Creato da mcalise il 13/05/2013

Civis

Discussione sulla democrazia, cittadinanza e partecipazione

 

 

Non vogliamo essere il paese di Cetto La Qualunque

Post n°73 pubblicato il 30 Marzo 2015 da mcalise
 

Mi provoca un sorriso amaro vedere il bravo attore e comico Antonio Albanese nelle vesti di Cetto La Qualunque, immagine tragicomica in bilico fra l’interpretazione di una realtà marginale e la profezia di un futuro prossimo. La paura che la realtà superi lo spettacolo è forte.

Un recente episodio che mi sembra emblematico. Alcuni giorni orsono, a Sapri,  il sindaco decaduto di Agropoli Franco Alfieri, ha aperto la campagna elettorale per la sua candidatura al Consiglio regionale della Campania e a sostegno del capolista PD, Vincenzo De Luca. Intervistato, a margine della riunione, sul problema che si porrebbe in caso di vittoria di De Luca che, per la legge Severino, risulterebbe decaduto appena insediato, ha risposto: “C’è una investitura forte di oltre 170.000 cittadini campani che non hanno voluto considerare la condanna per abuso d’ufficio”. (Notare che il sito del PD Campania attribuisce a De Luca 77.289 voti.) E continua: “l’investitura popolare resiste anche questi cavilli o pseudo cavilli giudiziari di norme che non hanno alcuna motivazione e alcun senso di civiltà”.

I problemi giudiziari di De Luca sono noti, ai suoi ulteriori problemi con la legge Severino abbiamo accennato. Occorre ricordare che Alfieri, per candidarsi alle elezioni regionali nelle liste del Pd senza dimettersi da sindaco e senza provocare il commissariamento del Comune, ricorre ad una “furbata”. Lascia l’auto in sosta vietata; il vigile gli fa la multa. Lui si rifiuta di pagarla, impugnandola davanti all’amministrazione comunale, cioè a se stesso; l’amministratore che apre un contenzioso con il proprio ente decade dall’incarico e viene sostituito dal suo vice.

È chiaro che De Luca e Alfieri non hanno la lotta per l’affermazione della legalità in cima ai loro pensieri; tale comportamento ha numerosi precedenti e mi sollecita due considerazioni.

La prima. Ritorna l’idea che il consenso popolare consenta di auto-esimersi dal rispetto della legge, di ritagliarsi una legislazione “à la carte”. Ma le leggi possono essere criticate, modificate o abolite ma, finché sono in  vigore, vanno rispettate. Normale buon senso: la legge non può seguire ragioni di opportunità e di compatibilità politica. Rispetto del principio di uguaglianza: immaginate un semplice cittadino, che chiamato a rispondere per un’infrazione, anziché difendersi discute sulla bontà della norma?

La seconda. La convinzione che una “furbata”, peraltro pubblicizzata come tale, paghi più di una condotta esemplare in termini di consenso. Chi ricopre cariche pubbliche dovrebbe sentire la responsabilità del “buon esempio”. L’etica della responsabilità imporrebbe di tener sempre presenti le conseguenze del nostro agire; non sono sufficienti le buone intenzioni (ci fossero!) ma contano gli effetti provocati dal nostro comportamento. Non credo che il sindaco faccia i complimenti ai furbi che evadono i tributi comunali.

Allora si spiega perché il Rapporto 2014 della Demos “Gli italiani e lo Stato” rileva che gli italiani che hanno fiducia nelle istituzioni politiche sono solo il 29% e solo il 3% ha fiducia nei partiti. Indicatori che ogni anno peggiorano.

Molti politici ignorano che sono eletti e governano in virtù, e nei limiti, posti dalla legge. In primis da un articolo molto trascurato: l’articolo 54 della Costituzione che recita:

“Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge.

Enunciato chiaro sull’obbligo di osservare le leggi ma generico quando parla di disciplina ed onore; concetti che si possono interpretare in modo elastico o, addirittura, ignorarli. Come Cetto La Qualunque, appunto.

 
 
 

La spirale perversa: la qualità della politica e qualità della cittadinanza

Post n°72 pubblicato il 29 Marzo 2015 da mcalise
 

Siamo tutti preoccupati per la crisi economica, la disoccupazione conseguente, il malcostume, la corruzione dilagante e per le riforme istituzionali promesse. Argomenti fondamentali che, tuttavia, non devono nasconderci un problema di fondo: la qualità della politica espressa dai nostri governanti. A tal proposito la lettura del Rapporto 2014 della Demos “Gli italiani e lo Stato” dovrebbe indurre tutti noi a fermarci, letteralmente. Fermarsi, riflettere e auspicabilmente, discutere del futuro che ci attende.

Il Rapporto illustra il clima di generale sfiducia degli italiani verso la politica e le istituzioni, tutti gli indicatori utilizzati segnalano un peggioramento rispetto agli anni precedenti.

Alcuni dati: solo 3 italiani su cento intervistati hanno fiducia nei partiti, l’indice di fiducia nelle istituzioni politiche si attesta al 21%, solo il 66% degli intervistati ritiene la democrazia preferibile a qualsiasi altra forma di governo e, infine, il 50% degli intervistati crede che la democrazia possa funzionare senza i partiti.

Ora, come è noto, siamo in un regime di democrazia rappresentativa in cui i cittadini delegano a rappresentarli “i migliori”. Quest’ultimi dovrebbero formulare e realizzare programmi di governo che perseguano l’interesse generale, ossia che siano sintesi delle domande che i cittadini hanno liberamente formulato. I partiti assolvono al ruolo fondamentale di associare i cittadini al fine di concorrere democraticamente a determinare la politica nazionale, come previsto dall’articolo 49 della Costituzione.

Il contrasto fra questa formulazione, incontrovertibile nella sua semplicità, e gli indicatori  su esposti (e la realtà) è evidente. Una così marcata sfiducia negli eletti, in coloro che noi stessi abbiamo scelto è paradossale; penso, ad esempio, che un amministratore di condominio oggetto di tanta sfiducia sarebbe destituito in poche ore.

Constatiamo, purtroppo, l’esistenza di un circolo vizioso: la qualità della politica è proporzionale alla qualità della cittadinanza e viceversa; una spirale perversa che richiama, infine, la qualità della nostra democrazia. Problema tanto concreto quanto trascurato. Se pensiamo, come credo, che la democrazia sia un pilastro, un presupposto allo sviluppo ed al benessere della nostra collettività, la mobilitazione dovrebbe scattare spontanea. Bobbio, non a caso, indicava l’educazione alla cittadinanza fra le sei promesse non mantenute dalla democrazia (Norberto Bobbio “Il futuro della democrazia” ed. Einaudi). E sempre Bobbio ci metteva in guardia dal considerare la democrazia acquisita per sempre, scontata: “Abbiamo la convinzione profonda che una democrazia può essere uccisa dalla violenze esterna, ma muore anche per interna consunzione”;

Ora chi potrà mai spezzare questa spirale? Non il ceto politico che, in gran parte, preferisce il cittadino non attivo. Siamo governati da oligarchie essenzialmente tese a garantire la propria continuità ed a tutelare i propri interessi. I tentativi, non sempre riusciti, di perseguire l’interesse generale, sono tesi al mantenimento del consenso. Il fine, svilito, diviene il mezzo. Insomma, citando Zagrebelsky, “l’oligarchia come governo dei molti impotenti da parte di pochi potenti”. Allora non rimane che puntare sull’associazionismo civico e contare sulla “complicità” dei mezzi d’informazione più sensibili al problema. Occorre rigenerare la cultura civica sottolineando che la sfiducia nella politica, pure se fortemente motivata, non può essere l’alibi per l’apatia e lo sterile vittimismo. Il problema, evidentemente, non si risolve con atteggiamenti diffusi riassumibili in “Basta politica! Basta partiti”. Occorre che i politici e i partiti abbiano l’interesse comune come scopo esclusivo e ciò sarà possibile solo e se un gran numero di cittadini torneranno ad occuparsi della politica.

Una democrazia rivitalizzata da una cittadinanza partecipe che metta “il fiato sul collo” agli eletti non potrà che migliorare la qualità della politica e spezzare la spirale perversa. Ciò è un presupposto essenziale per lo sviluppo, per un benessere non effimero. 

 
 
 

Quanti Lupi ci sono tra noi?

