'altro piu' vicino ai 30, che certamente non sono fratelli. Tutti erano molto alti, robusti, hanno avuto la stessa alimentazione ricca di pesce, verdura e carne per un lungo periodo della loro vita e, negli ultimi mesi, ridotti soltanto a pane e acqua. Non vedo quali dubbi possiamo ancora avere sull'identita' di questi personaggi''. Il caso dunque e' chiuso? Lo stesso Dna non puo' dare risposte piu' esaurienti. La ricerca genetica e' stata effettuata su un tipo di Dna, quello mitocondriale, che si eredita dalla madre e che individua la discendenza da questa. L'altro Dna, quello nucleare, presente in entrambi i genitori, si conserva piu' difficilmente ed ha un numero cosi' grande di ''basi'' da rendere difficilis- sima la sua interpretazione. Pertanto non si potra' mai trovare la parentela diretta tra i cinque uomini sepolti nella stessa tomba della chiesa di San Francesco a Pisa, visto che la consanguineita' verrebbe solo dal padre. ''Ma - sostiene Mallegni - le risposte avute sono sufficienti per concludere che si tratta proprio del conte Ugolino e dei suoi familiari''. Secondo le indagini eseguite dal professor Mallegni, l'ipotesi piu' probabile e' che il conte Ugolino della Gherardesca, i due figli e i due nipoti siano morti per fame e poi finiti con un colpo di spada, dopo essere stati rinchiusi per nove mesi nella Torre dei Gualandi, a Pisa, nel 1289. Lo studioso ha identificato sulla parte posteriore sinistra del cranio dell'individuo piu' anziano un colpo violento, con tutta probabilita' sferrato da una spada. Un identico colpo sulla testa e' stato rintracciato anche sullo scheletro presumibil- mente appartenuto ad uno dei figli del conte. La ''leggenda nera'' di Ugolino si deve a Dante Alighieri che nella Divina Commedia accusa il condottiero pisano di aver compiuto ''il fiero pasto'', ovvero di essersi cibato della carne umana dei figli e dei nipoti per sopravvivere nella ''Torre della fame''. (Adnk/Adnkronos Salu |
Post n°3435 pubblicato il 07 Luglio 2021 da blogtecaolivelli
Fonte: Internet 25 giugno 2021 di Anna Meldolesi Ricostruzione del nuovo "Dragon Man" nel suo habitat (© Chuang Zhao) Il cranio di Harbin, scoperto in Cina, potrebbe spodestare i neanderthaliani diventando il nostro parente più prossimo, mentre i fossili di Nesher Ramla, in Israele, vanno ad arricchire il melting pot umano del PleistoceneHomo sapiens sembra aver trovato due nuovi cugini. C'è Homo longi, che dalla Cina reclama un posto speciale nell'album di famiglia, quello di nostro parente più stretto, che finora era spettato a Neanderthal. Mentre da Israele si fa avanti l'uomo di Nesher Ramla, forte della copertina conquistata su "Science" e del titolo di ultimo sopravvissuto dell'umanità pre- neanderthaliana. Entrambi sono vissuti in un'epoca dinamica, caratterizzata da migrazioni e rimescolamenti, intorno a 140.000 anni fa. Ed entrambi sfidano la comunità dei paleoantropologi a rimettere ordine nelle ricostruzioni sempre più intricate della nostra evoluzione recente. Il fossile cinese vanta un soprannome da supereroe: Dragon Man. Ma tra gli specialisti era già noto come il cranio di Harbin, dalla città della Manciuria famosa per il festival delle sculture di ghiaccio. In effetti si tratta di un vecchio ritrovamento, avvenuto negli anni trenta del secolo scorso nella provincia più settentrionale della Cina: Heilongjiang. Ricostruzione virtuale del cranio di Harbin (© Xijun Ni) Ma oggi è tornato a fare notizia perché questo cranio, conservato quasi alla perfezione e custodito al Museo di geoscienza dell'Università di Hebei, è il protagonista di alcuni lavori pubblicati il 25 giugno su "Innovation", e in particolare quelli a prima firma Quang Ji eXijun Ni. La rivista open access, lanciata dal gruppo Cell in collaborazione con l'Accademia cinese delle scienze, ne propone una nuova interpretazione che farà discutere. Così lo descrivono Ji, Ni e i loro colleghi dell'Università di Hebei, che per l'occasione firmano insieme al grande antropologo inglese Christopher Stringer. Dragon Man è, ovviamente, un esemplare di sesso maschile, morto all'età di circa cinquant'anni, dopo una vita passata in una piccola comunità di cacciatori-raccoglitori in un'area fluviale boscosa. Probabilmente cacciava mammiferi e uccelli, raccoglieva tuberi e frutti, forse pescava. Il suo cranio era abbastanza voluminoso da contenere un cervello di dimensioni paragonabili al nostro, ma se avessimo la possibilità di incontrarlo per strada, i suoi lineamenti inconsueti non passerebbero