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Messaggi di Luglio 2021

Altre notizie di Cangrande della Scala.

Post n°3437 pubblicato il 27 Luglio 2021 da blogtecaolivelli

Fonte: Il Serenissimo, giornale regionale veneto.

Dopo 7 secoli svelato il mistero di Cangrande:

non morì avvelenato ma per una rara malattia.

di

pubblicato

21 Maggio 2021

Cangrande entra a Padova.Le analisi condotte dal Laboratorio di

Genomica Funzionale del Dipartimento di Biotecnologie dell'UniVR

hanno svelatoun mistero che durava da sette secoli.

A stroncare il Signore di Verona Cangrande della Scala non fu il veleno,

ma una rara malattia la Glicogenosi tipo II

Sette secoli di misteri e congetture. Sette secoli di accuse e rimpianti.

Cangrande, il principe di Verona.

Il fedele alleato dell'Imperatore.

Il conquistatore che voleva unificare tutta la Marca, ovvero il Veneto.

E che quasi stava per riuscirci.

In molti ipotizzano una storia differente, perlomeno per la nostra regione,

se Cangrande non fosse mancato all'improvviso, all'età di 38 anni.

Ebbene le analisi condotte dall'Università scaligera hanno svelato un mistero

che durava da sette secoli.

A stroncare il Signore di Verona Cangrande della Scala non fu il veleno,

ma una rara malattia genetica, la Glicogenosi tipo II.

A svelare il mistero sono state le analisi condotte dal Laboratorio di

Genomica Funzionale del Dipartimento di Biotecnologie

dell'Università di Verona.

Fu questo a portarlo alla morte il 22 luglio 1329, a Treviso.

Nessuna cospirazione quindi.

La Glicogenosi tipo II è una malattia genetica rara ad esordio

tardivo.

A rivelarlo sono state le analisi condotte dal Laboratorio di

Genomica Funzionale del Dipartimento di Biotecnologie

dell'Università di Verona, diretto dal professor Massimo

Delledonne.

Un'indagine di questo tipo non era mai stata eseguita prima

sul DNA di una mummia.

Il Laboratorio di Antropologia Molecolare e Paleogenetica

dell'Università di Firenze, coordinato dal professor David

Caramelli e dalla professoressa Martina Lari, ha collaborato

nell'estrazione del DNA. Luminari nell'estrazione di DNA antico.

La partnership tra Museo di Storia Naturale e Università degli

Studi di Verona e di Firenze ha permesso per la prima volta di

analizzare un DNA così antico usando però le più moderne

tecniche scientifiche.

E riuscendo per la priva volta a giungere ad una diagnosi clinica

certa anche in assenza di fonti storiche.

La malattia da cui era affetto si evidenzia in una scarsa resistenza alla fatica fisica, difficoltà respiratoria, debolezza muscolare e crampi. Ma anche fratture ossee spontanee e cardiopatia

Cangrande è stato quindi "sequenziato" come se si trattasse di un

paziente dei nostri giorni.

Ad essere analizzato, un piccolo frammento di falange.

L'analisi bioinformatica degli 83 milioni di sequenze prodotte ha

portato alla ricostruzione del 93.4% dei suoi geni.

La malattia da cui era affetto si evidenzia in una scarsa resistenza alla

fatica fisica, difficoltà respiratoria, debolezza muscolare e crampi.

Ma anche fratture ossee spontanee e cardiopatia.

La morte dei pazienti adulti è spesso quasi improvvisa.

Come accaduto a Cangrande, deceduto dopo solo tre giorni di malattia

"Una giornata storica per la città di Verona - sottolinea il sindaco di

Verona Federico Sboarina -.

Attraverso uno studio genetico mai eseguito prima su campioni di

mummia risalenti a 700 anni fa è stato possibile svelare molti aspetti

della vita e della morte di una delle figure storiche più importanti

della nostra città.

La morte di Cangrande oggi non è più un mistero.

Contrariamente a quanto sospettato per secoli, il Signore di Verona

non fu assassinato.