Post n°71 pubblicato il 20 Marzo 2015 da mcalise
 

Il Ministro delle Infrastrutture Lupi si è dimesso. La vicenda che lo ha costretto alla decisione è l’inchiesta della Procura di Firenze per la gestione illecita degli appalti delle cosiddette Grandi opere ha portato agli arresti di Ercole Incalza, storico manager del Ministero, dell’imprenditore Stefano Perotti, del presidente di Centostazioni spa (Gruppo Fs) Francesco Cavallo e di Sandro Pacella, collaboratore di Incalza. Gli indagati sono 51. A margine di questa inchiesta emerge uno scambio di regali e favori fra alcuni indagati ed il ministro Lupi. Quest’ultimo ha chiesto e ha ottenuto incarichi di lavoro per il figlio Luca. Maurizio Lupi non risulta indagato ma la vicenda ha assunto una tale rilevanza politica da costringerlo alle dimissioni.

Una ennesima vicenda di corruzione e malaffare che ci costringe a (ri)interrogarci sul perché l’Italia è prima per corruzione percepita tra i paesi dell’Ue come risulta dall’ultima classifica del Corruption Perception Index 2014 di Transparency International. È un male che riguarda solo il ceto politico-imprenditoriale? È dovuto solo alla carenza della nostra legislazione?

Proviamo ad analizzare l’evento accantonando gli aspetti giudiziari e politici  concentrandoci su quelli di costume.

Il Dr. Lupi, stimato professionista, uomo, come si usa dire, tutto lavoro, casa e Chiesa, ha un figlio, bravo ragazzo, che si è laureato. Il buon padre di famiglia, i tempi sono duri, che fa? Si mette in moto e contatta amici e conoscenti per trovare una collocazione lavorativa al figlio.

Un amico che può lo aiuta e colloca il figlio; a buon rendere!

Siamo sicuri che nel comportamento del Dr. Lupi non riconosciamo un nostro parente o un conoscente o, addirittura, noi stessi?

Scriveva Roberto Saviano nel 2008: “Che un simile “do ut des” sia di fatto corruzione è un concetto che moltissimi accoglierebbero con autentico stupore e indignazione. Ma come, protesterebbero, noi non abbiamo fatto niente di male!

Si alla radice del male c’è un familismo che pone la parentela, la famiglia al di sopra di tutto e una morale “variabile” che come un organetto diventa piccola quando si avvicina alla nostra persona e ai nostri cari , invece, si dilata fino a divenire indignazione se la distanza aumenta.

Qualcuno dirà che non è paragonabile il comportamento di un politico, di un Ministro a quello di un cittadino, di un funzionario qualsiasi. Certamente il malcostume di un Ministro comporta per la collettività un danno maggiore di quello un semplice cittadino ma i comportamenti eticamente si equivalgono. La misura del danno o del vantaggio è un aspetto quantitativo che non incide sul valore o disvalore etico dell’atto.

Insomma la corruzione andrà certamente combattuta con una legislazione più efficace, con un diverso impegno della magistratura e delle forze dell’ordine ma alla radice c’è un fenomeno di costume diffuso che non va taciuto. Anzi dobbiamo, non solo parlarne, ma fare pressione come cittadini e come elettori affinché le cose cambino; dobbiamo pretendere di più dai politici ma anche da noi stessi.

 
 
 

Oblomov è vivo e abita qui.

Post n°70 pubblicato il 16 Marzo 2015 da mcalise
 

Scrivo dal Basso Cilento, territorio in cui all’evidente generosità della Natura non corrisponde una capacità d’iniziativa dei suoi abitanti, che non sembrano in grado di produrre quel benessere necessario ad una vita piena e dignitosa che non imponga l’emigrazione di tanti giovani.

Qui, infatti, gli abitanti sono affetti da oblomovismo, l’apatica e fatalistica indolenza di cui soffre Oblomov, il protagonista dell’omonimo romanzo di Ivan A. Goncarov. Si tratta di un modus vivendi che prevede un’unica volontà: tener lontano dalla propria esistenza prestabilita ed uguale ogni turbamento o novità che richieda attività, non soltanto materiale ma spirituale.

A chi prova a sollecitarli sembrano dire, e qualcuno effettivamente dice: “Voi cercate di spronare i cittadini, ma noi stiamo bene come stiamo, ci accontentiamo di quel che facciamo, ci piace il bar, il lungomare, il mare e il sole... “. Insomma non rovinate la nostra immutabile “bella giornata”, non richiamateci alle nostre responsabilità.

Tale atteggiamento è riscontrabile soprattutto fra i pigri fruitori di fortune ereditate, fra gli stanchi dipendenti pubblici e i pensionati a vario titolo. Una sorta di rassegnato fatalismo che contraddistingue anche coloro che, più sfortunati, conducono un’esistenza stentata: confidano che uno Stolz, l’intraprendente amico di Oblomov, venga a risolvere i loro problemi. Ma qui di Stolz, non ce ne sono; ci sono i notabili, i politici locali, che su questo immobilismo basano il loro consenso.

Sorprendentemente, questa diffusa ineluttabilità irretisce anche i giovani, i quali sembrano nati rassegnati. Crescono in un ambiente ristretto, anche numericamente, senza opportunità e senza esempi alternativi, in un contesto a cui si adeguano per poi, in molti casi, emigrare. A quel punto del loro paese ricorderanno, oltre agli affetti, solo il sole, il mare, il calore della gente, ecc., cartoline stereotipate che la nostalgia usa come camomilla per lo spirito.

Già Gaetano Salvemini nei suoi “Scritti sulla Questione Meridionale, 1896-1955” scriveva: “… andate un pomeriggio d’estate in uno di quei circoli di civili, in cui si raccoglie il fior fiore della poltroneria paesana; ascoltate per qualche ora conversare quella gente corpulenta, dagli occhi spenti, dalla voce fessa,  mezzo sbracata, grossolana e volgare nelle parole e negli atti, badate alle scempiaggini, ai non sensi, alle irrealtà di cui sono infarciti i discorsi …”

Era il secolo scorso ma la sostanza non è cambiata: una modernità esteriore, tutta in superficie, ha migliorato l’aspetto, ma per il resto ... .

Nella conservazione di questo status quo ha un ruolo decisivo la famiglia, ristretta o allargata che sia. Il familismo amorale di Edward C. Banfield opera tuttora e il fenomeno della raccomandazione ne è una delle principali manifestazioni. Per raccomandare occorre che il buon padre di famiglia dimostri fedeltà al patrono prescelto e tale consuetudine rimane oggigiorno, nonostante la crisi abbia accresciuto la difficoltà dei patroni di distribuire favori. Alla speranza del beneficio, divenuta abitudine, si adeguano i membri del nucleo familiare, omogeneizzando comportamenti sociali, politici ed elettorali.

Nemmeno i dati impietosi delle statistiche, anche quelle demografiche sono divenute sfavorevoli,  spingono ad un cambio di passo verso una necessaria discontinuità. Al contrario, una straordinaria capacità di conoscere i fatti e far finta di non saperli ha il sopravvento. La lagna è l’attività prevalente: cosa possiamo fare, siamo sfortunati, non è colpa nostra.

Fermi a osservare il proprio cortile non guardano neppure i segnali e gli esempi che provengono da “fuori”. Segnali ed esempi che andrebbero valutati criticamente e meglio potrebbe essere fatto da chi è abituato a confrontarsi e a discutere i problemi locali alla luce di ciò che avviene nel Mediterraneo, in Europa e nel Mondo.

Quali iniziative, quali sfide, quali progetti possono prodursi in un simile contesto?

Qualcuno potrà obiettare che quanto affermo non è sempre valido. È vero, ci sono tanti sud: c’è un sud dal vitalismo arcaico modernamente rappresentato dalla Campania disperata e feroce di Saviano e un altro, troppo tranquillo, tratteggiato, sembra ieri, da Salvemini. Quest’ultimo è poco visibile ma rappresenta una sacca, per non dire un peso, che non va trascurata. Non si può consentire che ampie parti del Mezzogiorno siano in mano alla criminalità organizzata, ma neppure che parti di esso siano pervase dall’oblomovismo.

È necessario, quindi, che qui il nostalgico amore per la propria terra si trasformi in attivo senso civico che sembra venir meno anche in altre parti d’Italia. I ritardi del Meridione, però, ci imporrebbero uno sforzo di recupero, un’accelerazione, una discontinuità.

Purtroppo la classe politica meridionale non riesce ad esprimere una visione che dia speranza. Insomma un progetto credibile e condiviso per il Mezzogiorno entro il quale, con coerenza, inserire iniziative che affrontino i problemi contingenti.

All’orizzonte si preannuncia una ripresa economica stimolata da alcuni fattori esogeni: la diminuzione del prezzo del petrolio, l’euro debole, il quantitative easing della Bce, il calo dei tassi d'intesse. I benefici attesi come si distribuiranno sul territorio nazionale? Contribuiranno alla riduzione del divario nord-sud? Sapremo cogliere al meglio l’opportunità? Interrogativi che, per ora, lasciamo agli economisti e alla responsabilità dei politici.

