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Messaggi del 07/06/2019

L'ANTIMATERIA

Post n°2228 pubblicato il 07 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

fonte: Le Scienze

I fulmini dei temporali producono

antimateria: la studio giapponese

AMBIENTE Angelo Petrone 12:48 25 Novembre 2017

Secondo i ricercatori dell'Università di Kyoto

fulmini sarebbero in grado di generare

 antimateria, immediatamente annullata

dall'interazione con la materia.

Lo studio, pubblicato sulla rivista Nature, ha

rivelato una serie di dati catturati attraverso

una rete di rilevatori di raggi gamma realizzata

sulle coste del Giappone.

Un notevole picco di raggi gamma è stato

individuato, nel febbraio del 2017, a Kashiwazaki,

subito dopo un fulmine.

Analizzando i dati gli esperti hanno individuato

tre lampi gamma, di diversa entità.

Nel primo caso l'evento ha avuto una durata

minima, pari a un millisecondo, il secondo è

stato classificato come un bagliore residuo

mentre il terzo si è protratto per quasi un minuto.

fulmine antimateria

I fulmini dei temporali producono

antimateria: la studio giapponese

Dai dati analizzati è emerso come il 

primo lampo gamma sia stato prodotto

da un fulmine come anche gli altri due eventi.

Il secondo, in particolare, sarebbe il frutto d

i un processo che ha portato i raggi gamma

del fulmine a cacciare dal nucleo dell'azoto,

presente nell'atmosfera, un neutrone che

successivamente è stato riassorbito dalle

particelle dell'atmosfera con la produzione

del bagliore di raggi gamma.

Il terzo avvistamento di antimateria, invece

sarebbe il frutto del collasso degli atomi

atmosferici instabili per la mancanza dei

neutroni: tutto ciò avrebbe prodotto le 

particelle di antimateria.

 Queste ultime, i positroni, si sarebbero

scontrate con la materia, gli elettroni,

producendo il rilascio dei raggi gamma.

 
 
 

I CFC che distruggono l'ozono

Post n°2227 pubblicato il 07 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

 

Tornano ad aumentare i gas che distruggono l'ozono

© Science Photo Library / AG

Dal 2013 i livelli atmosferici dei CFC,

ovvero gas che distruggono lo strato di

ozono, sono tornati ad aumentare nonostante

la loro messa al bando in tutto il mondo.

Una parte consistente di queste nuove emissioni

illegali proviene da province della Cina orientale

ambientechimica

Dal 2013, le emissioni annuali di clorofluoro-

carburi (CFC) - una delle più importanti classi

di molecole che distruggono lo strato di ozono

che ci protegge dalle radiazioni ultraviolette del

Sole - il cui uso è vietato dal Protocollo di

Montreal, sono aumentate in modo inaspettato.

L'immissione in atmosfera di questi gas proviene

in buona pare da alcune regioni della Cina orientale.

A documentarlo è uno studio effettuato da un

gruppo internazionale di ricercatori diretto da

Matt Rigby dell'Università di Bristol, e pubblicato

 su "Nature", che ha in particolare tracciato il

CFC-11, uno dei clorofluorocarburi in passato

più diffusi.

Negli ultimi decenni i livelli atmosferici di

CFC-11 erano in discesa in seguito agli accordi

internazionali per una loro progressiva messa

al bando.

Le analisi dei dati registrati da varie reti di

monitoraggio sparse per il mondo hanno però

mostrato che dal 2013 c'è stato un nuovo

inaspettato rialzo, indice che da qualche parte

erano riprese emissioni illegali di questo

composto, un tempo ampiamente usato come

fluido di refrigerazione nei frigoriferi e come

schiumogeni negli isolati degli edifici.

Tornano ad aumentare i gas che distruggono l'ozono

Il confronto fra le emissioni di CFC in

Cina orientale nel periodo 2008-2012 (sinistra)

e 2014-2017 (destra) indica un netto aumento.

(University of Bristol )Per escludere che l'aumento

fosse realmente dovuto a una nuova produzione,

ha spiegato Rigby, "abbiamo esaminato le

stime sulla quantità di CFC-11 che potrebbe

essere inglobato in schiume isolanti in edifici

o frigoriferi prodotti prima del 2010, ma le

quantità erano troppo piccole per spiegare

il recente aumento".