Ma morì per cause naturali o, più correttamente, per una malattia genetica.

Un risultato straordinario, frutto di un lavoro di squadra importante".

Il medico di Cangrande, nel tentativo di contrastare la debolezza data dalla malattia, somministrò dosi eccessive di digitale. Questo fece pensare ad un avvelenamento

Alcune opere storiche hanno messo in luce piccoli indizi compatibili

con questa patologia, relativi a soste forzate nel corso di tragitti a

cavallo abbastanza brevi, ad improvvisi malesseri e, forse, anche

alla preferenza per l'uso dell'arco rispetto alla spada.

Il quadro clinico della morte di Cangrande è pertanto compatibile con

la malattia di Glicogenosi tipo II ad esordio tardivo.

Il medico di Cangrande, nel tentativo di contrastare questa debolezza,

somministrò dosi eccessive di digitale (una sostanza utilizzata come

cardiotonico).

Questo fece pensare ad un avvelenamento.

Tanto che il medico venne impiccato di lì a poco.

Oggi sappiamo che quella somministrazione era ben lungi dall'intento

di avvelenare il Principe.

Il 18 luglio 1329 si ammala e dopo tre giorni muore: era il 22 luglio 1329. Cangrande aveva solo 38 anni

In ambito storico sono riportati alcuni dei momenti più critici

della salute di Cangrande.

Prima crisi, il 17 settembre 1314, all'età di 23 anni.

Dopo una cavalcata veloce il Signore di Verona deve lasciare il cavallo

e viene trasferito su un carro.

Seconda crisi, il 25 agosto 1320, a 29 anni.

Ferito ad una coscia fu trasportato all'accampamento, dove si riprese

e ritornò in battaglia.

In realtà, dalle autopsie effettuate sul corpo non sono state riscontrate

cicatrici sulla coscia.

Ciò fa supporre si trattasse di altri sintomi, sempre riconducibili a

lla malattia.

Terza crisi, il 4 luglio 1325, all'età di 34 anni. In una cavalcata da Verona

verso Vicenza Cangrande ebbe un improvviso malore e tornò a Verona,

dove peggiorò.

Rimanendo tra la vita e la morte per dieci giorni e poi malato per mesi.

Quarta crisi, il 18 luglio 1329 si ammala e dopo tre giorni muore:

era il 22 luglio 1329. Cangrande aveva solo 38 anni.

La redazione

 
 
 

Notizie del Conte Ugolino

Post n°3436 pubblicato il 27 Luglio 2021 da blogtecaolivelli

Fonte: risorse della rete.

Sfoglia l'archivio Adnkronos

GENETICA: CONTE UGOLINO - TEST DEL DNA CONFERMA, SUE LE OSSA

PRIMA DI MORIRE IL LEGGENDARIO PERSONAGGIO

SOFFRI' DAVVERO FAME

(Adnkronos Salute) -

''C'e' lo scheletro di uomo morto tra i 75 e gli 80 anni, molto alto,

all'incirca un metro e 80 centimetri'', spiega Mallegni che fin

dall'inizio del ritrovamento ha proposto l'identificazione di

questi resti con quelli di Ugolino della Gherardesca.

''Ci sono poi due persone morte tra i 40 e 50 anni che l'esame del

Dna - afferma Mallegni - ha dimostrato essere fratelli.

Infine abbiamo altre due persone piu' giovani, uno intorno ai 25

anni e l'altro piu' vicino ai 30, che certamente non sono fratelli.

Tutti erano molto alti, robusti, hanno avuto la stessa alimentazione

ricca di pesce, verdura e carne per un lungo periodo della loro vita

e, negli ultimi mesi, ridotti soltanto a pane e acqua.

Non vedo quali dubbi possiamo ancora avere sull'identita' di questi

personaggi''.

Il caso dunque e' chiuso? Lo stesso Dna non puo' dare risposte piu'

esaurienti.