Qui sottolineamo il ruolo che devono avere i cittadini nel creare le condizioni affinchè i possibili benefici della ripresa trovino al sud terreno fertile che li attiri e trattenga. Quindi occorre contrastare la cultura malavitosa dove opera la criminalità organizzata; in tal senso esistono esempi positivi da parte di cittadini singoli o associati. E, nelle zone dove vige, combattere una malattia insidiosa, poco visibile, paralizzante: l’oblomovismo.

 
 
 

Saviano e le primarie PD. Professor Mauro Calise non sono d’accordo …

Post n°69 pubblicato il 08 Marzo 2015 da mcalise
 

Egregio Professor Calise abbiamo lo stesso cognome ma credo che non siamo parenti; altrimenti avremmo potuto discutere a vivavoce l’esortazione di Saviano a non votare alle primarie del PD. Lei, a voto ampiamente concluso, ha criticato lo scrittore in un’intervista al Corriere del Mezzogiorno del 3-3-2015 titolata “Il vero sconfitto è Saviano Qui la rottamazione non serve” curata da Angelo Agrippa. Prima dell’invito di Saviano e prima che le primarie si svolgessero ho scritto un articolo “La giostra delle primarie continua” che si concludeva con “E la posizione di coloro che, pur di area progressista, vorranno disertarle [le primarie] sembra comprensibile.”. Sono d’accordo con Saviano, a cui non occorre la mia difesa, per ribadire le mie idee. Alla domanda “chi è il vero sconfitto di queste primarie del centrosinistra?” Lei risponde: “Certamente Roberto Saviano che aveva esortato alla diserzione: non è consentito a nessuno, dinanzi ad una prova vera di democrazia come quella registrata domenica in Campania e che ha portato alle urne 160 mila persone, usare un linguaggio così sommario, nel tentativo di scoraggiare il voto. Insomma, non è stata una mossa intelligente e di generosità nei confronti dei tanti che hanno espresso la loro preferenza”. Ora io credo che ad un semplice cittadino, come io sono, è consentito esprimere il suo parere e le sue esortazioni; e ciò vale anche per un personaggio noto come Saviano che ci mette la faccia sapendo che se perde quella… .

Tanto più che non si è trattato di un “linguaggio così sommario”, gli argomenti per dubitare della bontà di siffatte primarie sono numerosi; ne cito solo tre:

  • i ripetuti rinvii delle stesse, certo non motivati dalle condizioni atmosferiche;
  • il mutevole numero dei partecipanti, un dentro/fuori che fa riflettere;
  • l’assenza dei programmi, delle idee per la Campania.

Lei, a posteriori, motiva la sua critica parlando di “prova vera di democrazia[ … ] che ha portato alle urne 160 mila persone”. Non so cosa avrebbe detto se fossero state 60 mila. In ogni caso è una valutazione ben strana. Se il numero dei votanti fosse, di per sé, una prova di qualità saremmo in una democrazia in piena salute e avremmo una classe politica eccellente. Lei sa bene che non è così e, soprattutto, non è così al sud.

Quando l’intervistatore Le pone il problema: “Ma i sospetti di infiltrazioni da parte di consorterie politiche organizzate…” Lei minimizza Ma questi sono sospetti che si diffondono ogni volta che si vota [ …] si tratta di una consultazione non ancora codificata”. Come a dire: occorre una legge affinché tutto si svolga correttamente! Ma l’esperienza suggerisce che nemmeno basta.

Alla domanda “Malgrado le polemiche astiose e le guerre intestine, perché le primarie sono state, secondo lei, comunque un successo?” Lei ritorna sulla grande partecipazione (quantità = qualità) e aggiunge Ma ora il Partito democratico non può che augurarsi di trovare il massimo della coesione”. Insomma come se l’affaire primarie non fosse stato un ulteriore conferma della pochezza della nostra classe politica e del gruppo dirigente campano.

Poi l’intervistatore chiede “Renzi ne esce pure lui sconfitto?” Risposta: “Nel Pd c’è stata sicuramente una riorganizzazione leaderistica al centro. Ma per il resto il consenso territoriale non appartiene a Renzi: è improprio pensare che Roma possa dirigere questi processi.” Qui, Professore, siamo d’accordo: ad una guida leaderistica al centro si contrappone uno scontro tra fazioni in periferia. Arrivo alle conclusioni. Ribadisco che le primarie sono uno strumento democratico che, tuttavia, ha avuto pessima applicazione e non credo, ma l’esperienza lo dimostra, che regolarle per legge risolva il problema. Abbiamo in Italia il problema della qualità della classe politica che è proporzionale alla partecipazione ed al senso civico dei cittadini. Al sud tutto ciò è più grave ed evidente e la rottamazione, ancora una volta d’accordo con il professore, non è la soluzione.

 
 
 

Così avanza la desertificazione del Sud. Sos di Svimez

Post n°68 pubblicato il 07 Marzo 2015 da mcalise
 

Gli indicatori demografici relativi al Sud d’Italia sono preoccupanti. Ce li ricorda il Rapporto Svimez sull'economia del Mezzogiorno 2014 che recita tra l’altro: "Il Sud sarà interessato nei prossimi anni da uno stravolgimento demografico, uno tsunami dalle conseguenze imprevedibili, destinato a perdere 4,2 milioni di abitanti nei prossimi 50 anni, arrivando così a pesare per il 27% sul totale nazionale a fronte dell'attuale 34,3%".

Inoltre l’articolo di Alessandro Rosina “L'implosione demografica del Sud” (Italianieuropei 1/2015) conferma in modo convincente ed argomentato che l’incidenza del numero delle persone anziane sul totale della popolazione italiana, e su quella meridionale in particolare, stia aumentando. L’autore ricorda come agli inizi degli anni novanta la fecondità risultava essere pari a 1,7 figli per donna nel Sud Italia mentre il Nord registrava fecondità inferiore a 1,2 figli. Negli anni successivi vi è stato un declino riproduttivo che ha interessato l’intero territorio nazionale. Tuttavia dal 1995, per la prima volta, gli indicatori della fecondità del Nord e del Sud iniziano a divergere. Nell’Italia settentrionale inizia un recupero, mentre nel Meridione l’andamento rimane negativo. Ciò fino al 2006 quando il nord sorpassa annullando il secolare vantaggio riproduttivo del Sud.

Una delle principali conseguenze della persistente bassa natalità e della mobilità delle nuove generazioni in uscita è quello che è stato definito, con un neologismo, il “degiovanimento”,

ossia la riduzione della quantità di giovani nella popolazione. Gli under 30 erano complessivamente oltre 10 milioni nel 1950, sono scesi attualmente a meno di 7 milioni e si prevede che diminuiranno ancora. Al contrario, la popolazione anziana è in forte aumento.

L’autore conclude “Nascono sempre meno figli, i migliori se ne vanno e quelli che restano si trovano sempre più svantaggiati. Va, inoltre, aggiunto il rischio di povertà infantile, sensibilmente maggiore nel Meridione rispetto al resto del paese.”

Insomma desertificazione più invecchiamento.

Credo, che la realtà sia peggiore di quanto dicano le statistiche; ad esempio molti giovani risultano ancora residenti al Sud pur vivendo altrove una condizione di lavoro precario o di studenti fuori sede.

Chi scrive, modesto commentatore, non ha la pretesa di indicare le soluzioni ma, certo, occorrono politiche attive per il lavoro, per i giovani, per la famiglia. Un cumulo di problemi che grava sull’Italia intera ma pesa maggiormente sul meridione per la sua atavica e nota arretratezza.

Le recenti iniziative governative non aiutano. Il job act, ottimisticamente, potrà sollecitare nuova occupazione dove già c’è. Il bonus di ottanta euro sicuramente è un sollievo per i beneficiari ma i maggior consumi avvantaggeranno produttori che, per la maggior parte, operano altrove.

Al Sud assistiamo, ed è il migliore dei casi, ad una politica locale legata ai campanili incapace di una visione che abbia un ampio respiro spazio-temporale. I tempi nuovi e i problemi vecchi richiederebbero una capacità di “sfida che è assente, occorrerebbe discontinuità.

Le ultime vicende relative alle primarie campane del PD sono un ulteriore conferma della pochezza della classe politica che ci siamo dati, ciò vale per tutti gli schieramenti.

Anche ciò che è fattibile, normativamente previsto ed incentivato, suscita egoistiche diffidenze. Penso al mancato interesse per la Fusione dei Comuni, che nel centro-nord trova ampi consensi. Registro un barlume di speranza: nel Salento sembra vi sia un interesse per l’opportunità offerta dalla Fusione. Stanno partendo con il piede giusto: dal basso; informando, coinvolgendo e sensibilizzando i cittadini.