Per poter stabilire la provenienza del gas,

è stato necessario allestire una nuova rete

di rilevazione; le centraline di quella usata

fino ad allora erano collocate in punti molto

lontani dalle possibili fonti di emissione,

proprio per essere sicuri di rilevare le

concentrazioni medie globali di CFC-11.

L'analisi dei dati provenienti dalla nuova rete

- che copre diverse aree parti di Nord America,

Europa, Australia meridionale, Corea e Giappone

- ha ora mostrato che dal 40 al 60 per cento

delle nuove emissioni, pari a circa 7000 tonnellate

all'anno di gas, proviene dalla Cina orientale,

e in particolare dalle province di Shandong e

di Hebei.

Per l'individuazione dei responsabili specifici

bisognerà chiedere la collaborazione diretta

delle autorità cinesi, che peraltro proprio di

recente hanno individuato e chiuso alcuni

impianti di produzione illegali.

I dati indicano peraltro che aumenti minori

si siano verificati anche in altri paesi o nelle

regioni più occidentali della Cina, tutte aree

troppo lontane dagli attuali punti di monitoraggio

della rete di monitoraggio.

Purtroppo, anche la nuova rete non copre

molte aree del globo, specie nei paesi in via di

sviluppo, ma quel che è peggio, osservano i

ricercatori, è che "probabilmente abbiamo rilevato

solo una parte del totale dei CFC prodotti.

Il resto potrebbe essere incluso in edifici e

refrigeratori e verrà rilasciato nell'atmosfera

nei prossimi decenni", ritardando il tempo

necessario allo strato di ozono e al "buco"

dell'ozono antartico per riprendersi. (red)

 
 
 

Scoperta la stirpe ancestrale dei nativi americani

Post n°2226 pubblicato il 07 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

04 gennaio 2018

Fonte: Le Scienze

Scoperta la stirpe ancestrale dei nativi americani

Nuovi dati genetici ottenuti da resti ritrovati

in Alaska suggeriscono che il popolamento

dell'America sia avvenuto in un'unica ondata

migratoria, risalente ad almeno 20.000 anni fa.

Ne fu protagonista un'antica popolazione, finora

sconosciuta, gli antichi Beringi, da cui

discenderebbero tutti i nativi americani(red)

geneticaantropologia

L'analisi genetica del DNA ottenuto dai resti

di una neonata di 6 settimane ritrovati in

un sito archeologico dell'Alaska ha fornito

i primi dati diretti relativi all'antica popolazione

- finora sconosciuta - capostipite di tutti i nativi

americani.

Le analisi - condotte da ricercatori dell'Università

dell'Alaska a Fairbanks e dell'Università di

Copenaghen e pubblicate su "Nature" -

gettano nuova luce sul popolamento delle

Americhe.

Pur essendo ampiamente accettato che i

primi colonizzatori del Nuovo Mondo abbiano

attraversato un antico ponte terrestre che

collegava la Siberia orientale e l'Alaska prima

che, alla fine dell'ultima era glaciale, si

formasse lo Stretto di Bering, i tempi e le

modalità di questa migrazione erano

ancora in discussione.

Ricostruzione dell'antico villaggio Beringio

a Upward Sun River (Cortesia Eric S.

Carlson / Ben Potter)Ma nel 2013, nel sito

archeologico di Upward Sun River, nel bacino

idrografico del fiume Tanana, in Alaska, sono

stati ritrovati i resti di due neonate risalenti a

11.500 anni fa, dai quali ora sono stati

estratti e seque

nziati campioni di DNA.

Per una delle neonate è stato possibile

ricostruire l'intero genoma scoprendo che, pur

essendo vissuta molto dopo l'arrivo dei primi

uomini nella regione, le sue informazioni

genetiche non corrispondevano a nessuno dei

due rami noti dei primi nativi americani,

corrispondenti alle popolazioni che colonizzarono

il Nord e il Sud America.

Eske Willerslev e colleghi hanno chiamato questa

nuova popolazione antichi Beringi.

(Dell'altra neonata si è potuto solo appurare

che era una parente stretta dell'altra, probabilmente

una cugina di primo grado.)

Ulteriori più approfondite analisi hanno

mostrato che gli antichi Beringi erano una

propaggine della stessa popolazione antenata

dei gruppi dell'America del Nord e del Sud,

dai quali si erano però separati poco dopo

 l'arrivo nel continente.

