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Vick anniversario. Il leccio antico. Strindberg. Manfroce. Pedrotti

Post n°1136 pubblicato il 14 Agosto 2022 da giuliosforza

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   Tardo pomeriggio di un 6 di Agosto. Passeggiata al leccio tra i due ponti. Memorie antiche, ormai solo memorie (o presagi?)

   Mattino e pomeriggio afosissimi. Cielo plumbeo. Ma non pioggia. Solo cappa di piombo. Ma la cappa di piombo non pesa sul cervello a obnubilarlo o sulla memoria a cancellarla. Anzi. Mentre il borgo impazza tra botti, fuochi d’artificio, rumori assordanti che dicon musiche urlanti dagli altoparlanti, dionisiaci thiasi cui un pur minimo afflato apollineo è alieno, gare ludiche (unica lieta nota tra le insopportabili baraonde festaiole) di bambini in Piazza Nuova, io passeggio solitario nel breve tratto di strada che va da piazza della Peschiera alla ‘Macera Noa’ non più ravvisabile (come più non si ravvisa la sovrastante ‘Roccia del Gufo - anfratto benedetto per solitarie effusioni amorose), e che, dopo Ponte secondo, scorre come un ruscello d’asfalto che la Lacciara antica, già arida terra di semine e pascoli, ora folta macchia riparo  a stuoli di cinghiali, sventra, e permea nel seno profondo tra due folti verdi ormai quasi foreste. E, fra un saluto e l’altro ai rari volti antichi e nuovi incrociati, come me promeneurs ma non, alla Rousseau, solitaires, o alla Novalis Wanderer ma non pellegrini a  Sais, o alla Heine reisende ma non allo Harz, o alla Hӧlderlin viatori ma non  viandanti che ascoltano l’essere’, penso e penso, rammento e rammento.

   L’antico leccio della mia infanzia sta, immortale, ancora lì, fra i due ponticelli indistruttibili di pietra dura splendidamente innalzati da mastri antichi alla foggia classica e sovrastanti gli ormai invisibili – le erbacce li soffocano - torrentelli della Scentella e della Nocchia che a valle si riuniscono per confluire nel fosso del Sesera e poi nel Turano; il leccio sta, solenne più di un monumento, pronto ad affrontare un altro tragico secolo, quello che i mille profeti di sventura (s’è mai visto un profeta che non sia di sventura? Non son le sventure gli eventi più certi e sicuri da prevedere? E i nuovi aruspici lo sanno. E se ne impinguano, e di nascosto ridono: Catone non si meraviglierebbe più “quod non rideret haruspex harupicem cun vidisset”). Sta il leccio antico.  Alla sua ombra nei pomeriggi affocati (ben più di adesso, nella mia memoria, affocati), nell’ora che il gran satiro Pan riposa e le sue greggi ammusano negli stazzi fra nenie infinite di cicale, ranocchie, merli acquaroli, noi bambini settenni-decenni ci si dava convegno per giocare ai primi giochi di carte e di sesso, a dis-educarci al quale pensava, con volgare maestria, un appena adolescente sfrontatissimo D.

    Nella mia memoria due sono le ultime (sarei presto partito appena undicenne per il crudele esilio) immagini del leccio antico: nella prima esso è attorniato da camion tedeschi mimetizzati, quasi sepolti, da foreste di rami verdi (una shakespeariana foresta di  Birnam in miniatura  in attesa di muoversi non  verso la vittoria su un Macbeth assassino ed usurpatore ma verso un disastroso destino) in attesa dell’ordine di ritirata, che sarebbe giunto nel primo pomeriggio del 4 giugno allorché la radio avrebbe annunciato l’ingresso dei ‘liberatori’ a Roma mentre i ragazzi della Compagnia del giovane capitano umanista e artista Stopfler danzeranno con  la gioventù del luogo, e un silenzio di morte scenderà tutto intorno, e un brivido correrà per l’aria, e fiumi di lacrime scorreranno dall’una e dall’altra parte, e baci e abbracci saluteranno la partenza dei ragazzi della Hitler Jugend che mai più rivedranno le loro case.

   Nella seconda immagine è una grossa serpe rospara che ingolla lentamente, sotto il leccio, come il protagonista de Le veglie di Neri di Renato Fucini alias Neri Tanfucio, il suo rospo quotidiano.

   Due immagini non esaltanti davvero. Tornerò al leccio fra i due ponticelli a evocarne di migliori.