E in Campania? Nel Cilento, dove vivo, sembra che l’atavica rassegnazione, il fatalismo, il familismo amorale denunciato già da Banfield trovi nuovo alimento e i giovani, mancando esempi positivi, o fuggono o vivono stancamente rassegnati al conformismo e al qualunquismo imperante.

Chi, testardamente, accantona il pessimismo dell’intelligenza a favore dell’ottimismo della volontà sappia che nel vuoto potrà udire solo l’eco della propria voce. Per ora.

 
 
 

Al sud vogliamo più donne sindaco

Post n°67 pubblicato il 06 Marzo 2015 da mcalise
 

Ricorre l'8 marzo la Giornata internazionale della donna, comunemente chiamata “Festa della donna”. In Italia si svolge dal 1922 per ricordare sia le conquiste sociali, politiche ed economiche delle donne, sia le discriminazioni e le violenze cui sono ancora oggetto in molte parti del mondo.

Il secondo rapporto dell'Eures sul femminicidio in Italia riporta dati agghiaccianti. Sono state 179 le donne uccise nel 2013, una vittima ogni due giorni. Nel 2012 erano state 157, sono aumentate del 14%. Aumentano quelli in ambito familiare, così come pure nei contesti di prossimità, rapporti di vicinato, amicizia o lavoro.

Per 10 anni quasi la metà dei femminicidi è avvenuta al Nord, dal 2013 c'è invece stata un'inversione di tendenza sotto il profilo territoriale, divenendo il Sud l'area a più alto rischio.

Il Lazio e la Campania, con 20 donne uccise nel 2013, presentano il più alto numero di femminicidi tra le regioni italiane, seguite da Lombardia (19) e Puglia (15).

Occorre fortemente puntare sulla prevenzione della violenza sulle ragazze e le donne soprattutto combattendo preconcetti e discriminazioni presenti nei preadolescenti.

Ma vorrei permettermi di aggiungere un aspetto, che mi sembra, trascurato.

Penso che uno dei modi per combattere, al tempo stesso, violenza e discriminazione consista nell’accentuare la partecipazione delle donne alla vita pubblica Tale risultato può essere conseguito con un maggior attivismo civico delle donne e ciò prescindendo da ogni intervento legislativo (tipo “quote rosa”).

Mi spiego meglio utilizzando la mia elaborazione dei dati Ancitel del 2014.

In Italia su 8057 sindaci solo 1071 sono donne, circa il 13%. La percentuale diviene 16% al nord, 12% al centro e solo lo 8% al sud. Queste percentuali già denunciano un notevole squilibrio. Ma non basta, se restringiamo lo sguardo vediamo che la Campania solo il 4% dei sindaci sono donne, la percentuale scende ancora nelle province  di Napoli (2%) e di Salerno solo il 4%.

Conclusioni. Le leggi, pure opportune, non bastano. Le donne, soprattutto giovani, devono essere più presenti nei circoli di partito, nelle liste civiche, nelle sedi sindacali. I ruoli di consiglieri comunali, di assessori, di sindaci sono i primi a cui puntare. Occorre impegnarsi maggiormente in politica, all’occorrenza sgomitare. Le donne, nelle cariche pubbliche elettive, sapranno portare uno spirito positivo come già fanno in tanti altri settori, un tempo a loro preclusi, come i corpi di polizia e le forze armate. Al sud, in particolare, occorrono più sindaci donna. Non è una rivendicazione di genere, è una esigenza di tutti.

 
 
 

Le fratture nel PD, se quattro ore vi sembran poche … andate voi ai talk show

Post n°66 pubblicato il 01 Marzo 2015 da mcalise
 

A Roma, il 27 febbraio scorso, si è tenuta la riunione dei gruppi parlamentari del Pd. È emersa una frattura all'interno del partito; la sancisce Pier Luigi Bersani in persona: “Siamo al limite, è ora di fare le cose seriamente. I gruppi li convocano i capogruppo, stabiliscono gli odg e invitano il segretario” e, aggiunge, “Non siamo figuranti di un film”.

Se è apprezzabile che il premier Renzi voglia snellire le procedure e accelerare le riforme, occorre pur chiedersi quanto sia produttivo tanto decisionismo. Penso che un decisionista, quale Renzi è, debba essere valutato, più che per il metodo adottato, per i risultati conseguiti. Fra quest’ultimi ci sarebbe la tenuta del partito di maggioranza, non per il bene di una parte ma nell’interesse di tutti. Per ottenere risultati significativi e duraturi il lavoro di squadra è indispensabile.

È certamente utile evitare incontri snervanti e inconcludenti ma non è vera discussione dedicare al dibattito con decine di partecipanti quattro ore, un‘ora per ciascun argomento. E quali argomenti! Scuola, Rai, ambiente e fisco.

Da cittadini bisogna interrogarsi su due questioni.

La prima. Un approccio così “rapido”, e aggiungo semplificato, porterà forse a sfornare provvedimenti ma quale sarà la loro bontà e la loro efficacia? Non c’è il rischio che per inanellare risultati appaganti in termini di visibilità mediatica si trascuri il merito delle questioni?

La seconda. È utile che il partito di maggioranza sia diviso? Che tutte le energie e le competenze che esso racchiude non siano finalizzate ad affrontare i problemi concreti del Paese? Io credo di no e la tentazione dell’uomo solo al comando mi preoccupa. Sminuire, di fatto, l’immagine del partito a favore del suo leader può rivelarsi un boomerang. È un messaggio negativo per i cittadini già, giustamente, disamorati nei loro confronti. Bisognerebbe ricordare loro che nessun difetto di un sistema democratico basato sui partiti potrà far preferire la degenerazione della vita politica e civile rappresentata dalla loro sostituzione con gruppi di pressione irresponsabili nei confronti della collettività.

Un vero leader deve fare anche questo: pilotare la squadra tenendola compatta. Se si perdono le battaglie o, spero di no, le guerre un vero comandante potrà mai dire, onestamente, che è solo colpa dei gufi? Lui stesso, gli piaccia o no, è il frutto di quella squadra. Speriamo, per il bene di tutti, che l’esperienza porti consiglio sia al premier sia ai suoi oppositori interni.

Concludo con una notizia per i miei conterranei, probabilmente frutto di un malinteso, ma degna di essere segnalata. Sembra che Renzi, terminato l’ incontro, abbia invitato i partecipanti a trattenersi un’altra mezz’ora. Voleva parlare di Mezzogiorno!!!

 
 
 

L'inferno - Italo Calvino

Post n°65 pubblicato il 23 Febbraio 2015 da mcalise
 

« L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio. »

 Italo Calvino, Le città invisibili, 1972

 
 
 

Macroregioni o Fusioni? Inerzia o impegno?

Post n°64 pubblicato il 18 Febbraio 2015 da mcalise
 

Si parla molto di riforme, di sostanziali modifiche ad uno stato di cose per rispondere a esigenze di rinnovamento e di adeguamento ai tempi. Alcune di esse vorrebbero modificare, da un punto di vista istituzionale/amministrativo, l’assetto territoriale dell’Italia; mi riferisco alla Fusione dei Comuni e alle Macroregioni.

Per quanto riguarda quest’ultime sono state avanzate diverse proposte di riforma costituzionale per la loro creazione: nuovi organismi che, accorpando le attuali regioni o parte di esse, le sostituiscano.

Personalmente l’idea delle Macroregioni non mi convince. Mi sembra un tentativo di aggirare i problemi affidandosi all’ingegneria istituzionale.

Ma perché, ad esempio, la “Regione Tirrenica”, ossia la Campania più le province di Latina e Frosinone, dovrebbe rappresentare un passo in avanti?

E il Cilento che oggi si sente, a torto o a ragione poco importa, dimenticato ed emarginato nella Regione Campania, si sentirà più considerato nella Regione Tirrenica?

E, si badi bene, non è un problema di disegno dei confini fatto in un modo anziché in un altro.

Possiamo credere che i problemi posti dalla corruzione, dagli sprechi e dalla mancanza di efficienza diventino micro nelle Macroregioni?

Certo esiste un reale problema dei costi delle istituzioni elettive ma può essere questo il solo criterio di scelta? L’Assemblea regionale, costa a ciascun cittadino della Valle d’Aosta, ben 131,59 euro l’anno, ad un cittadino campano ne costa 8,09 euro. Tale divario si spiega con la ripartizioni dei costi dell’assemblea fra un numero di abitanti notevolmente diverso: è ovvio che il costo dell’Amministratore incide maggiormente sui condomini in un piccolo edificio che su quelli di un palazzone. Tuttavia credo che gli abitanti della Valle d’Aosta considerino anche altri fattori. Infatti possono essere soddisfatti dei motivi per cui il loro capoluogo è in cima alla classifica del “Il Sole 24 Ore” per la vivibilità (sesto posto nel 2014) mentre Salerno è solo al novantatreesimo posto!