inosservati. Sotto la volta cranica lunga e bassa si trovava una faccia larga, con orbite oculari ampie e squadrate, una spessa arcata ossea sopraccigliare, zigomi bassi e poco sporgenti, grandi denti dentro a una grande bocca. Elementi arcaici, dunque, mescolati ad altri derivati, in una combinazione che, secondo gli autori dello studio, lo differenzia da tutte le altre specie di Homo già riconosciute (sia dai contemporanei H. sapiens, Neanderthal e Denisova, sia dai più antichi H. heidelbergensis).Fantasmi del passatoAnna MeldolesiSecondo gli autori, considerando sia la corporatura sia il suo paleo-habitat, H. longi deve essere stato in grado di sopravvivere in ambienti ostili e di spingersi in altre aree dell'Asia. Le analisi geochimiche hanno consentito di datarlo a 145.000 anni fa, un periodo in cui i primi sapiens potrebbero essere già usciti dall'Africa. Si sono incontrati?Anche se oggi siamo soli al mondo, c'è stato un tempo in cui i nostri antenati, già appellabili con la qualifica sapiens, hanno condiviso la scena con altri gruppi umani oggi estinti, come Neanderthal e Denisoviani. Scambiandosi, probabilmente, sia geni che conoscenze, durante incontri che hanno lasciato delle tracce nel nostro DNA. C'è stato qualcosa anche tra la nostra specie e H. longi?Secondo Stringer, del Museo di storia naturale di Londra, l'ipotesi di un contatto è plausibile: "Sappiamo che a quei tempi una molteplicità di popolazioni e di linee evolutive delle specie Homo coesistevano in Asia, Africa ed Europa. Perciò se Homo sapiens si è spinto nell'Asia orientale precocemente, può aver avuto l'occasione di interagire conHomo longi", ragiona lo studioso inglese. "Poiché non sappiamo quando il gruppo di Harbin è scomparso, potrebbero esserci stati degli incontri anche successivamente. "Secondo Xijun Ni e i suoi coautori "la divergenza tra H. sapiens e i Neanderthal potrebbe risalire a oltre un milione di anni fa, in una fase della storia evolutiva più profonda di quanto si creda general- mente". Se i ricercatori cinesi avessero ragione, dunque, H. longirappresenterebbe la linea evolutiva sorella più prossima all'origine di sapiens. Ma resta da vedere quanti nella comunità scientifica accoglieranno a braccia aperte la nuova specie e la sua possibile collocazione. La complessità dello scenario evolutivo, e l'alto tasso di diversità degli uomini e delle donne del Pleistocene, sono i messaggi chiave anche dell'altra scoperta, annunciata su "Science" da Israel Hershkovitz dell'Università di Tel Aviv insieme a un gruppo internazionale di cui fa parte anche Giorgio Manzi della "Sapienza" Università di Roma. In questo caso i ricercatori hanno evitato un'attribuzione tassonomica formale. Insomma non c'è ancora la proposta di una nuova specie. Una prudenza apprezzabile, anche considerato come le nuove conoscenze genomiche stanno mettendo in crisi la divisione rigida tra le specie umane vissute nell'ultimo mezzo milione di anni. I resti fossili dell'uomo di Nesher Ramla, in Israele: un osso parietale e la mascella (© Tel Aviv University)Dell'uomo di Nesher Ramla abbiamo l'osso parietale destro, alcuni frammenti del parietale sinistro e una mandibola quasi completa, rinvenuti in un sito datato tra i 140.000 e i 120.000 anni fa, in una depressione carsica nell'area centrale di Israele. Il suo ritratto è un mosaico di caratteri più arcaici sia di Neanderthal sia H. sapiens con i quali, però, si è trovato a convivere in questa strategica regione geografica. In poche parole, il nuovo fossile rappresenterebbe una delle ultime popolazioni sopravvissute del Pleistocene medio. La suggestiva ipotesi avanzata dai ricercatori è che questo gruppo umano dal Medio Oriente abbia contribuito alle origini dei Neanderthal in Europa. Una possibilità che sembra in linea con altri studi recenti, sia morfologici sia genetici. La sorprendente modernità di Homo heidelbergensisdi Anna Rita LongoGli artefatti litici associati al ritrovamento, però, indicano uno stile di lavorazione della pietra uguale a quello dei suoi contemporanei sapiens, con cui si ipotizza abbia intrattenuto scambi culturali. Firmando l'articolo che accompagna la pubblicazione dell'articolo su "Science", Marta Mirazón Lahr non ha dubbi: "Le affinità morfologiche e archeologiche non collimanti, e la collocazione all'incrocio tra Africa ed Eurasia, rendono estremamente importante questa scoperta". Anche in questo caso, ovviamente, sarà meglio attendere le reazioni della comunità scientifica internazionale e, se saremo fortunati, le informazioni del paleoDNA. Comunque, una possibile soluzione per integrare sia la novità di Harbin sia quella di Nesher Ramla in un quadro coerente ci sarebbe, come spiegherà Giorgio Manzi nella sua rubrica per il numero di agosto di "Le Scienze". Il passaggio cruciale consiste nel mettere ordine nelle diramazioni evolutive di Homo heidelbergensis. A questa specie del Pleistocene medio, distribuita sia in Africa che in Eurasia, possiamo essere ricondotti sia noi sia questo gruppo sempre più affollato e diversificato di nostri cugini evolutivi. |