La ricerca genetica e' stata effettuata su un tipo di Dna, quello mitocondriale,

che si eredita dalla madre e che individua la discendenza da questa.

L'altro Dna, quello nucleare, presente in entrambi i genitori, si conserva

piu' difficilmente ed ha un numero cosi' grande di ''basi'' da rendere difficilis-

sima la sua interpretazione.

Pertanto non si potra' mai trovare la parentela diretta tra i cinque uomini

sepolti nella stessa tomba della chiesa di San Francesco a Pisa, visto che

la consanguineita' verrebbe solo dal padre.

''Ma - sostiene Mallegni - le risposte avute sono sufficienti per concludere

che si tratta proprio del conte Ugolino e dei suoi familiari''.


Secondo le indagini eseguite dal professor Mallegni, l'ipotesi piu' probabile

e' che il conte Ugolino della Gherardesca, i due figli e i due nipoti siano morti

per fame e poi finiti con un colpo di spada, dopo essere stati rinchiusi per

nove mesi nella Torre dei Gualandi, a Pisa, nel 1289.

Lo studioso ha identificato sulla parte posteriore sinistra del cranio

dell'individuo piu' anziano un colpo violento, con tutta probabilita' sferrato

da una spada.

Un identico colpo sulla testa e' stato rintracciato anche sullo scheletro presumibil-

mente appartenuto ad uno dei figli del conte.

La ''leggenda nera'' di Ugolino si deve a Dante Alighieri che nella Divina

Commedia accusa il condottiero pisano di aver compiuto ''il fiero pasto'',

ovvero di essersi cibato della carne umana dei figli e dei nipoti per

sopravvivere nella ''Torre della fame''.

(Adnk/Adnkronos Salu

 
 
 

le novità su Homo Sapiens.

Post n°3435 pubblicato il 07 Luglio 2021 da blogtecaolivelli

Fonte: Internet

25 giugno 2021

Due nuovi Homo scuotono l'albero evolutivo

di Anna Meldolesi

Ricostruzione del nuovo "Dragon Man" nel suo habitat

(© Chuang Zhao)

 Il cranio di Harbin, scoperto in Cina, potrebbe

spodestare i neanderthaliani diventando il nostro

parente più prossimo, mentre i fossili di Nesher

Ramla, in Israele, vanno ad arricchire il melting pot

umano del PleistoceneHomo sapiens sembra aver

trovato due nuovi cugini.

C'è Homo longi, che dalla Cina reclama un posto speciale

nell'album di famiglia, quello di nostro parente più stretto,

che finora era spettato a Neanderthal.

Mentre da Israele si fa avanti l'uomo di Nesher Ramla,

forte della copertina conquistata su "Science" e del

titolo di ultimo sopravvissuto dell'umanità pre-

neanderthaliana. Entrambi sono vissuti in un'epoca

dinamica, caratterizzata da migrazioni e rimescolamenti,

intorno a 140.000 anni fa.

Ed entrambi sfidano la comunità dei paleoantropologi

a rimettere ordine nelle ricostruzioni sempre più

intricate della nostra evoluzione recente.

Il fossile cinese vanta un soprannome da supereroe:

Dragon Man.

Ma tra gli specialisti era già noto come il cranio di Harbin,

dalla città della Manciuria famosa per il festival delle

sculture di ghiaccio.

In effetti si tratta di un vecchio ritrovamento, avvenuto

negli anni trenta del secolo scorso nella provincia

più settentrionale della Cina: Heilongjiang.

Ricostruzione virtuale del cranio di Harbin (© Xijun Ni)

Ma oggi è tornato a fare notizia perché questo cranio,

conservato quasi alla perfezione e custodito al

Museo di geoscienza dell'Università di Hebei, è il

protagonista di alcuni lavori pubblicati il 25 giugno

su "Innovation", e in particolare quelli a prima firma

Quang Ji eXijun Ni.

La rivista open access, lanciata dal gruppo Cell in

collaborazione con l'Accademia cinese delle scienze,

ne propone una nuova interpretazione che farà

discutere.