Le macroregioni, si sostiene, faciliterebbero piani di sviluppo complessivi. Forse, ma i grandi progetti hanno spesso dimensioni internazionali e nessuno, credo, pensa di abolire del tutto le regioni per facilitare lo sviluppo di piani europei.

In realtà trovare una giusta dimensione territoriale per le autonomie locali non è cosa semplice; coinvolge molteplici aspetti di natura diversa: geografici, storici, culturali, economici, … .

Tuttavia noto che la proposta d’istituire macroregioni gode di una popolarità che non sempre ha motivazioni positive. Infatti incide e stimola, al nord come al sud, un sentimento di rivalsa per ingiustizie, vere o presunte, subite dal Governo centrale o da altre aree del paese, risveglia un malinteso senso di identità. Non è un caso che, accanto a iniziative serissime, ve ne siano di pittoresche: “La grande Lucania”, il “Principato d’Arechi”, … . Insomma più che incentivare la cooperazione le Macroregioni sembrano far leva e stimolare un separatismo sterile. Si aggiunga che sarebbero calate dall’alto senza chiamare all’impegno i cittadini, senza che alcun politico locale ci debba metterci tempo e “faccia”. A parole si dedicano anima e corpo al territorio ed al suo futuro; nei fatti guardano a ciò che dia un ritorno immediato, un facile consenso da incassare appena possibile.

La Fusione dei Comuni è, a differenza delle Macroregioni, una realtà prevista dalla legge, finanziata dallo Stato e già attuata nell’Italia centro-settentrionale. Più Comuni limitrofi decidono di fondersi in un unico ente. È una riforma che parte dal basso: sono i cittadini che decidono con un referendum.

I pregi della Fusione rappresentano, paradossalmente, altrettante difficoltà.

Richiede ai cittadini spirito di cooperazione, l’abbandono di vecchi campanilismi, un maggiore e diverso spirito civico.

Richiede ai politici e agli amministratori locali di essere parte attiva, toccherebbe a loro avviare l’iter burocratico.

Insomma la Fusione dei Comuni presuppone un rinnovamento culturale che scoraggia molti ma che, a mio avviso, dà l’esatto valore della posta in gioco. Richiama la necessità di una pressione democratica che tolga alibi ad ogni colpevole inerzia.

In conclusione. È evidente che Macroregioni e Fusione dei Comuni non sono soluzioni alternative ma un impegno serio che richiede una scelta. E io ho scelto di impegnare le mie modeste possibilità per sollecitare la discussione e, perché no, la realizzazione di Fusioni nel Mezzogiorno. Per muoversi in questa direzione non occorrono annunci o iniziative burocratiche/amministrative ma un serio e continuo impegno che guardi al futuro prossimo, e che rimuova il disfattismo e la pigrizia che attanaglia le popolazioni meridionali; che abbandonino finalmente l’inerzia per l’impegno.

 
 
 

Ministero per il Mezzogiorno: ma è davvero utile?

Post n°63 pubblicato il 16 Febbraio 2015 da mcalise
 

Sembra che il Presidente del Consiglio sia intenzionato a creare il Ministero per il Mezzogiorno in sostituzione di quello degli Affari regionali. Occorre porsi la domanda: serve? Forse. Sicuramente dipende dall’autorevolezza e dalla competenza di chi sarà il ministro, da quali saranno le sue prerogative ed i suoi programmi. Ma non basta.

Invece, o almeno prima, di un dicastero credo occorra una politica nazionale che non può prescindere dalla realtà del nostro meridione. Quest’ultimo è guardato da molti come una palla al piede per lo sviluppo dell’intero Paese e a costoro non mancano certo gli argomenti.

Tuttavia sono convinto che il meridione d’Italia, posto al centro di un “mare fra le terre” incrocio di tre continenti, culla delle nostre culture, delle nostre religioni non possa e non debba essere marginalizzato.

Osservo che assistiamo ad una politica internazionale che si muove su un asse orizzontale est-ovest. L’Europa guarda, da un lato, agli Stati Uniti, dall’altro, con la UE, all’est europeo.

Credo che l’Italia debba, in concorso con partner euro-mediterranei, far valere le ragioni politiche, economiche, storiche e culturali di un asse nord-sud. In altre parole sono convinto che, non il futuro del meridione, ma dell’Italia intera richieda lo sviluppo di una politica che guardi contemporaneamente all’Europa, al Mezzogiorno e al Mediterraneo.

La sola e semplice costituzione di un Ministero rischia di burocratizzare e localizzare una questione che è politica e nazionale.

Tale pericolo potrebbe essere scongiurato considerando il Mezzogiorno una risorsa per l’Italia e per l’Europa. Il trait d’union con lAfrica e con il Medio ed Estremo Oriente (attraverso Suez) potrà risultare valido solo se vi sarà un sostanziale rafforzamento del nostro meridione che non deve essere visto come un manufatto proteso nel mare.

Purtroppo, negli ultimi anni, l’Unione Europea ha guardato solo a est e ha trascurato i luoghi d’origine della sua civiltà. Occorre riaprire, in modo nuovo, questioni che in questi anni sono passate in secondo piano: la questione meridionale ma anche il processo di Barcellona (1995).

Le turbolenze che affliggono i paesi che si affacciano sul nostro mare, le guerre, il terrorismo, la povertà, le migrazioni se, da una parte, rendono più difficile trovare soluzioni concrete, durature e condivise, dall’altra, rendono indispensabile una politica attiva che sviluppi in profondità il dialogo con i paesi della sponda sud del Mediterraneo. Lobiettivo difficile ma necessario è di fare del nostro mare una zona di stabilità, di pace e di prosperità.

Una sfida che non compete solo ai territori e alle genti che su di esso direttamente si affacciano.

Se è sicuramente riduttivo affrontare la questione solo dal punto di vista economico e di opportunità di mercato è utile evidenziare questi aspetti, concreti e necessari, per indurre anche gli scettici a guardare con attenzione favorevole la prospettiva euro-mediterranea che passa per il Mezzogiorno ma avvantaggia tutti.

La riproposizione di un Ministero per il Mezzogiorno potrebbe riaprire un dibattito ultimamente trascurato dai più. Ma perché ciò avvenga in modo produttivo occorre, a mio avviso, che prima Parlamento e Governo definiscano la strategia entro la quale il nuovo Ministero dovrebbe muoversi. E quest’ultima non potrà prescindere da una forte intesa con gli altri paesi UE che si affacciano sul Mediterraneo, per sollecitare, dare concretezza ad una politica di sviluppo euro-mediterranea all’interno della quale l’Italia, e il suo sud in particolare, possa avere un ruolo propulsivo.

 
 
 

I tifosi delle primarie in Campania

Post n°62 pubblicato il 08 Febbraio 2015 da mcalise
 

Credo occorra chiedersi se le primarie stiano rispondendo alle aspettative dell’area politica di centro-sinistra i cui partiti hanno avuto il coraggio ed il merito d’introdurle in Italia.

Le polemiche, i ritardi, le manovre, oscure ai più, che hanno avvolto le primarie regionali, anche in Campania, dovrebbero spingere a riflettere su questo modello ideale e sulla scommessa, per ora persa, di coinvolgere maggiormente i cittadini nella scelta dei candidati e democratizzare ulteriormente la selezione della classe politica.

In Campania, le ultime notizie indicano il 22 febbraio come data per le primarie; ora sono cinque i candidati: Migliore si aggiunge ad Andrea Cozzolino e Vincenzo De Luca, al socialista Marco Di Lello e al segretario regionale dell'Idv Nello Di Nardo. La senatrice Pd Angelica Saggese ha ritirato la sua candidatura.

Mi chiedo quali siano le motivazioni degli appelli accorati, passionali di iscritti e simpatizzanti, non solo sui social networks, affinché le primarie abbiano luogo. Un solo esempio.

L’appello degli amministratori e dei militanti del Pd della Campania #sìalleprimarie! sostiene, tra l’altro, che “Svolgere le primarie vuol dire, in altri termini, credere in una Campania che ce la può fare a rialzarsi e a riscattarsi da sola, con le proprie forze, senza burocratismi e degenerazioni correntizie; vuol dire credere in una Campania normale, serena, libera ed autonoma, in grado di guardare al futuro con rinnovato orgoglio ed entusiasmo

Ma veramente c’è qualcuno che assegna capacità taumaturgiche alla celebrazione delle primarie? Come se il match possa nascondere i problemi interni al PD Campano, la mancanza di un programma per la Regione, le fazioni alimentate da adesioni o acritiche o interessate, le situazioni problematiche vissute in molti circoli.