Secondo la ricostruzione dei ricercatori, la

popolazione ancestrale dei nativi americani

si separò dalle popolazioni del nord est asiatico

circa 36.000 anni fa, pur conservando con

esse un piccolo flusso genetico fino a 25.000

anni fa, per poi spostarsi in Alaska circa

20.000 anni fa.

Successivamente, mentre gli antichi Beringi

continuarono a vivere in quelle lande, il resto

della popolazione migrò più a sud, per suddividersi

poi a sua volta (fra 17.000 e 14.000 anni fa)

nei gruppi che hanno dato origine alle

popolazioni indigene del Nord e Sud America.

Scoperta la stirpe ancestrale dei nativi americani

Gli scavi nel sito di Upward Sun River, in

Alaska (Cortesia Ben Potter)Molto dopo

gli eventi migratori iniziali, infine, si verificò

una migrazione "di ritorno" delle popolazioni

del ramo nordamericano verso l'Alaska, che

alla fine sostituì o assorbì gli antichi Beringi,

diluendone il contributo genetico alle popolazioni

indigene attuali fino al limite del rilevabile.

 
 
 

Un'ipotesi per l'oceano caldo di Plutone

Post n°2225 pubblicato il 07 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

21 maggio 2019

Fonte: Le Scienze

Un'ipotesi per l'oceano caldo di Plutone

Sotto la superficie del pianeta nano si trova

un oceano di acqua non del tutto ghiacciata.

A trattenere il calore rispetto alla coltre di

ghiaccio superficiale sarebbe uno strato di gas

idrati, formati da metano intrappolato in un

reticolo di molecole di acqua

planetologiaastronomia

Le osservazioni di Plutone effettuate nel 2015

dalla missione New Horizons della NASA indicavano

la presenza sul pianeta nano di un oceano al di

sotto di uno strato di ghiaccio superficiale di

spessore variabile.

Ora un articolo pubblicato su "Nature Geoscience" 

da Shunichi Kamata, dell'Università della California

a Santa Cruz, e colleghi di una collaborazione

internazionale ipotizza che a separare la coltre

di ghiaccio dall'oceano sottostante vi sia uno

strato di gas idrati, cioè di molecole di gas

intrappolate in un reticolo di molecole di acqua.

Un'ipotesi per l'oceano caldo di Plutone

Immagine di Sputnik Planitia (NASA)

Il risultato è di fondamentale importanza

per lo studio della composizione e della

formazione dell'intero sistema solare.

I planetologi ipotizzano che oceani di acqua

liquida possano trovarsi all'interno non solo

di Plutone - riclassificato nel 2006 come

pianeta nano dopo essere stato considerato

dal 1930, anno della scoperta, il nono pianeta

del sistema solare - ma anche di satelliti dei

pianeti giganti, per esempio le lune Europa

ed Encelado.

Il problema è capire quali siano le condizioni

chimico-fisiche che permettano la stabilità

di acqua liquida.

Nel caso di Plutone l'attenzione dei ricercatori

si è concentrata su Sputnik Planitia, una bacino

depresso del diametro di circa 1000 chilometri

situato vicino all'equatore.

Qui gli strumenti hanno rilevato un'anomalia

gravitazionale positiva.

Ciò significa che il valore di gravità misurato

è superiore a quello teorico, indicando la

presenza sotto la superficie di una massa con

una densità superiore a quella prevista: l'idea

è che si tratti di un oceano "caldo", cioè non

completamente ghiacciato.

D'altra parte, la superficie è indubitabilmente

ghiacciata, e quindi la sua temperatura deve

essere più bassa rispetto a quella dell'oceano.

Da dove viene questo calore? E come si mantiene

fredda la superficie? Kamata e colleghi si sono

interrogati sulla sua possibile origine.

Nel caso di un pianeta nano come Plutone, è da

escludere un ruolo delle deformazioni di marea,

dovute all'interazione gravitazionale con altri

copri celesti, che invece possono riscaldare i

satelliti ghiacciati.

È da escludere anche un riscaldamento dovuto

alla radioattività degli elementi presenti nel suo

interno, considerato insufficiente a generare gli

effetti osservati.

