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Ancora di Gregorovius e degli eventi romani, italiani, europei. Rusalka all'Opera e Fidelio in Rai

Post n°820 pubblicato il 14 Dicembre 2014 da giuliosforza

Post 765

 

Quel predominio che alla Germania non fu consentito di conquistare con due guerre. ora le è stato consentito di conquistare con la "pace". Paradossi (?) della Storia.

*

Ho quasi terminato la lettura dei Diari romani di Gregorovius  (e  nel frattempo, per alienarmi da questi tempi di miseria materiale culturale e morale, mi rituffo nelle balsamiche atmosfere delle primavere elleniche, tornando ai  due bei volumi de La  Letteratura greca  della Cambridge Unilversity, curati per i Meridiani mondadoriani dal compianto Ezio Savino), e me ne dispiace. Ho appreso più da essi sulla vita quotidiana a Roma nei salotti più esclusivi e pei vicoli di Trastevere, sulle vicende storiche di rilievo nazionale ed internazionale (Risorgimento, crisi del Papato e del Dominio Temporale, Pio IX, Napoleone III,  Bismark e la creazione dell’Impero tedesco), sulla vita culturale ed artistica, sui grandi personaggi che a Roma confluivano (pittori, scultori, poeti, storici, politici), sui fatti di cronaca (quella microstoria che la macrostoria erroneamente ignora, ma di cui in realtà essa si compone come un mosaico delle tessere e un quadro delle singole pennellate) di quanto abbia potuto apprendere dai testi scolastici o dai tomi degli storici togati, che per storia sovente contrabbandano una storiografia il più delle volte, a seconda dell’ordinante, appigionata. Cosa curiosa: nelle circa mille pagine del volume  non  un accenno alla sua  vita privata sentimentale  (eppure la sua casa di via Gregoriana è frequentatissima da dame di tutta Europa che se lo contendono, e dopo una giornata di indefesso lavoro era raro non si conceda vivaci frequentazioni e scintillanti serate nei palazzi della nobiltà, e dell’alta borghesia romana): pudore tedesco, riservatezza prussiana o…?  Si consideri  che egli visse a Roma, quasi senza interruzione, dal 1852 al 1874, vale a dire negli anni centrali della sua esistenza (fra i trentuno e i cinquantaquattro). Possibile che Cupido abbia disertato in tanti anni la sua severa magione? Che il tempo dedicato al suo poderoso lavoro sulla Storia della Città di Roma nel Medioevo e a mille altre divagazioni letterarie, gli abbia tolto il tempo per i sollazzi, se non per i grandi coinvolgimenti, amorosi? Di molte signore per la verità egli riporta velocemente solo l’iniziale puntata: che dietro quelle lettere si celino i nomi delle  amanti ?

La nostra curiosità in questo campo è destinata a rimanere insoddisfatta. La sua pruderie resta invalicabile.

E allora leggiamoci una pagina che descrive la situazione filosofica, e non solo, italiana del suo tempo. Dopo cento cinquanta anni essa sembra immutata, per quanto attiene al carattere della plebe italica tentata invano di farsi popolo (lo scherno è mio), e quelle note potrebbero tranquillamente  essere state dettate stamane per un quotidiano nazionale.   

 

“ Rosenkranz mi indirizzò un giovane filosofo pieno di talento, della scuola del Vera: Rafael Mariano. Ha scritto alcune dissertazioni filosofiche ed ha anche abbozzato un quadro generale della moderna filosofia italiana, dedicando quest’ultimo scritto al Rosenkranz. Come caratteri più rappresentativi nomina Galluppi, Rosmini, Gioberti, Ausonio Franchi ed il suo giudizio è che l’intera filosofia moderna d’Italia, essendo ancora imprigionata nella scolastica e nel cattolicesimo, si trova fuori del movimento scientifico ed è del tutto insignificante.

Ciò che importa agli italiani non è la scienza obiettiva, ma la sua applicazione alla vita ed allo stato. Il culto dello Stato di Hegel è ciò che ha reso questo filosofo così familiare a loro.