*

   Di Antonio Pedrotti compositore, direttore, arrangiatore (soprattutto di cori popolari e di montagna), discepolo prediletto di Ottorino Respighi, a lungo direttore del Conservatorio ‘Haydn’ di Trento e Bolzano, già, spero esaurientemente, dissi in questo Diario. Dissi di una lettera assali polemica che Pedrotti mi indirizzò all’inizio degli Anni Sessanta in seguito all’attacco che ricevetti dal giornale di sinistra genovese ‘Il Lavoro Nuovo’ per la penna di un tal Marcolfo (pseudonimo assai significativo), risultatomi poi un collega del Liceo Classico Andrea Doria di Genova, per una mia presa di posizione non troppo allineata e ‘ortodossa’ nei confronti di una sorta di decreto dell’allora ministro democristiano dell’Istruzione Gui che invitava a dire, nelle scuole,  della guerra civile, delle violenze e dei morti dell’una e dell’altra parte. in maniera che a me, che l’anarchia non solo mentale ho nel sangue come un DNA, non garbava, per il rispetto che ritengo si debba a chiunque, vincitore o vinto, sia morto per una idea, giusta o sbagliata si ritenga sia. Né me la sentivo di dire i miei alunni, orfani chi dell’una chi dell’altra parte, figli di eroi gli uni, figli di buona donna gli altri. L’attacco del giornale, che concludeva con la richiesta della mi messa al bando dalla scuola, si basava su una anonima denuncia di uno dei miei alunni di un noto Liceo “bene” privato, nel quale insegnavo filosofia e storia, un giovanotto assai mediocre di una famiglia ben nota a Genova, proveniente da una bocciatura al Nautico, assolutamente incapace di capire la mia serena e ragionata posizione e solo spinto da livore di parte. L’accusa del giornale venne ripresa e pubblicizzata dell’Espresso procurandomi non pochi attacchi di parte e preoccupando molti miei amici di sinistra e di destra d’Italia e d’Europa. Io naturalmente non risposi singolarmente e molto democraticamente le mie argomentazioni non furono riportate dai giornali accusatori. Solo ad Antonio Pedrotti risposi, un musicista che stimavo e sui cui testi di armonia e contrappunto mi ero formato. Lui mi rispose, ci chiarimmo e tutto finì come doveva finire. Chi volle capire capì, e la polemica ben presto si spense.    

   Ma perché torno a dire oggi di Pedrotti? Per ben altro motivo. Perché, appena risintonizzati per l’ennesima volta i canali televisivi, è per fortuna ricomparso Rai 5 nel momento in cui trasmetteva una esibizione all’aperto del ‘Coro Cima d’Oro Valle di Ledro’, a me tanto cara, il cui programma iniziava con l’‘Inno al Trentino’ di Pedrotti appunto, eseguito nello scenario che non dirò mozzafiato per non adeguarmi ai linguaggi abusati, quelli delle quattro parole quattro, della maggioranza dei presentatori radiotelevisivi, ma sublime sì, da rasentare il mistico. Dentro di me le voci dei cantanti amatoriali riecheggiavano come per quelle valli e quei monti, mi sentivo parte del paesaggio, del piccolo lago, dei prati verdi e delle montagne che lo contornano fino al Garda. E in spirito discendevo fino a Gardone, fino al Sacrario del Vittoriale degli Italiani, a recare a Gabri (secondo me con Scriabin, ognuno dal suo versante, il più grande celebratore, in ogni sua opera letteraria e politica - la Musica è uno dei fondamenti e dei perni  della utopica e avveniristica Costituzione fiumana, la Carta del Carnaro - del potere educativo ed umanizzante dell’arte di Euterpe) qualcuno degli echi che dentro la mia anima dilatata aveva avuto quel concerto a cappella di sole voci virili, l’espressione corale da me, nei suoi inizi non solo ma  fin nei suoi più recenti discutibili esiti, prediletta.   

