Creato da giuliosforza il 28/11/2008
Riflessione filosofico-poetico-musicale

Cerca in questo Blog

  Trova
 

Area personale

 

Archivio messaggi

 
 << Ottobre 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
  1 2 3 4 5 6
7 8 9 10 11 12 13
14 15 16 17 18 19 20
21 22 23 24 25 26 27
28 29 30 31      
 
 

FACEBOOK

 
 
Citazioni nei Blog Amici: 3
 

Ultime visite al Blog

medea.mcgiuliosforzaDismixiatittililliCarmillaKfamaggiore2gryllo73pino.poglianidiogene_svtPisciulittofrancesco_ceriniper_letteranorise1fantasma.ritrovato
 

Ultimi commenti

Chi può scrivere sul blog

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 

 

« Traslochi e ritrovamenti...Urbano Barberini assesso... »

Tibur. Mireille Mathieu e "Norma". Salgàri seconda parte

Post n°861 pubblicato il 16 Luglio 2015 da giuliosforza

Post 802

 

Concerto di fisarmoniche a Piazza delle Erbe nella Tivoli antica.

Odio e amo la Tivoli antica quanto odio quella nuova, turpemente disordinata e caotica. Per anni ho in essa vissuto col mio coro giorni indimenticabili, notti inebriate  in senso stretto ed inebrianti, emozioni innumerabili, amori, platonici e “biblici” con la mia Taube (che suona colomba), come Salomone con la sua columba in foraminibus petrae, in caverna maceriae, così io dentro il cavo tronco di un ulivo antico sulla via di Pomata. Cenai nei ristoranti ove cenarono Gregorovius e Goethe, cantai alla luna all’acropoli e dentro il tempio della Sibilla (furono quei canti più sacri delle invocazioni elevate alla Casta Diva da Norma), sacrai nel Duomo e nel seminario del Cardinale Roma e dissacrai i luoghi belli senza pari della Madonna di Quintiliolo. E le ville d’Este, Gregoriana, Adriana mi ebbero nei giorni affocati e negli inverni rigidi (non v’ha inverno più rigido e umido, per i vapori dell’Anio che lo traversa prima di strapiombare dai dirupi nella sottostante valle in grandiose cascate, di quello tiburtino) con i miei stuoli di ninfe  e  satiri e le Ombre di Orazio, Hohenlohe, Listz, D’Annunzio.

Odi et amo Tibur. Quare id faciami fortasse requiris. Scio et fieri sentio nec excrucior sed laetor.

*

A proposito di Norma.

Avete mai ascoltato la deliziosa canzoncina Mille colombes dalla voce di Mireille Mathieu?

Ebbene, ascoltatela. Il refrain (Donnez-mous mille colombes et des millions d’hirondelles…) è un plagio sfacciato della musica di Bellini, del coro che in sottofondo accompagna l’invocazione della sacerdotessa fedifraga.. Anzi, più che di un plagio, si tratta di un furto bello e buono, di un vero e proprio espianto-trapianto. Ma l’operazione geniale ha un esito assai piacevole e si perdona volentieri lo sfrontato plagiatore. Ascoltare per credere.

 *

 

Pubblico qui di seguito la seconda parte della riflessione dedicata a Salgàri. Nel corso dell’attenta rilettura confesso che ogni tanto ho sorriso di me: mi ritrovo ancora tutto nello stile  esaltato ed esagitato che fu (ed è?) il mio, come se gli anni avessero scavato solchi e crepe nel mio corpo ma non nella mia anima. A quale Iddio debba la mia pertinace capacità di stupirmi e di trovare in ogni pur minima cosa, in ogni pur minimo uomo, in ogni pur minimo scrittore qualcosa,  se non di grande, di meritevole di considerazione, non so. A quell’Iddio sia lode.

 

(segue dal post 801)

“Dove non colpisce tanto il tono, scontato, della critica in generale, quanto la peregrina concezione che distacca le immagini dalle parole, ne fa tutt’altra cosa, impronunciabile, quindi, e alla fine nemmeno pensabile; il colmo per un creatore di fantastico verbale, da qualche parte persin celebrato. Ancora una volta la voga di Salgàri sarebbe stata immensa per i difetti della sua scrittura, i difetti in fondo della sua anima, che così bene consonano con l’anima adolescenziale”. Questi critici, totalmente dimentichi della lezione rousseauiana e postrousseauiana, idealistica e neoidealistica, spiritualistica e neospiritualistica, continuano a concepire l’adolescente (e prima il bambino) come una sorta di piccolo animale il cui difetto è quello di non essere ancora uomo (l’uomo ben levigato, ben socializzato, ben inserito, ben lottizzato delle culture adulte); entoma in difetto che deve solo sbrigarsi  a maturare (ad invecchiare, come almen senza ipocrisie diceva l’infiltrato Benedetto Croce). Di Salgari fanno un criminale che asseconda il “vizio” dei giovani, carezza e coltiva le tendenze nefaste del loro animo; per questo, “nonostante l’opposizione della pedagogia, i ragazzi divoravano Salgàri; leggevano rubando le ore al sonno, alla passeggiata; portavano il libro a scuola e lo tenevano aperto sotto il banco, nell’ora della grammatica latina. Maestri, genitori, critici, tempestavano, e quella passione non si esauriva affatto; dopo la prima guerra cominciò a decrescere, ma ancora sussiste”. E sussiste perché bene o male quella di Salgàri è arte, seppure ‘rozza’ (sic). E perché in Salgàri si realizza un’estetica del movimento che anticipa il cinematografo.

Il Salgàri che interessa la riflessione pedagogica è un altro. E’ quello che ricolloca lo spazio-tempo nel suo natural luogo, la coscienza. E così categorizzando, spazio e tempo dilata all’infinito come per una naturale magia adolescenziale.