Una serie di considerazioni sulle caratteristiche

chimico-fisiche di Plutone ha portato gli autori

ipotizzare un sottile strato di gas idrati, che

agisce da isolante termico, impedendo all'oceano

di ghiacciare completamente e mantenendo

fredda la coltre ghiacciata superficiale.

Il gas intrappolato nel ghiaccio è con tutta

probabilità metano.

L'idea alternativa, basata sulla presenza di azoto

allo stato gassoso, un gas volatile che avrebbe

presto raggiunto l'atmosfera di Plutone, è stata

scartata.

Questo metano probabilmente era già presente

nel materiale cometario che ha contribuito a

formare il pianeta nano, oppure è frutto delle

reazioni chimiche che avvengono nel suo

nucleo roccioso.

Ma è plausibile anche la presenza di metano

delle due diverse origini.

Secondo gli autori, l'ipotesi di uno strato

sottosuperficiale isolante di gas idrati potrebbe

essere valida anche per altri corpi della fascia

di Kuiper, l'ampia zona del sistema solare che

si estende oltre l'orbita di Nettuno e che

comprende anche Plutone. (red)

 
 
 

Microrganismi straordinari visti da vicino

Post n°2224 pubblicato il 07 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze
  •  Aspergillus fumigatus -     Pur essendo occasionalmente dannoso per l'uomo, produce idrofobine, piccole proteine che formano un rivestimento idrorepellente applicabile in nano e biotecnologie. Lo foto mostra la sua presenza in un campione di aria. (Credits: Institut Pasteur, Paris, France)

1Aspergillus fumigatus -

Pur essendo occasionalmente dannoso per l'uomo, produce

idrofobine, piccole proteine che formano un rivestimento i

drorepellente applicabile in nano e biotecnologie.

Lo foto mostra la sua presenza in un campione di aria.

(Credits: Institut Pasteur, Paris, France)

Virus, batteri, lieviti, funghi filamentosi, microalghe.

I microrganismi in genere sono associati all'idea di un

problema di salute, ma solo una minoranza ne è responsabile,

mentre gli altri hanno ruoli importanti nell'ambiente,

nell'evoluzione di altri organismi e sono indispensabili alla

sopravvivenza nostra e del resto del mondo.

Basti pensare che un essere umano ospita più microrganismi

delle stelle della Via Lattea e che il nostro microbioma occupa

da 2 a 4 chilogrammi di peso e svolge ruoli di protezione

e buon funzionamento del corpo.

Anche per questo è bello vederli, finalmente, da vicino,

grazie a una mostra fotografica che raccoglie 44 immagini

scattate nei laboratori di tutta Europa e allestita in piazza

Vittorio Veneto, a Torino, fino al 16 giugno.

L'esposizione è organizzata nell'ambito del progetto

Microrganismi in Mostra in concomitanza con il XXXVIII

Annual Meeting of the European Culture Collections'

Organization (ECCO2019) organizzato dal Dipartimento di

scienze della vita e biologia dei sistemi (DBIOS) e dalla

Mycotheca Universitatis Taurinensis (MUT) dell'Università

degli Studi di Torino, in collaborazione con Fondazione CRT

ed European Culture Collections' Organization (ECCO),

e sostenuta dalla Regione Piemonte.

 
 
 

La presenza di acqua liquida su Marte.

Post n°2223 pubblicato il 07 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

Una camera magmatica per l'acqua liquida su Marte (Credit: NASA)  

L'acqua allo stato liquido che dovrebbe

trovarsi sotto il Polo Sud marziano potrebbe

provenire dallo scioglimento di ghiaccio

alimentato da una fonte di calore al di sotto

della superficie, come per esempio una camera

magmatica.

Lo ha dimostrato un nuovo modello geologico

del Pianeta Rosso(red)

planetologia

Al Polo Sud di Marte, sotto una calotta di

ghiaccio spessa un chilometro e mezzo, c'è

acqua allo stato liquido.

Questa era l'ipotesi formulata l'anno scorso

in uno studio pubblicato su "Science" da un

gruppo di ricerca tutto italiano, sulla base

dei dati di riflessione radar ottenuti dalla

sonda Mars Express dell'Agenzia spaziale

europea (ESA).

Nessuno però aveva mai analizzato le condizioni

fisiche e geologiche in grado di determinare la

fusione del ghiaccio alla base della coltre.