In realtà si tratta di una sfida personalistica dove un ruolo fondamentale avranno le clientele, i fedelissimi, i portaborse. E così diviene sospetta l’invocazione delle primarie; occasione, come le elezioni amministrative e politiche, per le figure di secondo piano di mostrare la loro capacità di raccogliere voti. Le primarie diventano uno strumento di lotta politica approssimativo e semplificatorio.

Sembra mancare non un leader ma un gruppo dirigente autorevole che avrebbe saputo evitare questo spettacolo indecoroso e non solo per i continui rinvii. Si sarebbe assunto, al limite, la responsabilità politica di evitare siffatte primarie scegliendo un candidato unico di coalizione. Così avrebbero fatto, in un sol colpo, il bene del partito e della Campania.

E tutto ciò al netto del problema De Luca che, con i suoi problemi giudiziari, non fa un passo indietro. Affezionato al partito, il politico sembra dire “le PD (a Salerno) c’est moi”.

A questo punto la chiamata alle primarie suona fasulla; buona, appunto, solo per i tifosi. E la posizione di coloro che, pur di area progressista, vorranno disertarle sembra comprensibile.

 
 
 

Macroregioni o fusione dei Comuni? La mia scelta.

Post n°61 pubblicato il 31 Gennaio 2015 da mcalise
 

Si parla molto di riforme, di sostanziali modifiche ad uno stato di cose per rispondere a esigenze di rinnovamento e di adeguamento ai tempi. Alcune di esse vorrebbero modificare, da un punto di vista istituzionale/amministrativo, l’assetto territoriale dell’Italia; mi riferisco alla Fusione dei Comuni e alle Macroregioni.

Per quanto riguarda quest’ultime sono state avanzate diverse proposte di riforma costituzionale per la loro creazione: nuovi organismi che, accorpando le attuali regioni o parte di esse, le sostituiscano.

Personalmente l’idea delle Macroregioni non mi convince. Mi sembra un tentativo di aggirare i problemi affidandosi all’ingegneria istituzionale.

Ma perché, ad esempio, la “Regione Tirrenica”, ossia la Campania più le province di Latina e Frosinone, dovrebbe rappresentare un passo in avanti?

E il Cilento che oggi si sente, a torto o a ragione poco importa, dimenticato ed emarginato nella Regione Campania, si sentirà più considerato nella Regione Tirrenica?

E, si badi bene, non è un problema di disegno dei confini fatto in un modo anziché in un altro.

Possiamo credere che i problemi posti dalla corruzione, dagli sprechi e dalla mancanza di efficienza diventino micro nelle Macroregioni?

Certo esiste un reale problema dei costi delle istituzioni elettive ma può essere questo il solo criterio di scelta? L’Assemblea regionale, costa a ciascun cittadino della Valle d’Aosta, ben 131,59 euro l’anno, ad un cittadino campano ne costa 8,09 euro. Tale divario si spiega con la ripartizioni dei costi dell’assemblea fra un numero di abitanti notevolmente diverso: è ovvio che il costo dell’Amministratore incide maggiormente sui condomini in un piccolo edificio che su quelli di un palazzone. Tuttavia credo che gli abitanti della Valle d’Aosta considerino anche altri fattori. Infatti possono essere soddisfatti dei motivi per cui il loro capoluogo è in cima alla classifica del “Il Sole 24 Ore” per la vivibilità (sesto posto nel 2014) mentre il primo capoluogo campano, Benevento, è solo all’ottantaquattresimo posto!

Le macroregioni, si sostiene, faciliterebbero piani di sviluppo complessivi. Forse, ma i grandi progetti hanno spesso dimensioni internazionali e nessuno, credo, pensa di abolire del tutto le regioni per facilitare lo sviluppo di piani europei.

In realtà trovare una giusta dimensione territoriale per le autonomie locali non è cosa semplice; coinvolge molteplici aspetti di natura diversa: geografici, storici, culturali, economici, … .

Tuttavia noto che la proposta d’istituire macroregioni gode di una popolarità che non sempre ha motivazioni positive. Infatti incide e stimola, al nord come al sud, un sentimento di rivalsa per ingiustizie, vere o presunte, subite dal Governo centrale o da altre aree del paese, risveglia un malinteso senso di identità. Non è un caso che, accanto a iniziative serissime, ve ne siano di pittoresche: “La grande Lucania”, il “Principato d’Arechi”, … . Insomma più che incentivare la cooperazione le Macroregioni sembrano far leva e stimolare un separatismo sterile.

La Fusione dei Comuni è, a differenza delle Macroregioni, una realtà prevista dalla legge, finanziata dallo Stato e già attuata nell’Italia centro-settentrionale. Più Comuni limitrofi decidono di fondersi in un unico ente. È una riforma che parte dal basso: sono i cittadini che decidono con un referendum.

I pregi della Fusione rappresentano, paradossalmente, altrettante difficoltà.

Richiede ai cittadini spirito di cooperazione, l’abbandono di vecchi campanilismi, un maggiore e diverso spirito civico.

Richiede ai politici e agli amministratori locali di essere parte attiva, toccherebbe a loro avviare l’iter burocratico.

Insomma la Fusione dei Comuni presuppone un rinnovamento culturale che scoraggia molti ma che, a mio avviso, dà l’esatto valore della posta in gioco. Richiama la necessità di una pressione democratica che tolga alibi ad ogni colpevole inerzia.

In conclusione. È evidente che Macroregioni e Fusione dei Comuni non sono soluzioni alternative ma un impegno serio che richiede una scelta. E io ho scelto di impegnare le mie modeste possibilità per sollecitare la discussione e, perché no, la realizzazione di Fusioni nel Mezzogiorno. Probabilmente sono ulteriormente stimolato dal fatto che vivo in un piccolo Comune, gli abitanti di una città saranno meno sensibili all’argomento e questo contribuisce a spiegare perché gli organi d’informazione meridionali, salvo rare eccezioni, vi dedicano scarsa attenzione.

 
 
 

La giostra delle primarie in Campania

Post n°60 pubblicato il 26 Gennaio 2015 da mcalise
 

Le polemiche, i ritardi, le manovre, oscure ai più, che avvolgono le primarie regionali, anche in Campania, mi spingono a riflettere su questo modello ideale e sulla scommessa, per ora persa, di coinvolgere maggiormente i cittadini nella scelta dei candidati e democratizzare ulteriormente la selezione della classe politica. Mi domando se le primarie stiano rispondendo alle aspettative dell’area politica di centro-sinistra i cui partiti hanno avuto il coraggio ed il merito d’introdurle in Italia.

Che lo strumento dello primarie richiedesse una ponderata regolamentazione, una meticolosa ed attenta organizzazione e, non ultima, una rielaborazione del modello partito è cosa nota che, purtroppo, i dirigenti politici hanno colpevolmente ignorato. Il Prof. D’Alimonte che, già nel 2008, scriveva “è in discussione il ruolo del partito. Con primarie di questo tipo il partito cosa ci sta a fare? I suoi dirigenti e i suoi iscritti che voce hanno? Un partito che delega la scelta dei suoi candidati a cariche elettive e la definizione del programma agli elettori, per di più in primarie aperte, che partito è?”.

Insomma, non solo lui, poneva autorevolmente all’attenzione di tutti la necessità di un cambiamento del modello-partito che l’introduzione delle primarie rendeva ancora più urgente.

Occorreva definire chiaramente i valori guida, i blocchi sociali di riferimento, la struttura organizzativa, il ruolo dei dirigenti e degli iscritti, l’attribuzione dei poteri decisionali, le modalità di elaborazione dei programmi, ecc..

Tutto ciò non è avvenuto e assistiamo, invece, all’emergere di autocandidature, alla sostituzione delle proposte programmatiche di partito (a ogni livello: nazionale, regionale e comunale) con gli stringati proclami dei candidati. Invece di un necessario confronto di idee che faccia risaltare la diversa interpretazione di una base programmatica comune emerge un confronto di individualità e di pacchetti di voti utilizzati dai candidati sul tavolo delle negoziazioni interne al proprio partito in una lotta fratricida.

Primarie siffatte, anziché stimolare il voto di opinione come modalità prevalente di scelta politica hanno accentuato la personalizzazione. Quest’ultima, legata a pratiche antiche e allo stesso tempo molto attuali, si sostanzia nella costruzione minuziosa del consenso basato sul contatto diretto fra elettore e il candidato/eletto o i suoi rappresentanti di zona (portaborse, notabili locali, …).

