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'Lucia". Cazzullo. Adone. Marzio Pieri. Bastone animato

Post n°1071 pubblicato il 20 Marzo 2021 da giuliosforza

 

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   Per l’ennesima volta assisto alla Lucia di Lammermoor e ancora una volta mi commuovo, non tanto o solo per l’opera in sé, ma per il cumulo di memorie e di emozioni che mi evoca. Che sia la migliore opera, fra quelle serie, di Donizetti non v’ha dubbio. La trovo nel suo genere di una perfezione assoluta e persino sotto molti aspetti avveniristica, più di molte cose verdiane. Dall’inizio alla fine il torrente melodico scorre compatto senza un accenno di rallentamento di dispersione o di interruzione di flusso, la coerenza della sequenza ispirativa sbalordisce dalla prima nota all’ultima nota, da Verranno a te sull’aure a Tu che a Dio spiegasti l’ali. La vicenda d’amore e morte, necessario tributo a un Romanticismo al suo culmine, affidata ad una musica e a un libretto che vicendevolmente una volta tanto non si prevaricano o tradiscono, ti entra nell’anima, attinge cuore e precordi, e tu piangi, oh se piangi, senza vergogna. E poi quell’Anna Moffo nel pieno della sua bellezza e della sua bravura!...

   La Lucia fu la prima opera lirica, anzi la prima composizione musicale in assoluto, che sentivo nominare nella mia vita da bambino. Di essa, come di un personaggio da leggenda paesana, spesso ascoltavo dire dai contadini dai pastori e dai boscaioli del mio borgo in Piazza o all’osteria al loro ritorno dai campi o la domenica dopo la Messa. Attraverso essa una ininterrotta tradizione orale narrava di una presenza, il 5 o il 6 agosto 1835, di Donizetti (che aveva sposato a Roma una Teresa Vasselli oriunda del vicino Riofreddo) in paese, ove nel caratteristico variopinto gazebo riservato alla banda avrebbe fatto provare estratti della sua opera appena terminata (sarebbe stata rappresentata il 26 del mese dopo al San Carlo di Napoli, i tempi tornano). Le tradizioni orali contano, oh se contano, spesso più dei documenti scritti non raramente sospetti o manomessi. Di esse ci si può fidare. Il compianto amico flautista e storico locale riofreddano Luca Verzulli, recentemente strappatoci dal maledetto, per la verità metteva in dubbio la credibilità dell’evento, ma confessava di non poterlo con certezza escludere. Credimi Luca, ora puoi verificare: io ero lì presente, novantotto anni prima della mia seconda nascita, e ascoltavo la Lucia con le mie sensibilissime orecchie e mandavo i motivi a mente con la mia straordinaria memoria musicale! Ero lì, lo giuro, puoi credermi. Lo ricordai un giorno, in uno dei miei tanti  pallegrinaggi alle urne dei Grandi, all’Ombra di Gaetano nel suo avello bergamasco (accanto a quello del suo maestro, il tedesco Simon Mayr) in Santa Maria Maggiore. Oh, sei tu, quel bambino! sussurrò. E uscì dall’avello ad abbracciarmi.

*

   Terminato il Dante di Alessandro Barbero. Non tradite le aspettative. Abbondante e selezionata documentazione, linguaggio piano e scorrevole, non senza qualche lepidezza. Proseguo con A riveder le stelle di Aldo Cazzullo. Tutt’altro genere e tutt’altra sostanza. Una gradevole volgarizzazione della Comedia. Ma l’informazione è abbondante e corretta e non mancano, nel generale ossequio alle più comuni interpretazioni (quelle dei dantisti e degli storici più noti), le interpretazioni originali; lo stile è da romanzo storico, intrigante e di piacevole lettura. Riposante. Avverte prudentemente e onestamente Cazzullo: “Questo non è un commento alla Divina Commedia. Ne sono stati scritti molti, e da grandi studiosi. Questo è un racconto del viaggio di Dante, e di come le sue parole abbiano contribuito a creare l’identità italiana” (pag. 77). Excusatio non petita? Solo onestà intellettuale. Nelle scuole potrebbe aiutare il prof impacciato ad avvicinare a Dante gli studenti senza farglielo odiare (come il più spesso avviene). Tra i pochi versi che Cazzullo cita non potevano mancare quelli che descrivono l’incontro con l’avversario politico Farinata degli Uberti

  

   Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai?

   Vedi là Farinata che s'è dritto:
   da la cintola in sù tutto 'l vedrai».

   Io avea già il mio viso nel suo fitto;
   ed el s'ergea col petto e con la fronte
   com' avesse l'inferno a gran dispitto.