Post n°3434 pubblicato il 07 Luglio 2021 da blogtecaolivelli
Fonte: risorse Internet. 17 maggio 2021 Comunicato stampa L'impronta digitale dei terremoti individuata con l'interferometria satellitare Fonte: Ingv © Ingv Dall'analisi delle immagini satellitari si riconoscono le aree a maggiore intensità sismica di un terremoto DISASTRI NATURALI SCIENZE DELLA TERRA Attraverso le immagini ottenute dall'interferometria satellitare, un team di ricercatori dell'Università Sapienza di Roma e dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) ha analizzato l'"impronta digitale" dei terremoti attraverso il riconoscimento della deformazione del suolo che accompagna un evento sismico. Gli scienziati, infatti, sono riusciti a stimare con precisione le dimensioni e a riconoscere l'area dove si concentrano gli scuotimenti più violenti che accompagnano i terremoti. Lo studio "The epicentral fingerprint of earthquakes marks the coseismically activated crustal volume" è stato appena pubblicato su 'Earth Science Reviews'. Le immagini ottenute con la tecnica InSAR (Interferometric Synthetic Aperture Radar) consentono di rilevare la deformazione cosismica (ovvero, la deformazione istantanea e permanente causata dal terremoto) delimitando l'area epicentrale dove si è concentrato lo spostamento maggiore, attraverso l'analisi della deformazione del terreno attorno alla faglia attivata durante un terremoto. "Nella ricerca abbiamo analizzato 32 eventi sismici, con l'obiettivo di confrontare i campi di deformazione in termini di forma, estensione spaziale e volumi di crosta terrestre coinvolti sia dalla mobilizzazione che dal contemporaneo attraversamento da parte delle onde sismiche, e il corrispondente tipo e magnitudo di terremoto" spiega Carlo Doglioni, Presidente dell'INGV e Professore della Sapienza. "La dimensione dell'area di superficie terrestre deformata rilevata da InSAR per terremoti magnitudo uguale o maggiore di 6 è sempre maggiore di 100 km2, mentre è anche oltre 550 km2 per terremoti di magnitudo di circa 6.5. Inoltre, il confronto tra InSAR e le accelerazioni di picco del suolo documenta un maggiore scuotimento all'interno delle aree che subiscono una maggiore deformazione verticale". "Dal 1993, con i dati InSAR è stato analizzato un lungo elenco di eventi sismici, sempre crescente grazie all'incremento del numero dei satelliti, al miglioramento della qualità di sensori SAR, e delle tecniche InSAR nelle aree continentali", affermano Patrizio Petricca, ricercatore della Sapienza, e Christian Bignami dell'INGV. "Con esse è possibile rilevare la deformazione cosismica, delimitando l'area epicentrale dove si è concentrato lo spostamento maggiore. Al di fuori di quest'area, a parte fenomeni di amplificazione locale, lo spostamento del suolo diminuisce, determinando l'attenuazione dello scuotimento sismico". "La conoscenza di queste manifestazioni della Terra aiuta a focalizzare più specificatamente la prevenzione sismica nelle future aree epicentrali, aiutando a calibrare la valutazione della pericolosità sismica in cui il movimento verticale gioca un ruolo rilevante nell'aumentare un maggiore scuotimento orizzontale e quindi maggiori danni. Perché i terremoti torneranno: in media in Italia si generano circa 20 terremoti distruttivi al secolo", conclude il Presidente Carlo Doglioni. Link allo studio:The epicentral fingerprint of earthquakes marks the coseismically activated crustal volume"Patrizio Petricca, Christian Bignami, Carlo Doglioni (2021). Earth Science Reviews.doi: https://doi.org/10.1016/j.earscirev.2021.103667 del testo di questo comunicato stampa, che è stato pubblicato integralmente e senza variazioni) |
Post n°3433 pubblicato il 07 Luglio 2021 da blogtecaolivelli