Tutti questi limiti sono emersi per le primarie regionali campane. Indette per il 14 dicembre 2014 sono slittate, prima all’11 gennaio 2015 e poi al 1° febbraio. Rinvii motivati dal tentativo di comporre lo scontro interno al PD campano e di quest’ultimo con la segreteria nazionale. E non è finita. I candidati al momento sono tre: Andrea Cozzolino, Vincenzo De Luca e Angelica Saggese. Ma una parte del Pd propende per una candidatura unitaria; magari quella di Gennaro Migliore. In alternativa, ed è la soluzione più probabile, si vuole rinviare la competizione forse al 22 febbraio, ed allargare la rosa dei candidati. Soprattutto, occorre tempo per la difficile composizione del problema rappresentato dalla condanna, in primo grado, del sindaco di Salerno De Luca. Quest’ultimo non intende rinunciare alla candidatura creando un serio imbarazzo al partito.

La confusione è tanta e qualcuno, ingenuamente, potrà chiedersi quale sia lo spazio riservato alla discussione dei problemi della regione, quali siano i programmi.

Al momento sono presenti, sul sito www.pdcampania.it, le proposte dei tre candidati; solo una, quella di Cozzolino, ha almeno la forma di un documento programmatico. Gli elettori delle primarie dovrebbero scegliere, al momento, sulla base di tre documenti, rispettivamente di 3, 5 e 24 pagine (al lordo di foto e grafica), scritti dai candidati. Emerge che il Partito democratico non ha un programma per la Campania.

È questo il contesto che dovrebbe stimolare il voto di opinione?

In realtà si tratta di una sfida personalistica dove un ruolo fondamentale avranno le clientele, i fedelissimi, i portaborse. E diviene sospetta l’invocazione delle primarie; occasione, come le elezioni amministrative e politiche, per le figure di secondo piano di mostrare la loro capacità di raccogliere voti. Le primarie diventano così uno strumento di lotta politica approssimativo e semplificatorio.

Non ho voluto unire a queste considerazioni commenti sulle tristi vicende giudiziarie, qui solo accennate, che, anche in questo caso, s’intrecciano con le vicende politiche.

Le primarie sono uno strumento degno della massima considerazione ma, gestite in questo modo non contribuiscono a migliorare la qualità della nostra democrazia; anzi il loro insuccesso alimenta un nefasto clima di sfiducia.

A questo punto la posizione di coloro che, pur di area progressista, vorranno scendere dalla “giostra” delle primarie  non mi sembra tanto stravagante!”

 
 
 

Non sono un giustizialista ma…

Post n°59 pubblicato il 25 Gennaio 2015 da mcalise
 

Leggo sul Corriere della Sera del 25 c.m. un articolo firmato Luigi Ferrarella che riporta le dichiarazioni del numero due della Procura generale milanese, Laura Bertolé Viale, in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario. Essa sostiene “la magistratura deve resistere alle lusinghe e alle minacce di altri poteri, come condizione per l'eguaglianza di tutti davanti alla legge”. Poi continua “Ritengo mio diritto di pretendere nelle leggi questa ragionevolezza, e ritengo mio diritto anche criticarle [ …] Come ad esempio la clausola di non punibilità dei reati fiscali, che, se espressa esclusivamente in soglie percentuali, creerebbe una sostanziale differenza di trattamento tra contribuenti maggiori e minori. [ …] Anni di privatizzazione dei reati societari fanno poi sì che nella Milano centro dell'economia dal 2009 al 2013 ci siano stati solo 33 casi di falso in bilancio, e solo 5 nel 2014”.

La dichiarazione autorevole avvalora l’idea diffusa che vi sia una giustizia severa con i piccoli malfattori e più “comprensiva” nei confronti dei ceti abbienti ma, forse più precisamente, con un certo tipo di reati. Evidentemente sono diversi i criteri di misura adottati dal legislatore e, forse, da alcuni magistrati.

Poi lego questa notizia ad un’altra. Infatti sullo stesso numero del quotidiano, a pagina 21, riporta l’accorato appello dell’avvocato di Marcello Dell’Utri “Sta male, in cella ha perso 12 chili”. Come non ricordarsi di un appello analogo di Fabrizio Corona.

Ma allora il regime carcerario è più duro per vip che per i comuni mortali? È giusto che le loro traversie abbiano vasta eco sulla stampa e, persino, sui social networks?

Questa volta ad adottare criteri di misura diversi sono una parte della stampa e molti cittadini che discutono della carcerazione influenzati dal gossip del momento.

Non ho risposte ma esprimo la banale convinzione che la giustizia sia un problema complesso che non può essere affrontato spinti dall’emergenza (tipo fare cassa) o sull’onda dell’emotività. Essa merita un’attenzione diversa da parte di tutti: legislatori,  magistrati, giornalisti e cittadini. 

 
 
 

Mezzogiorno, la questione dimenticata e le opportunità perdute

Post n°58 pubblicato il 19 Gennaio 2015 da mcalise
 

“Che esista una questione meridionale, nel significato economico e politico della parola, nessuno più mette in dubbio. C'è fra il nord e il sud della penisola una grande sproporzione nel campo delle attività umane, nella intensità della vita collettiva, nella misura e nel genere della produzione, e, quindi, per gl'intimi legami che corrono tra il benessere e l'anima di un popolo, anche una profonda diversità fra le consuetudini, le tradizioni, il mondo intellettuale e morale.” Così scriveva Giustino Fortunato agli inizi del secolo scorso; parole di una sconcertante attualità.

Oggi, nel riproporre la questione meridionale sembra di ripetere un ritornello, un assioma che tuttavia non  provoca reazioni conseguenti. È possibile che essa sia dimenticata anche dai meridionali?

Il divario nord-sud cresce e ha assunto, da tempo, caratteri strutturali! Sostenere con dati statistici tale affermazione pone solo l’imbarazzo della scelta. Alcuni esempi (ISTAT 2012).

Il drammatico fenomeno dei Neet (Not in Education, Employment or Training) riguarda il 23,9% dei giovani italiani compresi fra 15 ed i 29 anni. La percentuale sale al 33,3% nel Mezzogiorno; una ipoteca inquietante sul futuro.

Il Pil pro capite italiano ammonta a 22.807 euro e scende di 8.835 euro nel Mezzogiorno!

È evidente che occorrono iniziative che marchino una forte discontinuità che potrà aversi solo con un altrettanto forte assunzione di responsabilità da parte di tutti e con un’autocritica severa.

Dovremmo interrogarci, ad esempio, sul fenomeno senza precedenti che, nel 2014, ha interessato l’Italia centro-settentrionale: ben 57 Comuni hanno deciso di fondersi formandone 24 nuovi.

Vogliamo chiederci perché lo hanno fatto?

Perché una opportunità prevista dalle leggi, incentivata con finanziamenti non è, almeno, seriamente discussa al Sud?

I nostri politici perché non si impegnano in tal senso, allargando lo sguardo oltre le comodità o l’interesse immediato? Incapacità o meschine convenienze? O entrambe le cose?

E i cittadini: perché, altrove, hanno “spinto” questa riforma dal basso?

E noi cosa facciamo? La crisi è sotto i nostri occhi e il peggio lo subiscono, e ancor più lo subiranno, i nostri figli. Continuiamo a pensare a noi stessi solo come vittime mai responsabili; forse aspettiamo un improbabile “salvatore”.

Non mancano coloro che sono pronti a effimere proteste, a gridare NO, a puntare il dito contro il “nemico” di turno. Ma, oggi più che mai, occorre dire SI a visioni, a progetti, fare scelte ponderate e coraggiose. Con un nuovo spirito possiamo stimolare seriamente proposte per uscire dalla crisi o, più realisticamente, mitigarne gli effetti.

Occorre resistere allo scoramento ma, confesso, che spesso mi sovviene il verso di una bella canzone di Battiato: “com'è difficile trovare l'alba dentro l'imbrunire.

 
 
 

Cittadini cercasi. No perditempo!

Post n°57 pubblicato il 10 Gennaio 2015 da mcalise
 

Ho notato, pochi giorni orsono, la scomparsa della pagina Facebook del Circolo del Partito democratico di Sapri. Poco male. Non è stata, ne poteva essere, di qualche utilità: legata come era al un Circolo che, nato da un inciucio, non ha mai funzionato.

Tuttavia questa uscita, alla chetichella, merita qualche commento giacché ricorda il collaudato stratagemma di “vuttà a scurdà”.

Le questioni non si affrontano, non si chiariscono. Si fa affidamento sulla tradizionale attenzione e memoria selettiva dei concittadini; le faccende scomode, imbarazzanti, sono ignorate. Così se incontrate un iscritto PD, gran frequentatore di Facebook, e gli chiedete cosa sa della rimozione della Pagina, il soggetto cade dalle nuvole: io, su Facebook? Esclama.

È questa l’attenzione selettiva, a volte reale a volte simulata. Essa, caratterizzando la collettività saprese, fa si che i problemi veri siano sempre schivati e, con una buona dose di ipocrisia, si predichi il “volemose bene! Sapri prima di tutto!”. Ma i problemi non affrontati e chiariti ritornano, casomai in forma diversa.