Così lo descrivono Ji, Ni e i loro colleghi dell'Università

di Hebei, che per l'occasione firmano insieme al

grande antropologo inglese Christopher Stringer.

Dragon Man è, ovviamente, un esemplare di sesso

maschile, morto all'età di circa cinquant'anni, dopo

una vita passata in una piccola comunità di

cacciatori-raccoglitori in un'area fluviale boscosa.

Probabilmente cacciava mammiferi e uccelli,

raccoglieva tuberi e frutti, forse pescava.

Il suo cranio era abbastanza voluminoso da

contenere un cervello di dimensioni paragonabili

al nostro, ma se avessimo la possibilità di incontrarlo

per strada, i suoi lineamenti inconsueti non

passerebbero inosservati.

Sotto la volta cranica lunga e bassa si trovava una

faccia larga, con orbite oculari ampie e squadrate,

una spessa arcata ossea sopraccigliare, zigomi

bassi e poco sporgenti, grandi denti dentro a una

grande bocca.

Elementi arcaici, dunque, mescolati ad altri derivati,

in una combinazione che, secondo gli autori dello

studio, lo differenzia da tutte le altre specie di

Homo già riconosciute (sia dai contemporanei H.

sapiens, Neanderthal e Denisova, sia dai più antichi

H. heidelbergensis).Fantasmi del passatoAnna

MeldolesiSecondo gli autori, considerando sia la

corporatura sia il suo paleo-habitat, H. longi

deve essere stato in grado di sopravvivere in

ambienti ostili e di spingersi in altre aree dell'Asia.

Le analisi geochimiche hanno consentito di datarlo

a 145.000 anni fa, un periodo in cui i primi sapiens

potrebbero essere già usciti dall'Africa.

Si sono incontrati?Anche se oggi siamo soli al

mondo, c'è stato un tempo in cui i nostri antenati,

già appellabili con la qualifica sapiens, hanno

condiviso la scena con altri gruppi umani oggi estinti,

come Neanderthal e Denisoviani.

Scambiandosi, probabilmente, sia geni che conoscenze,

durante incontri che hanno lasciato delle tracce nel

nostro DNA.

C'è stato qualcosa anche tra la nostra specie e

H. longi?Secondo Stringer, del Museo di storia

naturale di Londra, l'ipotesi di un contatto è plausibile:

"Sappiamo che a quei tempi una molteplicità di

popolazioni e di linee evolutive delle specie Homo

coesistevano in Asia, Africa ed Europa.

Perciò se Homo sapiens si è spinto nell'Asia orientale

precocemente, può aver avuto l'occasione di

interagire conHomo longi", ragiona lo studioso inglese.

"Poiché non sappiamo quando il gruppo di Harbin

è scomparso, potrebbero esserci stati degli incontri

anche successivamente.

"Secondo Xijun Ni e i suoi coautori "la divergenza

tra H. sapiens e i Neanderthal potrebbe risalire a

oltre un milione di anni fa, in una fase della storia

evolutiva più profonda di quanto si creda general-

mente".

Se i ricercatori cinesi avessero ragione, dunque,

H. longirappresenterebbe la linea evolutiva sorella

più prossima all'origine di sapiens.

Ma resta da vedere quanti nella comunità scientifica

accoglieranno a braccia aperte la nuova specie e

la sua possibile collocazione.

La complessità dello scenario evolutivo, e l'alto

tasso di diversità degli uomini e delle donne del

Pleistocene, sono i messaggi chiave anche

dell'altra scoperta, annunciata su "Science"

da Israel Hershkovitz dell'Università di Tel Aviv

insieme a un gruppo internazionale di cui fa parte

anche Giorgio Manzi della "Sapienza" Università

di Roma.

In questo caso i ricercatori hanno evitato

un'attribuzione tassonomica formale.

Insomma non c'è ancora la proposta di una

nuova specie.