03 maggio 2021 Comunicato stampa Dai mari della Nuova Zelanda una importante scoperta sul rapporto tra materiali argillosi e terremoti Fonte: Ingv Baia dell'abbondanza, Nuova Zelanda del nord (© mountlynx/iStock) Analizzati con un nuovo metodo presso i laboratori INGV i sedimenti argillosi provenienti dal margine di subduzione neozelandese di Hikurangi, zona in passato luogo di tsunami e terremotiDISASTRI NATURALI SCIENZE DELLA TERRA I materiali argillosi delle faglie presenti nelle zone di subduzione, cioè dove una placca tettonica scivola al di sotto di un'altra placca, trattengono al loro interno un "cuscinetto d'acqua" e ciò fa sì che essi favoriscano terremoti potenzialmente capaci a provocare tsunami. Questo è il risultato dello studio "Fluid pressurisation and earthquake propagation in the Hikurangi subduction zone", condotto grazie alla collaborazione tra l'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, le Università di Pisa e Padova, e la University College London, su alcuni campioni provenienti dalla zona di Hikurangi in Nuova Zelanda. Il lavoro è stato pubblicato di 'Nature Communications'. "Nelle zone di subduzione" spiega Stefano Aretusini, ricercatore dell'INGV e primo autore dello studio, "lo scivolamento sismico che avviene a profondità crostali ridotte può portare alla generazione di sunami e terremoti. A causa delle difficoltà sperimentali nel deformare i materiali presenti in queste aree, i processi fisici che riducono la resistenza della spinta cui è sottoposta la faglia sono poco conosciuti. Analizzando in laboratorio il comportamento dei campioni prelevati nella zona di subduzione di Hikurangi", prosegue il ricercatore, "abbiamo scoperto che le argille presenti tendono ad avere una bassa resistenza alle spinte sismiche a causa dell'acqua in pressione che trattengono al loro interno". Per studiare il comportamento di queste argille provenienti dalla faglia i ricercatori hanno condotto degli esperimenti sui numerosi campioni raccolti durante la campagna internazionale di perforazione "Integrated Ocean Drilling Program 375" effettuata nel 2018 a largo dell'Isola Nord della Nuova Zelanda, a cui ha partecipato la professoressa Francesca Meneghini dell'Università di Pisa, seconda autrice del lavoro pubblicato. Fig. a) Schema della zona di subduzione di Hikurangi (la linea rossa indica il profilo nel pannello b) Fig. b) Posizione della perforazione oceanica IODP (linea verde) e della faglia di subduzione (linea rossa) Fig. c) Come appare il materiale di faglia ricco in argilla ©IngvIn dettaglio, sono stati polverizzati i campioni delle rocce presenti all'interno della faglia. Le polveri sono state testate nel Laboratorio Alta Pressione e Alte Temperature (HP-HT) dell'INGV attraverso un sofisticato apparato, SHIVA (Slow to High Velocity Apparatus) finanziato dall'European Research Council su un progetto di Giulio Di Toro, dell'Università di Padova e co-autore di questo studio, e riproduce il "motore" dei terremoti (la faglia) permettendo di osservare quello che accade all'interno della crosta terrestre e le deformazioni subite dalla roccia sotto fortissime pressioni. All'interno di SHIVA, le polverisono state analizzate attraverso un nuovo metodo che ha consentito di t rattenere al loro interno l'acqua mentre erano deformate alle velocità tipiche dei terremoti. Attraverso i test di controllo condotti su un materiale le cui caratteristiche sono note, una polvere di marmo di Carrara, i ricercatori sono arrivati alla conclusione che queste argille favoriscono lo scorrimento sismico della faglia proprio a causa della loro capacità di trattenere acqua, caratteristica che le rende più 'deboli'. "Quando ho deciso di partecipare alla spedizione oceano- grafica", racconta Francesca Meneghini, "ho subito contattato i colleghi dell'INGV e dell'Università di Padova, coi quali collaboro da anni, certa che fosse un'opportunità unica per testare la nuova tecnica sperimentale sviluppata all'Istituto e dare un ulteriore contributo alla nostra conoscenza dei fenomeni sismici". "I successivi sviluppi di questa ricerca", conclude Stefano Aretusini, "saranno quelli di analizzare con lo stesso metodo anche altri tipi di materiali campionati durante la missione per cercare di comprendere quali tra essi possono favorire il processo di scuotimento sismico una volta arrivati alla zona di subduzione". Dove: Lo studio "Fluid pressurisation and earthquake propagation in the Hikurangi subduction zone" è stato pubblicato sulla rivista internazionale Nature Communications.https://www.nature.com/articles/s 41467-021-22805-w testo di questo comunicato stampa, che è stato pubblicato integralmente e senza variazioni |
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