   Frattanto riprendo il Dizionario dei miti letterari (Tascabili Bompiani 2004, traduzione e cura di Gianfranco Gabetta. Titolo originale Dictionnaire des mythes littéraires, a cura di Pierre Brunel, 1988 Éditions du Rocher - Monaco). L’avevo interrotto anni fa già al secondo mito, quello di Adone, che fa seguito al mito di Abramo (la trattazione segue l’ordine alfabetico, obbligando la mente, e trovo ciò molto positivo, a continui salti spazio-temporali e concettuali assai notevoli, obbligandola a una salutare ginnastica). Vari i collaboratori per gruppi di voci. Da Abramo al Vello d’Oro in 675 pagine una completa rivisitazione di 50 miti nell’interpretazione dei letterati di ogni epoca e di ogni luogo. Dalla quarta di copertina: “Esistono figure e temi mitici che periodicamente tornano a riaffiorare nelle pagine dei grandi capolavori letterari arricchendosi ogni volta di nuovi significati. È un continuo gioco tra il rispetto della tradizione, che fornisce uno scenario mitico costituito da alcuni dati fissi, e un infinito repertorio di variazioni a prova della libertà e delle a forza vitale della letteratura. Da Antigone a Edipo, da Faust a Don Giovanni, questo volume presenta alcuni degli esempi che meglio incarnano il complesso rapporto tra mito e letteratura”.

“Il mito racconta come, grazie alle imprese deli Esseri sovrannaturali, è venuta alla luce una realtà totale, il Cosmo, o solamente un frammento: un’isola, una specie vegetale, un comportamento umano, un’istituzione. È comunque sempre la narrazione di una ‘creazione’, di come qualcosa sia stato prodotto e abbia cominciato a essere”. (Mircea Eliade)

   “I miti non hanno un autore: nell’istante in cui sono percepiti come miti, quale che sia la loro vera origine, essi non esistono che incarnati in una tradizione. Quando un mito viene narrato, alcuni uditori ricevono individualmente un messaggio che, di fatto, non proviene da nessuna parte; è per questa ragione che gli si assegna un’origine sovrannaturale”. (Claude Lévi-Strauss)

   Il mito del bell’Adone, conteso da Afrodite e da Artemide ma non solo, amante della caccia e, per la disperazione delle due dee, ucciso da un cinghiale, mi interessa molto, ma per vicende a noi più prossime. Agli inizi di questo secolo ebbi modo di conoscere e familiarizzare col più grande studioso italiano del Cavalier Marino e, naturalmente del suo capolavoro: Marzio Pieri, fiorentino che di un fiorentino aveva tutti i pregi caratteriali, compresa la dantesca superbia. Esule volontario a Reggio Emilia, professore di letteratura a Parma, al Barocco e a Marino dedicò studi fondamentali, pari, se non superiori, a quelli da lui riservati al Bruno nelle edizioni la Finestra di Trento. Ma di ciò credo di aver già diffusamente parlato. Ora Marzio se ne è andato, ha raggiunto il Cavalier Marino nei suoi cieli, vicino vicino all’Empireo che, ci giurerei, non può che esser barocco.

*

   Apro a caso il Novum Testamentum graece et latine (Sumptibus Pontificii Instituti Biblici Romae 1938) e gli occhi mi cadono su una citazione di Isaia fatta da Paolo nella seconda lettera ai Corinzi: ἐσκόρπισεν, έδωκεν τοϊς πένησιν, ή δικαιοσΰνη αυτοΰ μένει εί τον αιϖνα (Προσ Кορινϑιόυσ β’) Si liberò dei suoi beni e li distribuì ai poveri: la sua giustizia rimane in eterno. (Isaia, 55,19). Rifletto: io che non ho beni da disperdere, rimarrò dunque ingiusto per l’eternità, con tutte le conseguenze che tale situazione comporta? E trovo il modo di consolarmi: non avrò beni materiali da distribuire, ma in quanto a talento e cultura, beni immateriali ma assai più preziosi dei materiali, la natura, me lo riconosco umilmente, non è stata con me avara; questi sì, ho passato la vita a donare senza mercanteggiarli, a piene mani. V’è forse dunque un posticino anche per me nell’eternità dei giusti.

*

   Basta aprire un libro di storia o di letteratura per accorgersi che non esiste generazione che non abbia rimpianto la precedente. Il che qualcosa deve pur significare. E significa che la sensazione comune che gli uomini hanno è che andare avanti non significa necessariamente andare verso il meglio, tutt’altro. Non è necessario essere pessimisti per crederlo. Lo stesso così detto progresso scientifico e tecnologico incide sull’avere, non sull’essere, per meglio dire sul fenomeno, non sul noumeno. Il profondo non viene scalfito nella sua essenza. Più scavi più a un più profondo sei rimandato ove sempre più ti spauri. Le ansie, le sofferenze, le attese vanificate, le speranze frustrate resteranno sempre le stesse nella forma, sempre peggiori nel contenuto. Ancora una volta: Plus ça change, plus c’est la même chose, da correggere anzi in Plus ça change, plus c’est pire. Rassegnarsi dunque? No. Fingere di poter afferrare il destino per la gola. Giova alla sopravvivenza e all’illusione della propria potenza. Frenare la corsa verso il baratro è pura illusione. Ma può amarsi il baratro. Baratro è in fondo anche l’Eternità che amiamo: è comunque un perdersi.