Una prudenza apprezzabile, anche considerato

come le nuove conoscenze genomiche stanno

mettendo in crisi la divisione rigida tra le specie

umane vissute nell'ultimo mezzo milione di anni.

I resti fossili dell'uomo di Nesher Ramla, in Israele:

un osso parietale e la mascella

(© Tel Aviv University)Dell'uomo di Nesher Ramla

abbiamo l'osso parietale destro, alcuni frammenti

del parietale sinistro e una mandibola quasi

completa, rinvenuti in un sito datato tra i 140.000

e i 120.000 anni fa, in una depressione carsica

nell'area centrale di Israele.

Il suo ritratto è un mosaico di caratteri più arcaici

sia di Neanderthal sia H. sapiens con i quali, però,

si è trovato a convivere in questa strategica

regione geografica.

In poche parole, il nuovo fossile rappresenterebbe

una delle ultime popolazioni sopravvissute del

Pleistocene medio.

La suggestiva ipotesi avanzata dai ricercatori è che

questo gruppo umano dal Medio Oriente abbia

contribuito alle origini dei Neanderthal in Europa.

Una possibilità che sembra in linea con altri studi

recenti, sia morfologici sia genetici.

La sorprendente modernità di Homo heidelbergensisdi

Anna Rita LongoGli artefatti litici associati al

ritrovamento, però, indicano uno stile di lavorazione

della pietra uguale a quello dei suoi contemporanei

sapiens, con cui si ipotizza abbia intrattenuto

scambi culturali.

Firmando l'articolo che accompagna la pubblicazione

dell'articolo su "Science", Marta Mirazón Lahr non

ha dubbi: "Le affinità morfologiche e archeologiche

non collimanti, e la collocazione all'incrocio tra Africa

ed Eurasia, rendono estremamente importante

questa scoperta".

Anche in questo caso, ovviamente, sarà meglio

attendere le reazioni della comunità scientifica

internazionale e, se saremo fortunati, le informazioni

del paleoDNA.

Comunque, una possibile soluzione per integrare

sia la novità di Harbin sia quella di Nesher Ramla

in un quadro coerente ci sarebbe, come spiegherà

Giorgio Manzi nella sua rubrica per il numero di agosto

di "Le Scienze".

Il passaggio cruciale consiste nel mettere ordine

nelle diramazioni evolutive di Homo heidelbergensis.

A questa specie del Pleistocene medio, distribuita

sia in Africa che in Eurasia, possiamo essere

ricondotti sia noi sia questo gruppo sempre più

affollato e diversificato di nostri cugini evolutivi.

 
 
 

Le impronte dei terremoti.

Post n°3434 pubblicato il 07 Luglio 2021 da blogtecaolivelli

Fonte: risorse Internet.

17 maggio 2021

Comunicato stampa

L'impronta digitale dei terremoti individuata con

l'interferometria satellitare

Fonte: Ingv © Ingv Dall'analisi delle immagini

satellitari si riconoscono le aree a maggiore

intensità sismica di un terremoto

DISASTRI NATURALI SCIENZE DELLA TERRA

Attraverso le immagini ottenute dall'interferometria

satellitare, un team di ricercatori dell'Università

Sapienza di Roma e dell'Istituto Nazionale di

Geofisica e Vulcanologia (INGV) ha analizzato

l'"impronta digitale" dei terremoti attraverso il

riconoscimento della deformazione del suolo che

accompagna un evento sismico.

Gli scienziati, infatti, sono riusciti a stimare con

precisione le dimensioni e a riconoscere l'area

dove si concentrano gli scuotimenti più violenti

che accompagnano i terremoti.

Lo studio "The epicentral fingerprint of earthquakes

marks the coseismically activated crustal volume"

è stato appena pubblicato su 'Earth Science Reviews'. 

Le immagini ottenute con la tecnica InSAR

(Interferometric Synthetic Aperture Radar) consentono

di rilevare la deformazione cosismica (ovvero, la

deformazione istantanea e permanente causata

dal terremoto) delimitando l'area epicentrale dove

si è concentrato lo spostamento maggiore,

attraverso l'analisi della deformazione del terreno

attorno alla faglia attivata durante un terremoto. 

