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Lorenzo Fortunati: "Futuro in Arbėria: visioni di donne".

Post n°1171 pubblicato il 12 Luglio 2023 da giuliosforza

 

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   Futuro in Arbëria: visioni di donne. Un originalissimo libro, già un capolavoro nel suo genere, di Lorenzo Fortunati, che mi pregio di avere tra i miei più intelligenti, attenti e affezionati ex allievi.

   Tra i pochi meriti che mi compiaccio d’aver acquisito nella mia lunga vita di ricerca e di insegnamento e che non possono non essermi riconosciuti, uno ve n’è incontestabile: quello d’aver, nei vari incontri da me organizzati, accademici, para accademici o semplicemente ludici, facilitato tanti innamoramenti, un cospicuo numero di fidanzamenti, pochi ma felici e fecondi matrimoni tutt’ora, come si dice, resistenti: cosa rara in questi tempi di universale precarietà. Da uno di questi sono nati due splendide creature, Auro ed Eloisa, ai quali e a me (davvero una bella sorpresa, nonché immeritato onore) è dedicato il magnifico volume saggistico-fotografico  di etnoantropologia pedagogica di cui voglio parlare. Autore ne è il padre di Auro e di Eloisa, Lorenzo Fortunati, con me laureatosi, affermato professionista cibernetico e fotografo provetto, sposo … fortunato (mai nomen fu più omen) di Susanna Esposito, anche lei ex allieva, direttrice d’orchestra, compositrice e didatta. È davvero il caso di intonarli questi versetti parafrasati della liturgia natalizia: oh vere beati Auro et Eloisa, qui tales ac tantos meruerunt habere parentes; e oh vere beatus magister qui tales ac tantos meruit  habere discipulos. Ora capisco la dedica: di Auro ed Eloisa sono il nonno spirituale, e la cosa mi riempie di gioia e di orgoglio. Galeotta del primo bacio (per allora solo spirituale, quello che a tutti gli altri prelude ma il solo che immagino in eterno resti) di Susanna e Lorenzo fu una giornata uggiosa e piovosa. Mentre il grosso del gruppo visitava il Sacro Speco benedettino di Subiaco, io e Susanna s’aspettava in macchina nel piazzale ai piedi della scalinata che conduce al santuario, mentre un bel giovane dalla lunga capigliatura alla nazzarena attendeva solitario e pensoso sotto la sporgenza di una roccia. Chi è quel giovane?, mi chiese la ‘calabresella’.  Glielo dissi, quel nome, e scoppiò non la scintilla, ma l’incendio.

   Dopo un discreto periodo di fidanzamento Susanna e Lorenzo convolarono, me testimone (con qualche resistenza, il ruolo di testimone di nozze non addicendomisi, per motivi che non starò qui pubblicamente a confessare) a suggestive nozze in un’antica chiesa di Tarquinia che si confonde fra le mille memorie etrusche di quella città, per poi andare a festeggiare inter pocula all’Argentario, al cospetto di un’Isola del Giglio ben visibile nella notte chiara, col relitto della Costa Concordia ancora non rimosso.

   Ben presto vide la luce Auro, poco dopo seguito da Eloisa, nomi evocativi che non hanno bisogno di commenti, soprattutto Eloisa, che fece me subito pensare alla Nouvelle Éloïse del mio carissimo Jean-Jacques. E mi sentii subito un Abelardo rinato nonno!

   Ora Auro e la sorellina sono già grandicelli e il papà Lorenzo può dedicarsi con più agio alla sua grande passione ormai predominante: la fotografia. Memore della lezione nicciano-dannunziana, essere la vita senza Musica, e senza Arte in generale (uniche a possedere una sorta di categoria ‘trascendentale cinestesica), priva di senso, egli nell’arte fotografica ha individuato il suo particolare modo di ‘sforzare il mondo a esistere”, conferendo per essa al mondo significato. Ed è così che in una delle lunghe permanenze in terra di Calabria, a Terranova di Sibari per la precisione, venuto a conoscenza delle comunità di cultura albanese in Calabria da secoli presenti, e oltretutto spinto dall’interesse etno-antropologico-pedagogico in lui sempre vivo, decise di scriverne in un libro che è insieme pensiero poetante e poesia visiva pensante: così nacque  il volume di grande formato che è insieme cólto saggio e album fotografico, dal titolo Futuro in Arbëria: visioni di donne (129 pagine di testi e immagini, più 75 di sole immagini a tutta pagina), a cui sono felicissimo di dedicare il post 1066 di Dis-Incanti, ai quali rimando per una presentazione più completa, limitandomi qui ad anticipare la quarta di copertina ove Lorenzo, accompagnando il testo con una bellissima foto di due donne in affettuoso atteggiamento (che purtroppo io non sono in grado di qui  riprodurre) e che mi ricordano tanto il quadro (1818) di Johann Friedrich Overbeck, Italia e Germania, al quale basterebbe solo cambiare il titolo in Italia e Albania, scrive:

   «Questo è il mio primo ricordo di un paese arbëresh: fra abiti, lingua e canti a me sconosciuti, d’un tratto non capivo più dove mi trovassi, o in quale tempo. Venti anni fa non sapevo niente di loro; ancora oggi li conoscono in pochi. Sono italo-albanesi antichi, sangue sparso della Diaspora, stabilitisi in Italia da quasi seicento anni. Pasolini li definì “un miracolo antropologico” grazie alla conservazione di riti, costumi e lingua.

   In queste pagine ho raccolto microbiografie e scolpito ritratti di donne arbëreshë, dedite a tener viva la loro cultura, oggi marcatamente femminile. Con la potenza di piccole azioni quotidiane, senza rumore, contribuiscono all’emergere di nuove ragioni di esistere per i loro paesi fiaccati dallo spopolamento. Alcuni considerano queste donne come ultime testimoni di un popolo, ma preferisco vederle come le prime di una nuova fase storica.

   La loro vicenda ci riguarda tutti. I paesi arbëreshë offrono ancora vie diverse di intendere convivialità, ospitalità e vita: occasioni preziose in un tempo di appiattimento. Il patrimonio culturale che rigenerano può diventare bene comune, stimolare innovazione sociale. Perché non si limitano a “riscoprirlo” ma lo introducono nella loro vita quotidiana. Così ci consentono, conoscendole, di entrare in contatto con prospettive diverse attraverso cui leggere, anche criticamente, il come ci relazioniamo col mondo. Il confronto dialettico, non la stasi né la passività di fronte al cambiamento eterodiretto e alla sua retorica, è necessario al nostro cammino».

   Felix faustumque sit, Lorenzo!

 * 

 

 
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