Una camera magmatica per l'acqua liquida su Marte

Il Polo Sud di Marte. (Credit: NASA) Una nuova

ricerca pubblicata sulle "Geophysical Research

Letters" a firma di Michael Sori e Ali Bramson,

entrambi dell'Università dell'Arizona a Tucson,

aggiunge un elemento importante alla comprensione

di questa formazione idrogeologica, senza

tuttavia esprimersi sulla sua effettiva esistenza.

I due scienziati hanno stabilito che l'eventuale

presenza di acqua liquida deve essere

necessariamente legata a una fonte di calore

sotterranea.

L'ipotesi più probabile è la formazione di una

camera magmatica negli ultimi 100.000 anni.

Il problema fondamentale è che Marte è molto

più freddo della Terra, quindi non è evidente a

priori quale tipo di ambiente sarebbe necessario

per sciogliere il ghiaccio alla base della calotta

glaciale.

Gli autori hanno elaborato un modello del Pianeta

Rosso per stimare la quantità di calore che

potrebbe uscire dal suo interno e la quantità di

sali necessaria alla base della calotta glaciale

per rendere possibile la sua fusione.

Il modello mostra che il sale da solo non

potrebbe abbassare il punto di fusione del

ghiaccio in misura sufficiente a creare così

tanta acqua liquida.

Deve perciò esistere una fonte di calore

consistente all'interno del pianeta.

E una fonte plausibile potrebbe essere

l'attività vulcanica.

La conseguenza di questa attività è

l'emersione del magma dalle profondità

di Marte, avvenuta circa 300.000 anni fa.

Il magma non eruttò in superficie ma

formò una camera magmatica al di sotto di essa.

Nel corso dei millenni, questo magma si

raffreddò, cedendo il suo enorme calore alla

calotta di ghiaccio polare e fondendone in

parte gli strati più profondi.

E secondo il modello, il processo è attivo

ancora oggi: sarebbe questa la fonte di calore

responsabile della presenza di acqua liquida.

Questa conclusione corrobora il modello di

Marte come pianeta attivo dal punto di vista

geologico, contribuendo a una migliore

comprensione della sua evoluzione, una

comprensione preziosa anche nella prospettiva

di una futura colonizzazione umana del Pianeta

Rosso.

E considerando la presenza di acqua allo stato

liquido, il pensiero va subito anche alla possibilità

di forme di vita extraterrestre.

Se in effetti su Marte è presente qualche forma

di vita, allora probabilmente è confinata nel

sottosuolo per essere protetta dalle radiazioni,

secondo Bramson.

"Se sono ancora attivi oggi, allora significa che

nel recente passato questi processi magmatici

erano più comuni e potevano fornire una fusione

più diffusa del ghiaccio alla base della calotta,

e garantire così un ambiente più favorevole per

la presenza duratura di acqua liquida e quindi,

forse, di vita", ha concluso Bramson.

 
 
 

Che cosa farà Beresheet sulla Luna?

Post n°2222 pubblicato il 07 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

L'obiettivo principale della breve missione

scientifica del lander israeliano Beresheet è

studiare i campi magnetici delle rocce lunaridi

Elizabeth Gibney / Nature

Beresheet è un veicolo leggero - 180 chilogrammi

senza carburante - lanciato da un razzo SpaceX Falcon 9.

Staccatosi dal razzo 30 minuti dopo il decollo è

entrato nell'orbita terrestre.

Poi, nei prossimi due mesi, il lander userà li

propulsori per spostarsi su orbite sempre più

ellittiche fino a essere abbastanza vicino alla

Luna da venire catturato dalla gravità lunare.

E qui arriverà la parte difficile: controllare una

navicella spaziale lontana e sottoposta a un

complesso campo gravitazionale, e far sì che

il lander atterri in  modo dolce e arrivi a

destinazione intatto.

Che cosa farà Beresheet sulla Luna?Interpretazione artistica della sonda sul

suolo lunare (Wikipedia/Creative Commons)

L'obiettivo principale della missione scientifica

di Beresheet, che durerà appena due giorni,

è studiare i campi magnetici delle rocce lunari

su cui transiterà prima dell'atterraggio e

misurare il magnetismo dalla superficie, dice

Oded Aharonson, planetologo al Weizmann

Institute of Science a Rehovot, in Israele, che

guida la collaborazione internazionale per la

missione scientifica.