*

   Fra le mie scoperte musicali di questi giorni quella di Nicola Antonio Manfroce (1791-1812) è certo la più rilevante. Di questo ragazzo (perché di un ragazzo si tratta, morto appena ventunenne – e poi dicono di Mozart! –) seguo su rai5 Ecuba, la più importante delle due o tre Opere che ebbe tempo di scrivere. In essa trovo condensati i momenti più interessanti del barocco, del classicismo, del pre-romanticismo. Un vero compendio di musica tradizionale e nuova e futura, ove chi voglia avverte, in un discorso compatto e profondo, i tratti fondamentali della rivoluzione musicale in atto. Coetaneo di Rossini - nasce appena un anno prima -, ne anticipa molti aspetti, e per il pesarese fu vera fortuna che il poco più che adolescente musicista di Palmi scomparisse così precocemente: lo avrebbe reso in buona parte pleonastico. Le vicende drammatiche della seconda moglie di Priamo, che al marito, favorevole all’amore tra la figliola prediletta Polissena ed Achille, l’uccisore di Ettore, nella speranza che l’evento favorisca il termine della guerra, si oppone con ogni mezzo senza riuscire ad impedirlo (nel frattempo l’esercito greco irrompe e rapisce Polissena) trovano nella musica ‘nuova’ di Manfroce una  espressione assai convincente. Provo a immaginare quale rivoluzione avrebbe subito nell’ottocento italiano non solo l’Opera se anche lui avesse vissuto settantacinque. Ma come factum infectum fieri nequit, così in non ancor fatto fatto. Infinite sono le vie di Euterpe.      

   *

   Dopo Ibsen Rai5 dedica il ciclo drammatico pomeridiano ad August Strindberg, l’Ibsen svedese, che ebbe sempre col collega, nonostante la differenza di età, un rapporto a distanza proficuamente dialettico, ma fatto sostanzialmente dello stesso armamentario: la critica feroce agli usi e ai costumi del tempo, in campo politico, economico, religioso morale estetico. Bersaglio comune la famiglia, il rapporto fra i coniugi, il conflitto di generazioni, l’ipocrisia, il tradimento eccetera eccetera. In sostanza roba assai monotona per un lettore-spettatore di oggi. Non sto smitizzando: ma all’esagerato umor nero nordico non mi sono mai troppo adattato. Ad esso preferisco persino il nichilismo pirandelliano, al quale almeno non è alieno qualche raggio di sole mediterraneo. Ma non mi posso troppo sbilanciare: immagino che molto del valore e del successo della drammaturgia di ambedue sia dovuto alla rispettiva lingua il cui grado di livello di ricchezza e stile non sono in grado, ignorandole, di valutare: E mancandomi quindi questo fondamentale strumento me ne devo star buono buono contenuto al quia degli esperti, i quali mi pare siano in maggioranza d’accordo nella valutazione dell’opera di ambedue. Ma io continuo a preferire i drammaturghi greci e latini, i Racine, i Voltaire, gli Schiller, i Goethe, i D’Annunzio, i Pirandello… e le loro opere a Casa di bambole, La casa delle Bambole, Pasqua, Danza di morte, Creditori, Temporale e via discorrendo. Ma a parte queste osservazioni di principio, per il resto non ho che da lodare l’iniziativa rai, che trasmette le opere in questione in allestimenti storici, per lo più in bianco e nero, le cui sceneggiature, scenografie, regie, cast sono affidati a nomi ormai classici nella storia del teatro italiano, ripescati dalle teche rai nelle immagini non troppo usurati. Ma molto ho dovuto soffrire a causa del pessimo suono, realizzato evidentemente con strumenti comprensibilmente a quei tempi inadeguati, ora troppo forte e rimbombante ora non percepibile nei piano e nei pianissimo, nei forte e nei fortissimo e in tutte le loro sfumature. Non sarebbe proprio possibile il restauro dei suoni?

*

   Questa sera al borgo, in barba all’epidemia, si beve e si mangia nella passeggiata gastronomica organizzata dalla Pro Loco. Ma non si discute e non si canta.

   La prima passeggiata la inventai io nella cornice del Convegno internazionale (il primo dei diciannove che sarebbero seguiti negli anni) organizzato dalla mia ‘Associazione Culturale di Varia Umanità e Musica Vivarium’ nel 1989, dal Gruppo vocale polifonico ad essa collegato, col patrocinio del  Comune e della Regione adeguatamente nei loro organi rappresentati. Il Convegno era dedicato al tema: “l’Educazione estetica oggi”, come conclusione del corso accademico dedicato allo stesso argomento. Vi parteciparono Professori e studiosi provenienti da ogni parte del mondo, che ne restarono talmente colpiti da serbarne vivissima nostalgica memoria. Erano presenti anche due colleghe di una università dell’Ucraina, che non avrebbero mai immaginato lo scempio anche estetico che una guerra avrebbe procurato al suo paese e non solo. L’eco che l’iniziativa ebbe nella stampa di ogni colore fu vasta e il compiano Livio Jannattoni ne prese spunto per uno dei suoi famosi articoli cultural gastronomici su Repubblica. E sì, rimpiango quei tempi. Ora il mio borgo rivive solo l’aspetto mangereccio dell’evento. E qualcosa pur è. Ma quanto Mi manca l’anima!  

__________________  

   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 
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