(P.S. Oggi mi va storta. Ma non mi va di sforzarmi ad autoconfutarmi, come sarebbe onesto).

*

   Ho cambiato itinerario e orario per la mia passeggiatina mattutina. Esco ormai non prima delle 8.30, già il sole è altino ma la terra è ancora coperta di rugiada. Madre Gea lentamente l’assorbe e ne nutre i nuovi concepimenti nel suo vasto grembo. Dopo un breve tratto di strada mediamente trafficata, svolto a sinistra per un grande spazio verde semi selvaggio intercalato da brughiere e saliscendi dai quali si vedono scomparire e apparire le torri cementizie, vicinissime in linea d’aria, non orrende osservate a distanza, di Colli della Serpentara e di Colle Salario che racchiudono, gli uni a sud l’altro a nord, l’antico borgo, poi disordinatissima borgata, di Fidene, la Fidenae  ricca di siti archeologici di notevole rilevanza purtroppo come tutto in questa benedette Italia provinciale pessimamente curati. Alla mia destra appaiono e scompaiono gli agglomerati più diversi, nei quali predomina il bianco delle graziose palazzine di Caltagirone, qua e là intercalate da costruzioni in cortina delicata rotta da balconate spaziose esse pure per lo più bianche, che son soprattutto quelle del sito detto Casale Nei, il più prossimo al centro commerciale di Porta di Roma, dove è la mia abitazione. Non può certo dirsi monotono il mio nuovo quartiere: come Madre Roma che lo sta generando (parto per la verità troppo lungo e laborioso) può dirsi dei sette colli, anzi di più colli, tale risultando conformato il territorio che dalla Nomentana all’altezza di Ponte Nomentano e di Piazza Manenio Agrippa, dolcemente divaricando verso nord ovest sale in direzione della Salaria e del GRA sui quali Colle Salario da notevole altezza incombe. I viottoli a saliscendi che percorro sono solitari: un solo signore dall’aria sospettosa, o solamente pensosa, incontro col suo cagnolino più di lui sì sospettoso, forse intimorito (strano caso: gli altri cani in cui mi imbatto, numerosi nelle ore più frequentate  abbaiano furiosi, tanto più furiosi quanto più piccoli, non so se per la mia foggia di vestire  o per il mio bastone) dal mio grande bastone africano doc: legno compatto, fusto di tre cm di diametro variamente cesellato e ingenuamente ricamato, due  intagli cilindrici a spirale, impugnatura a cuore maculata come pelle di serpente, elefante perfettamente scolpito a sorreggere l’impugnatura, due graziose antilopi sotto l’elefante le cui svelte corna si ripiegano a  semicerchio congiungendosi e formando due archi perfetti; insomma un capolavoro (di cui si vedono copie industriali di  pessimo gusto e di scarso valore). Discendo nel valloncello che per viottoli ricoperti da sterpi conduce in via Pupella Maggio, dalla quale incrociando viale Carmelo Bene mi immetto in via Vianello che poi diventa Soldati. All’imbocco di Viale Baseggio mi si para davanti una specie di mastino che pare un cerbero. E che è lui a tirare il padrone che a stento riesce a trattenerlo, e non viceversa: per un pelo non mi è addosso, ma io faccio per infilargli il mio bastone africano nelle fauci e si placa. Ma perché non sbrana il suo padrone e se la prende con me? Che avrò mai fatto io, il più mite degli uomini, ai cani? Gino, almeno il caro Gino di Jacopo Numa Leon, almeno lui mi amerà? La prossima volta prenderò per le mie passeggiate, dei miei cento e passa bastoni, quello animato, costruito da un artigiano bretone, che nasconde non il solito corto stocco, ma una vera e propria lama da duello, capace di passare da parte a parte, e che mi fu donato in Bretagna, a Saint-Malo, come pegno d’amore, da una demoiselle vezzosa e spiritosa che fingeva d’esser presa di me: su di esso mi fece giurare che se m’avesse lasciato con esso avrei dovuto ucciderla. Era cento anni fa, all’epoca dei cavalieri senza macchia e senza paura e delle dame in crinolina, non ancora in minigonna. Che donne, che vezzi, che spade!       

____________

   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

   Gelobt seist Du jederzeit, Frau Musika!

 

 

 
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