Gli scienziati confronteranno i dati sui campi

magnetici delle rocce con la loro età, suggerita

dalla loro geologia, nel tentativo di svelare se

un tempo la Luna ha avuto un nucleo metallico

liquido che avrebbe potuto magnetizzare le rocce.

Beresheet invierà anche immagini e video,

ma è improbabile che si realizzi un precedente

progetto di spostamento in una nuova posizione,

come avrebbe dovuto fare per vincere l'ormai

"defunto" Google Lunar XPRIZE.

 
 
 

Scoperta in Pakistan la sepoltura degli antichi indoeuropei

Post n°2221 pubblicato il 07 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

Scoperta in Pakistan la sepoltura degli antichi indoeuropeiUdegram, media valle dello Swat (Pakistan). Vista generale dell'area della necropoli protostorica.   

Scoperta in Pakistan la

sepoltura degli antichi

indoeuropei

Stoffe, canestri e vasi di legno: sono questi gli arredi

scoperti per la prima volta in una tomba degli antichi

indoeuropei da una spedizione di archeologi italiani

guidati da Massimo Vidale, del dipartimento Beni

Culturali dell'Università di Padova, e Roberto Micheli,

archeologo della Soprintendenza Archeologia del Friuli

Venezia Giulia.


Secondo quanto riferito sulla rivista "Antiquity", la tomba,

che si trova nella valle dello Swat, nel nord del Pakistan,

vicino al confine con l'Afghanistan, risale a un periodo

compreso tra il 1400 e il 900 a.C., un'epoca culturalmente

importante per la diffusione delle lingue indo-arie dall'Asia

centrale verso il subcontinente indopakistano.

Nello scavo sono stati ritrovati anche i resti di recinti e

sarcofagi fatti di pali e travi di legno, che confermano

l'antica presenza nella valle di cimiteri monumentali coperti

da costruzioni lignee descritte dagli storici che seguivano

l'impresa di Alessandro Magno.

In questa galleria sono raccolte alcune immagini significative

della missione di Vidale e Micheli.(red)

 
 
 

Scoperto uno scrigno di pianeti sconosciuti nascosti nella polvere

Post n°2220 pubblicato il 07 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

06 dicembre 2018

Scoperto uno scrigno di pianeti sconosciuti nascosti nella polvere

Scoperto uno scrigno di pianeti sconosciuti nascosti nella polvere

Comunicato stampa -

Lo studio di un gruppo internazionale, di cui fanno

parte astronomi italiani di INAF e Università Statale

di Milano, ha riconosciuto, osservando affascinanti

strutture ad anello intorno a giovani stelle, pianeti in

via di sviluppo.

I risultati, pubblicati sull'Astrophysical Journal, segnano

un passo fondamentale per la comprensione delle fasi

chiave della formazione planetariadi INAF/Università

Statale di Milano

astrofisicaplanetologia

Roma, 6 dicembre 2018 - Osservando un campione di

giovani stelle in una regione di formazione stellare nella

ostellazione del Toro, un gruppo internazionale di astronomi

ha scoperto che molte di esse sono circondate da strutture

interpretabili come tracce create da pianeti giovani e in via

di sviluppo, alcuni dei quali potrebbero raggiungere la

dimensione di Nettuno o delle super Terre (pianeti fino a

20 masse terrestri).

Allo studio, pubblicato oggi sull'Astrophysical

Journal e la cui autrice principale è Feng Long dell'Università

di Pechino, hanno collaborato per l'Italia le ricercatrici

dell'Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) Brunella Nisini

ed Elisabetta Rigliaco e i professori di Università Statale di

Milano e associati INAF Giuseppe Lodato ed Enrico Ragusa.
 
4,6 miliardi di anni fa, il nostro Sistema solare era un turbinio

di gas e polvere che ruotava intorno al nostro sole appena nato.

Nelle fasi iniziali, questo cosiddetto disco protoplanetario non

aveva caratteristiche specifiche, ma presto parti di esso

iniziarono a fondersi in gruppi di materia - i futuri pianeti.

Con passare del tempo, il disco polveroso lasciò il posto alla

disposizione relativamente ordinata che noi conosciamo oggi,

composta da pianeti, lune, asteroidi.