"Nella ricerca abbiamo analizzato 32 eventi sismici,

con l'obiettivo di confrontare i campi di deformazione

in termini di forma, estensione spaziale e volumi di

crosta terrestre coinvolti sia dalla mobilizzazione

che dal contemporaneo attraversamento da parte

delle onde sismiche, e il corrispondente tipo e

magnitudo di terremoto" spiega Carlo Doglioni,

Presidente dell'INGV e Professore della Sapienza.

"La dimensione dell'area di superficie terrestre

deformata rilevata da InSAR per terremoti magnitudo

uguale o maggiore di 6 è sempre maggiore di 100

km2, mentre è anche oltre 550 km2 per terremoti

di magnitudo di circa 6.5.

Inoltre, il confronto tra InSAR e le accelerazioni di

picco del suolo documenta un maggiore scuotimento

all'interno delle aree che subiscono una maggiore

deformazione verticale". "Dal 1993, con i dati

InSAR è stato analizzato un lungo elenco di eventi

sismici, sempre crescente grazie all'incremento del

numero dei satelliti, al miglioramento della qualità

di sensori SAR, e delle tecniche InSAR nelle aree

continentali", affermano Patrizio Petricca, ricercatore

della Sapienza, e Christian Bignami dell'INGV.

"Con esse è possibile rilevare la deformazione cosismica,

delimitando l'area epicentrale dove si è concentrato lo

spostamento maggiore.

Al di fuori di quest'area, a parte fenomeni di

amplificazione locale, lo spostamento del suolo

diminuisce, determinando l'attenuazione dello

scuotimento sismico".

 "La conoscenza di queste manifestazioni della

Terra aiuta a focalizzare più specificatamente la

prevenzione sismica nelle future aree epicentrali,

aiutando a calibrare la valutazione della pericolosità

sismica in cui il movimento verticale gioca un ruolo

rilevante nell'aumentare un maggiore scuotimento

orizzontale e quindi maggiori danni.

Perché i terremoti torneranno: in media in Italia

si generano circa 20 terremoti distruttivi al secolo",

conclude il Presidente Carlo Doglioni.

 Link allo studio:The epicentral fingerprint of

earthquakes marks the coseismically activated

crustal volume"Patrizio Petricca, Christian Bignami,

Carlo Doglioni (2021). Earth Science Reviews.doi: https://doi.org/10.1016/j.earscirev.2021.103667

(La redazione di Le Scienze non è responsabile

del testo di questo comunicato stampa, che è

stato pubblicato integralmente e senza variazioni) 

 
 
 

Dalla Nuova Zelanda.

Post n°3433 pubblicato il 07 Luglio 2021 da blogtecaolivelli

 03 maggio 2021

Comunicato stampa

Dai mari della Nuova Zelanda una importante

scoperta sul rapporto tra materiali argillosi e

terremoti

Fonte: Ingv Baia dell'abbondanza, Nuova Zelanda del nord (© mountlynx/iStock) Analizzati con un nuovo metodo

presso i laboratori INGV i sedimenti argillosi

provenienti dal margine di subduzione neozelandese

di Hikurangi, zona in passato luogo di tsunami e

terremotiDISASTRI NATURALI SCIENZE DELLA TERRA

I materiali argillosi delle faglie presenti nelle zone

di subduzione, cioè dove una placca tettonica

scivola al di sotto di un'altra placca, trattengono

al loro interno un "cuscinetto d'acqua" e ciò fa sì

che essi favoriscano terremoti potenzialmente

capaci a provocare tsunami.

 Questo è il risultato dello studio "Fluid pressurisation

and earthquake propagation in the Hikurangi subduction

zone", condotto grazie alla collaborazione tra l'Istituto

Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, le Università di

Pisa e Padova, e la University College London, su

alcuni campioni provenienti dalla zona di Hikurangi in

Nuova Zelanda.