Ma anche la mancanza di memoria collettiva puntella lo scarso civismo. La gente dimentica! Chi ci chiederà conto delle promesse mancate, delle affermazioni contradette, della mancata trasparenza? Pochi mesi prima delle elezioni qualcuno penserà di poter sistemare tutto e di recuperare tutti i consensi!

Ovviamente è chiaro che il Circolo PD è solo un caso, nessuno ne faccia una strumentalizzazione partitica, perché il discorso riguarda tutti. Dove sono, a Sapri, coloro che si attivano per una cittadinanza attiva, dignitosa?

Il ceto medio è assente, afflitto da un retrivo provincialismo sottolineato dalla voglia di evitarlo ricorrendo ad eventi, passerelle, a nomi altisonanti.

I giornalisti locali fanno gossip (con cautela), esibiscono foto, un po’ di cronaca, scrivono di eventi lontani nel tempo e nello spazio. La prima linea non fa per loro.

Ovviamente non mancano coloro che spacciano come impegno civico, lo spostamento di statue, le luminarie, l’addobbo di alberi, ecc. .

E quando si tratta dell’Ufficio Postale o della fioriera all’angolo, critici a bizzeffe!

Se ci sono persone o associazioni attive nella promozione della cittadinanza, della partecipazione civica si facciano avanti: sono pronto a chiedere loro scusa e a collaborare.

Intendo persone che, per usare una metafora, non intendono distribuire il pescato ma “canne da pesca” affinché ciascuno contribuisca, con dignità, al bene comune.

Cittadini cercasi. No perditempo!

 
 
 

Il mio augurio per l'anno che verrà

Post n°56 pubblicato il 03 Gennaio 2015 da mcalise
 

Caro amico ti scrivo [ …] l'anno vecchio è finito ormai, ma qualcosa ancora qui non va. [ …] L'anno che sta arrivando tra un anno passerà”. Sono i versi della canzone “L'anno che verrà” di Lucio Dalla che, velati di pessimismo, ci ricordano che “qualcosa ancora qui non va” e questo qualcosa è destinato a ripetersi, a perpetuarsi.

Purtroppo, è semplice l’accostamento ai molti problemi sapresi che si trascinano, sostanzialmente immutati, da un anno all’altro. Noi, facendone un consuntivo, scopriamo che molti di essi, grandi e piccoli, sono rimasti irrisolti. Ciò è naturale, si potrà sempre dire che c’è ancora qualcosa che qui non va, poiché nuove richieste, nuove esigenze, nuovi problemi si affacciano. Ma sono veramente nuovi o l’avvilente riproposizione dei vecchi?

Temo che i nodi irrisolti di quest’anno siano sostanzialmente gli stessi degli anni passati; è facile prevedere che, esclusi i “miracoli” ai quali non crediamo, saranno gli stessi negli anni venturi.

Tutto sembra cambi ma, nella sostanza, nulla cambia; siamo in uno stato di stagnazione. Allora cosa possiamo augurarci per l’anno che verrà se non uno scatto collettivo, una discontinuità con il passato prossimo e remoto.

Come? Certo non esiste una ricetta, un unico sistema. Qui posso dare solo un modesto suggerimento, un necessario punto di partenza.

Credo sia opportuno e realistico pensare che non bisogna inventarsi nulla. Occorre recepire idee, progetti e soluzioni già sperimentate e adattarle alla propria realtà.

Per fare ciò occorre alzare lo sguardo. Si, di tanto in tanto, non limitarsi a guardare il proprio ombelico, ma osservare l’esperienze altrui. Ma guardare lontano è inutile se non si è pronti ad ascoltare, a valutare un’idea per quello che è e non per chi la propone. A volte il “lontano” è vicino a noi e non riusciamo a vederlo limitati dai nostri pregiudizi, dalle nostre avvilenti appartenenze o, peggio, da meschini interessi. Dovremmo essere consapevoli che la crisi non ha soluzioni semplici e solo un forte impegno collettivo, una forte coesione potrà rivitalizzare, da tutti i punti di vista, la nostra collettività. Occorre creare occasioni di incontro, dialogare. E per dialogare proficuamente occorre, per prima cosa, saper ascoltare.

“L'anno che sta arrivando tra un anno passerà, io mi sto preparando è questa la novità.

Prepariamoci anche noi. Una riflessione critica, prima individuale e poi collettiva, potrebbe essere il presupposto per un proficuo anno nuovo. E con questa speranza auguro a tutti i concittadini buone feste e un felice 2015.

 
 
 

Sapri. Cosa augurarci per il nuovo anno? Un po’ di coraggio.

Post n°55 pubblicato il 31 Dicembre 2014 da mcalise
 

Tutti i commentatori, tutti gli indicatori e le statistiche confermano il perdurare di una crisi che ormai dura da sette anni e della quale non si intravede la fine.

Nel sud essa si innesta e si sovrappone all’irrisolta questione meridionale. Il Rapporto Svimez 2014 denuncia, pensate. il “rischio di desertificazione” del Mezzogiorno.

La situazione di Sapri, con le sue specificità, ovviamente non fa eccezione.

Tuttavia non credo che, qui, vi sia una consapevolezza piena che porti a comportamenti conseguenti. La perfetta comprensione della crisi presupporrebbe una novità di pensiero e di azione, uno spirito critico e autocritico di cui non si vede traccia. Siamo una collettività appiattita sulla consuetudine, bloccata dai personalismi e da “piccole beghe”.

Vi è una completa disattenzione ai beni immateriali; intendo valori e concetti che modellano i comportamenti come: coesione sociale, cittadinanza, partecipazione civica, democrazia … . Quisquiglie, direbbe Totò. altrove, invece, sono i fondamenti di una società civile e, anche il presupposto per la crescita economica. I beni materiali come la costruzione di una scuola, la manutenzione delle strade, ecc., sono importanti ma non hanno un impatto incisivo, duraturo come avrebbe la valorizzazione dei citati beni immateriali.

Solo con questa consapevolezza possiamo formulare seriamente proposte per uscire dalla crisi o, più realisticamente, mitigarne gli effetti.

Possiamo facilmente comprendere che non vi sono ricette semplici, soluzioni veloci. La migliore ordinaria amministrazione oggi non basta, occorre discontinuità!

A mio avviso, ciascuno di noi può scegliere tra TRE comportamenti diversi:

1.     La RINUNCIA. Qualcuno si scoraggia di fronte alle grandi difficoltà, rinuncia a qualsiasi impegno; salvo poi, in molti casi, a proclamare l’amore per la città e ad indicare gli altri come colpevoli della situazione negativa.

2.     L’ATTIVISMO gratificante. Cioè affrontare i problemi abbordabili pur sapendo che la loro eventuale soluzione non incide in modo significativo e duraturo sui destini della collettività. Un modo per apparire e “salvarsi l’anima”.

3.     La SFIDA. Assodato che non esistono soluzioni semplici per affrontare problemi concreti, radicati e strutturali. occorre lavorare contemporaneamente su due fronti: con il primo affrontare i problemi immediati, urgenti, con il secondo porre mano a un progetto che affronti problemi strutturali. una sfida necessaria, difficile, esaltante e di possibile successo.

Io, personalmente, scelgo e propongo quest’ultima soluzione.

Credo che sia il momento di superare anacronistici campanilismi e divisioni basate sull’appartenenza a gruppi parentali allargati.

La situazione è grave, i nostri territori già pagano un grave ritardo.

Non possiamo attendere “salvatori” che non arriveranno e che sarebbero, oltretutto, un colpo alla nostra dignità.

Le soluzioni strutturali, profonde e concrete, a volerle vedere, esistono. Non ci sono alibi!

Noi, e ciascuno deve dire io, dobbiamo, ora e qui, mettere in campo azioni meditate, incisive e coraggiose che diano, realisticamente, fiducia in un futuro migliore anche alle giovani generazioni del nostro territorio.

Solo mobilitazioni collettive e responsabili possono avviare quei processi di aggregazione e discussione che sono la premessa di un possibile e vero cambiamento.

Cari concittadini per il 2015, un augurio: facciamo tutti un coraggioso passo avanti!

 
 
 

Capitale corrotta, nazione infetta

Post n°54 pubblicato il 17 Dicembre 2014 da mcalise
 

"Capitale corrotta, nazione infetta": era il titolo dell’articolo, divenuto famoso, firmato da Manlio Cancogni apparso l'11 dicembre 1955 sul “l’Espresso”.

Ancora, passati quasi 60 anni, un’inchiesta, a Roma, svela un osceno intreccio tra malaffare, criminalità organizzata e classe politica, di diversi schieramenti.

È tempo di rifondare la politica. Con la battaglia delle idee e la mobilitazione.

 
 
 

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