Questo scenario di formazione del nostro Sistema solare è stato

ricostruito dagli scienziati in base alle osservazioni di dischi

protoplanetari attorno ad altre stelle, abbastanza giovani da essere

in questo momento nel processo di formazione planetaria.
 
Utilizzando l'Atacama Large Millimeter Array (ALMA),

composto da 45 antenne radio e situato nel deserto di Atacama,

in Cile, il gruppo di ricercatori autori del nuovo studio ha

eseguito un'analisi di giovani stelle nella regione di formazione

stellare del Toro, una vasta nube di gas e polveri situata a 450

anni luce da Terra.

Osservando l'emissione della polvere di 32 stellecircondate da

dischi protoplanetari, i ricercatori hanno scoperto che ben 12

di loro mostrano anelli e divisioni, strutture che hanno

interpretato come tracce dalla presenza di pianeti nascenti.
 
Mentre alcuni dischi protoplanetari appaiono uniformi, come

dei "blob" privi di strutture interne, in altri casi erano già stati

osservati anelli luminosi concentrici separati da divisioni, ma

poiché gli studi precedenti si erano concentrati sulle stelle

giovani più brillanti (le più facili da osservare) non era ancora

chiaro quanto questi dischi con strutture ad anelli fossero

davvero comuni nell'Universo.

I risultati di questa ricerca sono quindi i primi ad essere

statisticamente significativi proprio perché i dischi oggetto

delle osservazioni sono stati selezionati indipendentemente

dalle loro proprietà.
 
Studiando le caratteristiche degli anelli e delle divisioni

osservate con ALMA alla ricerca di possibili spiegazioni

alternative, gli scienziati hanno inoltre potuto escludere che

tali strutture potessero essere il risultato di effetti dipendenti

dalle proprietà stellari (come ad esempio le cosiddette "ice lines"),

confermando quindi la presenza di pianeti appena nati quale

origine più probabile di queste affascinanti formazioni.

I calcoli effettuati per avere un'idea della tipologia di pianeti

che potrebbero formarsi nella regione di formazione stellare

del Toro hanno dimostrato che la gran parte degli anelli

sembrano causati da pianeti gassosi delle dimensioni di

Nettuno o delle cosiddette super-Terre. Solo due dei dischi

osservati potrebbero potenzialmente ospitare pianeti giganti

come Giove, il più grande pianeta del Sistema solare.
 
Elisabetta Rigliaco, ricercatrice dell'INAF di Padova con

una borsa Marie Sk?odowska-Curie tramite il programma

AstroFIt2, spiega: "In dischi protoplanetari strutture come

anelli e cavità (spazi vuoti) sono molto comuni, e le strutture

osservate in questi dischi nel Toro sono dovute alla presenza

di pianeti di piccola massa, come super-Terre o nettuniani, c

he operando insieme ad altri processi producono queste

affascinanti strutture".
 
Giuseppe Lodato, professore di Astronomia e Astrofisica

all'Università Statale di Milano e associato INAF, aggiunge:

"L'osservazione della morfologia dei dischi potrebbe affermarsi

come una nuova metodologia per rilevare la presenza di pianeti

attorno a stelle giovani, complementare agli studi sui pianeti

extrasolari che in genere si concentrano su stelle adulte,

dell'età del Sole", "Inoltre - conclude Lodato - questo metodo

permette di osservare pianeti altrimenti non rilevabili, in quanto

troppo poco massicci e troppo lontani dalla loro stella".
 
Nel futuro, il gruppo di ricerca intende modificare la ù

collocazione delle antenne di ALMA per ottenere una

maggiore risoluzione e osservare strutture su scale dell'ordine

della distanza Terra-Sole, rendendo le antenne sensibili a

grani di polvere più grandi.
 
I ricercatori e gli associati INAF hanno utilizzato per questa

ricerca il finanziamento del progetto PRIN-INAF 2016 The

Cradle of Life - GENESIS-SKA (General Conditions in Early

Planetary Systems for the rise of life with SKA).
 
L'articolo "Gaps and Rings in an ALMA Survey of Disks in

the Taurus Star-forming Region", di Long et al., è stato pubblicato

su Astrophysical Journal https://arxiv.org/abs/1810.06044

 
 
 

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