Se l’autocritica è sintomo del del rinnovamento dello spirito popolare, gli italiani si trovano oggi sulla buona strada. Essi l’applicano su se stessi fino al cinismo; scoprono senza nessun riguardo le pudenda della loro nazione. Riconoscono all’unanimità che lo stato morale del popolo è in contraddizione con i successi politici. Da un giorno all’altro hanno ricevuto una forma nazionale, che però è priva di contenuto. Lo dichiarano fino all’esasperazione; persino Mamiani e Lignana hanno formulato questo giudizio. Ed è giusto, poiché una rivoluzione politica è sterile se non è accompagnata da una rivoluzione morale. Per completare quest’ultima manca agli italiani la coscienza e l’energia etica”.

 

Il mazzinianesimo è  tradito, il suo autore costretto all’esilio, i suoi ideali laici e repubblicati sono stati  traditi e deturpati . G. lo afferma senza mezzi termini, come senza mezzi termini denuncia il “donchisciottismo” dei Garibaldi  padre e figli, Ricciotti in testa, la rozzezza di  quel bifolco di Vittorio Emanuele restio a smettere la casacca del cacciatore e la foia dello stupratore di vergini. Molte pagine inoltre egli dedica alla distruzione sistematica di Roma e delle sue bellezze voluta da quei  “montanari”  di piemontesi per far posto a quella nuova: Scrive: “Una mattina ho condotto  Breverne e Schouleppnikow all’Aventino. Si deve prender commiato da queste calme colline; la loro solitudine ed il loro magico incanto verranno fra poco distrutti. Vogliono ricoprirle di edifici. Sul Celio verranno costruite delle strade, Sull’Esquilino, sul Viminale e sul Quirinale deve sorgere la nuova Roma, Mi reco spesso al nuovo quartiere Ai Termini, dove la via Nazionale sta facendo  rapidi progressi. Ma i grandi edifici che vi stanno innalzando non sono che dei casermoni…”.

Sed de hoc satis.

*

Mio intento sarebbe stato dedicare questa pagina ad argomenti diversi. Per esempio alla  Rusalka di Dvorjak, alla cui rappresentazione ho assistito all’Opera di Roma. Assistito per modo di dire, ché ho “dovuto” abbandonare al termine del secondo atto. La lugubre scenografia, una sorta di sezione di uno spoglio sarcofago di compensato, e tra i più scadenti, acquistato magari da Ikea a prezzo di svendita, entro cui avrebbe dovuto svolgersi la bella favola romantica narrata con la delicatezza che gli è propria dal compositore cecoslovacco; un pubblico raccattato (conseguenza della travagliata situazione che l’istituzione romana sta vivendo?),  come raccattati appaiono  l’orchestra e i cantanti, in fondo non malvagi); l’inestetica prossimità, infine, di un gruppo di turisti (i rilkiani onanisti che affollano le sale da concerto), di quelli che hanno la partecipazione ad uno spettacolo programmata nel menu del viaggio, e che quando non sono nordici od orientali si dimostrano per lo più talmente alieni dai domini di Euterpe da lasciar trasudare dai loro pensieri, come dalle loro corpulenze sudaticce, tedio e senso di estraneità: tutto ciò mi ha impedito di restare e di “godermi” lo spettacolo, gentilmente offertomi da Tilde, fino in fondo. Mi rifaccio il giorno dopo godendomi, in barba al mio amico Paolo Di Nicola, curatore d’una rubrica radiofonica vaticana dedicata alla voce umana, che ha confessato, proprio su questi spazi, di non amarlo, come non ama la musica tedesca in generale (attenzione Paolo, rischi di confessare di non amare “la” musica sic et simpliciter, che da tre secoli parla tedesco) nota dopo nota il Fidelio beethoveniano, ritrasmesso in differita dalla Scala e ripulito degli schiamazzi populistici che da qualche anno sembra sia doveroso debbano fare da contorno all’evento scaligero (ma non ahimé ripulito dei presentatori delle presentatrici  e delle loro insulse interviste.).

Il congedo di Baremboin dalla Scala non avrebbe potuto esser migliore. A lui siano lode e ringraziamento ed a Frau Musika sua fedele compagna per tanti anni.

 

 Chàirete Dàimones!

Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 
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