Lo spazio salariano è sì mistero (qualcuno l’ha anche qui rilevato) ma solo se mistero suona interiorità, non certo insondabile, diversamente sondabile. Intende spazio interiorizzato chi intende tempo come bergsoniana ‘durata’: per codesto spazio-mistero Salgari può estrarre, secondo un Citati citato da Nascimbeni, “all’affascinante enormità dell’Oriente: un sogno di sangue, morte, putrefazione, fanatismi, deliri, il presentimento di un destino truce, la rivelazione di misteri terribili, i trionfi della fantasia melodrammatica”: mediante un linguaggio che, come linguaggio dell’avventura, “non bada al rigore scientifico: quello che conta non è tanto l’oggetto che descrive, ma la  capacità di accendere attorno ad una parola lo stesso alone misterioso che circonda la luna”; e di conseguenza “c’è in Salgàri una forza contagiosa di nomi, di invenzioni, di suoni”. Per lo spazio risolto nel ‘continuum’ coscienziale Salgari dissolve il delimitato oggetto nella illimitatezza del soggetto, estende il ‘continuum’ della coscienza, spirituale libero creativo, al mondo dello spazio-limite-frammentarietà-meccanicità compiendo l’operazione inversa del positivismo, arbitrario fino al punto, fino al punto precritico, da liberare il ‘positum’ dall’ipoteca del ‘ponens’. Possiede il mondo ‘infantilmente’, “sente le cose esistere in sé”  come la Viviane dell’Annonce faite a Marie claudeliana, e il tramite di quel suo radioso possesso sono le parole: Salgàri come il bambino ‘crea’, pone ciò che ‘dice’. Mediante la parola e i suoni creatori pace è fatta tra il soggetto e l’oggetto: l’oggetto è il detto, è il soggetto che dice, che si dice, che si predica. Per la parola ‘incantevole’ follia, l’uomo non solo danza, nietzscheanamente, sulle cose: pone le cose, le sostanzia di sé. Solo per questa operazione di ‘reductio ad unum’ pace è possibile tra soggetto e oggetto. Solo in questo senso parole e suoni, è ancora Zarathustra ad avvertirlo, sono arcobaleni. La parola creatrice salgariana (la parola nella quale Salgàri crede e con la quale provocatoriamente travolge le angustie delle poetiche realistiche, la parola brandita come cosa, la parola per la parola) se pure non ha la compiaciuta coscienza  della sua potenza (come la parola del poeta della ‘Cantina di Auerbach’ “che vince gli elementi tutti con l’armonia che spira dal suo petto”) pure ha quella allucinata forza che le consente (molto bene l’ha rilevato Nascimbeni) di trarre da sé un mondo. Preciserei: di trarre da sé ‘il’ mondo. Pronunciarsi è porsi, è la sola oggettività possibile. Pronunciarsi è espander, con sé, le cose. Ed è venerarsi, ammirarsi nelle cose: L’oggetto della problematizzazione scientifica non è partecipabile, per definizione (‘obicio’, da cui ‘ob-iectum’, scagliato via da sé. Lo ‘zum estaunen sind wir da’ del Beethoven dei ‘Quaderni di conversazione’, ripreso da Goethe, non appartiene alla logica della problematizzazione-oggettivazione. Né ad essa appartiene lo spirito, o la passione, dell’avventura che è un modo di perdersi nell’altro da sé negato come altro da sé ( e solo per ciò raggiungibile): un modo di perdersi che è celebrare ‘per’ l’altro da sé la soggettività assoluta: avventura come dissolvimento del non-io nell’io, superamento dell’ostacolo del non-io-alterità assoluta, vittoria sul mondo-trascendenza. E’ nel mite Salgari una chiara ansia, vissuta non teorizzata, di superamento degli schemi estetici del positivismo, una trasgressione in atto dei formalismi delle poetiche del dato, più anguste e più formalistiche  della poetica delle tre unità. Egli nei suoi libri d’avventura combatte in concreto contro il positivismo una battaglia che i Gentile e i Bergson, per non dir che dei massimi, avrebbero combattuto teoreticamente su altri fronti. Verne è figlio, e vittima, del positivismo: Verne soggiace al mito scientista. E’ vittima dell’allucinazione della scienza e ne sposa la retorica. E’ povero della povertà del mito scientista. Salgari non è Verne. Non è vivaddio Verne. Il mite Salgari è più provocatore. Ed anche più illuminato. Combatte una lotta di liberazione dall’oscurantismo scientista. Libera le parole dalle pastoie dei positivismi logici. Rilancia la sfida agli analisti del linguaggio del suo, del nostro, di ogni tempo: veramente, solamente significante è ciò che non significa alla verifica da laboratorio, è ciò che ha sua verifica nel laboratorio della coscienza. La parola risuona del, nel mondo della coscienza. E’ principio di movimento e movimento. E’ verbo ed azione, è Logos e Tat. In questo Anfang. Nell’Anfang dell’Atto, coincidono. Coincidono il principio biblico-platonico e il principio faustiano. Rilancia dunque Salgari la sfida: è ciò che dentro me è, E’ ciò che non è ( Mompracem, l’isola-che-non-c’è). E’ ciò che io voglio sia (e ciò che so essere). Sono i miei deliri, le mie allucinazioni, le mie simulazioni, le mie prevaricazioni, le mie irrisioni, le mie ironie. Sono tutte le cose che io sono, io-realtà, non “ombra che la luna attraversa scintillando”. E’ tutto ciò che io giocando, come un bambino, con la parola vado ponendo.

________________

Chàirete Dàimones!

Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 

 

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 
Vai alla Home Page del blog
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963