Il lavoro è stato pubblicato di 'Nature Communications'.

 "Nelle zone di subduzione" spiega Stefano Aretusini,

ricercatore dell'INGV e primo autore dello studio,

"lo scivolamento sismico che avviene a profondità

crostali ridotte può portare alla generazione di

sunami e terremoti.

A causa delle difficoltà sperimentali nel deformare i

materiali presenti in queste aree, i processi fisici che

riducono la resistenza della spinta cui è sottoposta

la faglia sono poco conosciuti.

Analizzando in laboratorio il comportamento dei

campioni prelevati nella zona di subduzione di

Hikurangi", prosegue il ricercatore, "abbiamo scoperto

che le argille presenti tendono ad avere una bassa

resistenza alle spinte sismiche a causa dell'acqua in

pressione che trattengono al loro interno". 

Per studiare il comportamento di queste argille

provenienti dalla faglia i ricercatori hanno condotto

degli esperimenti sui numerosi campioni raccolti

durante la campagna internazionale di perforazione

"Integrated Ocean Drilling Program 375" effettuata

nel 2018 a largo dell'Isola Nord della Nuova

Zelanda, a cui ha partecipato la professoressa

Francesca Meneghini dell'Università di Pisa, seconda

autrice del lavoro pubblicato.

 Fig. a)  Schema della zona di subduzione di Hikurangi

(la linea rossa indica il profilo nel pannello b) Fig.

b) Posizione della perforazione oceanica IODP

(linea verde) e della faglia di subduzione (linea rossa)

Fig. c) Come appare il materiale di faglia ricco in argilla

©IngvIn dettaglio, sono stati polverizzati i campioni

delle rocce presenti all'interno della faglia.

Le polveri sono state testate nel Laboratorio Alta

Pressione e Alte Temperature (HP-HT) dell'INGV attraverso

un sofisticato apparato, SHIVA (Slow to High Velocity

Apparatus) finanziato dall'European Research

Council su un progetto di Giulio Di Toro, dell'Università

di Padova e co-autore di questo studio, e riproduce

il "motore" dei terremoti (la faglia) permettendo di

osservare quello che accade all'interno della crosta

terrestre e le deformazioni subite dalla roccia sotto

fortissime pressioni.

All'interno di SHIVA, le polverisono state analizzate

attraverso un nuovo metodo che ha consentito di t

rattenere al loro interno l'acqua mentre erano deformate

alle velocità tipiche dei terremoti. 

 Attraverso i test di controllo condotti su un materiale le

cui caratteristiche sono note, una polvere di marmo di

Carrara, i ricercatori sono arrivati alla conclusione che

queste argille favoriscono lo scorrimento sismico della

faglia proprio a causa della loro capacità di trattenere

acqua, caratteristica che le rende più 'deboli'. 

"Quando ho deciso di partecipare alla spedizione oceano-

grafica", racconta Francesca Meneghini, "ho subito

contattato i colleghi dell'INGV e dell'Università di Padova,

coi quali collaboro da anni, certa che fosse un'opportunità

unica per testare la nuova tecnica sperimentale

sviluppata all'Istituto e dare un ulteriore contributo alla

nostra conoscenza dei fenomeni sismici". 

"I successivi sviluppi di questa ricerca", conclude Stefano

Aretusini, "saranno quelli di analizzare con lo stesso

metodo anche altri tipi di materiali campionati durante

la missione per cercare di comprendere quali tra essi

possono favorire il processo di scuotimento sismico

una volta arrivati alla zona di subduzione". 

Dove: Lo studio "Fluid pressurisation and earthquake

propagation in the Hikurangi subduction zone" è stato

pubblicato sulla rivista internazionale Nature

Communications.https://www.nature.com/articles/s

41467-021-22805-w

(La redazione di Le Scienze non è responsabile del

testo di questo comunicato stampa, che è stato

pubblicato integralmente e senza variazioni

 
 
 

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