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Dante e la Divina Commedia secondo Eric Auerbach

Post n°1115 pubblicato il 15 Marzo 2022 da giuliosforza

 

  

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   Voglio ora compiere un atto di giustizia riparatrice nei confronti di Erich Auerbach, che ho in un primo momento ingiustamente bistrattato, se non ingiuriato, su queste pagine. E lo faccio condividendo un articolo (che trovo in rete) pubblicato il  23 ottobre 2020 in Costellazioni da Valerio Cuccaroni, nel quale i meriti del critico e filologo tedesco sono ben evidenziati; e nel contempo compio un ultimo atto di omaggio a Dante per, lo spero, degnamente concludere le celebrazioni dell’Anniversario appena trascorso. Dall’articolo di Cuccaroni escono un Dante ed un critico alquanto originali. Mimesis è una ponderosa, opera e acuta se ne rivela la critica filologica auerbachiana. Nuovo essendo per me Auerbach nella veste di dantista, è con grande piacere che leggo e trascrivo, dopo aver ringraziato vivamente Autore.

“Mimesis di Erich Auerbach, attraverso lo studio della Divina Commedia, opera una critica di tipo filologico e filosofico: sottolinea l’importanza del rapporto esistente non solo tra i personaggi danteschi e l’epoca in cui vissero ma anche tra l’umanità e la storia universale.
   Successore di Leo Spitzer, in qualità di professore di romanistica all’università di Marburgo, tra il 1942 e il 1945 Erich Auerbach scrisse Mimesis, il suo ciclopico studio sul Realismo nella letteratura occidentale pubblicato nel 1946. Auerbach si trovava a Instabul, dove si era rifugiato nel 1936, in fuga dalla Germania nazista. Per questa sua origine, influenzata dalla situazione storica in cui fu concepita, l’importanza di Mimesis non è solo letteraria ma, più in generale, culturale e politicaMimesis è un’opera che mira, subito dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, a ricostituire un comune orizzonte di senso nell’Europa lacerata e devastata dal conflitto, indagandone le origini e gli sviluppi filosofici e letterari in rapporto alla rappresentazione della realtà.

   Che rapporto può mai esserci tra filologia e politica, soprattutto in un «critico-scienziato», per usare la definizione di Anceschi, come Auerbach? Alla sua uscita il legame di Mimesis con l’epoca in cui fu composto non sfuggì ai contemporanei: a chi gli obiettava che Mimesis fosse troppo condizionata dal presente, Auerbach rispose rivendicando la sua peculiare posizione nel corso degli eventi, sia per la sua formazione e il suo metodo, profondamente tedeschi, romantici ed hegeliani, sia per il legame con la storia del suo tempo: «È meglio essere legati al tempo coscientemente piuttosto che inconsapevolmente. In molti scritti eruditi s’incontra un genere di obbiettività in cui, senza che l’autore ne abbia la minima coscienza, da ogni parola, da ogni fiore retorico, da ogni giro di frase parlano moderni giudizi e pregiudizi (spesso neppure di oggi, bensì di ieri e di ierlaltro). Mimesis è coscientemente un libro scritto da una determinata persona, in una determinata situazione, all’inizio degli anni Quaranta». Questo sia detto per chi ancora si illude che nelle valutazioni, in particolare estetiche, sia possibile prescindere dalla propria soggettività e dall’epoca in cui si vive.

   Auerbach rivendica le ascendenze. Dal romanticismo riprende il senso della storia e la consapevolezza della storicità di ogni opera, che stanno alla base delle conquiste della filologia e della linguistica ottocentesche. Il movimento romantico creò una nuova visione della storia. Nell’antichità la storia era vista come un ciclo che inizia con l’età dell’oro prosegue con la decadenza e si conclude con un ritorno all’età dell’oro, quale si configurava nella IV Ecloga di Virgilio e nel libro VI dell’Eneide. Durante l’Illuminismo si era diffusa la visione della storia come progresso dalla barbarie all’età dei lumi, così come lo illustra Voltaire nella sua Filosofia della storia (1765). I romantici cercarono invece nella storia le origini delle lingue, quindi delle nazioni e dei popoli, risalendo dal particolare all’universale, senza escludere nessuna epoca, in quanto tutte si susseguono in un piano universale, come afferma Johann Gottlieb Fichte nella sua opera del 1806 Tratti fondamentali dell’epoca presente:

«È chiaro pertanto che, per caratterizzare correttamente sia pure una singola epoca e, se ne ha intenzione, il filosofo deve aver compreso semplicemente a priori e penetrato nell’intimo l’intero tempo e tutte le sue possibili epoche. Questa comprensione dell’intero tempo ne presuppone, al pari di ogni comprensione filosofica, un concetto unitario, il concetto di un compimento predeterminato quantunque progressivo di questo tempo, nel quale ogni successivo anello è condizionato da quello antecedente; o, volendo esprimere ciò più concisamente e nella maniera usuale, essa presuppone un piano universale, di cui si possa chiaramente intendere l’unità e da cui si possano dedurre appieno e vedere in maniera distinta le epoche capitali della vita umana sulla terra, così nella loro origine come nella loro reciproca connessione».

   Per Georg Wilhelm Friedrich Hegel il piano universale consiste nell’affermazione del Weltgeist, lo Spirito del mondo che si incarna nel Volkgeist, lo Spirito dei popoli, che a sua volta condiziona ogni individuo, come afferma nelle sue Lezioni sulla filosofia della storia (1837):

   «L’individuo è figlio del suo popolo, del suo mondo, di cui egli non fa altro che manifestare la sostanza, sebbene in una forma peculiare. Il singolo può ben gonfiarsi quanto vuole, ma non potrà mai uscire dal proprio tempo, come non può uscire dalla propria pelle».

   È questa visione romantica, idealistica ed hegeliana dell’individuo nella storia che conduce Auerbach a esaltare Dante Alighieri per la sua capacità di dare consistenza ai personaggi del suo poema, trasformandoli in figure che, conservando i propri caratteri individuali, allo stesso tempo rinviano a un piano universale, collocano la storia nell’eternità, in quel «fenomeno stupefacente, paradossale» che è il realismo dantesco, secondo la definizione che il filologo dà nel saggio Farinata e Cavalcante di Mimesis, punto d’arrivo di tutto il pensiero dell’autore sulla Commedia.

   Nei versi 22-78 del X canto dellInferno Auerbach applica il suo close reading, la sua lettura ravvicinata. Il realismo dantesco è paradossale, rileva Auerbach sulla scorta delle Lezioni di estetica di Hegel, perché i personaggi dell’Inferno si trovano in una «esistenza immutabile», non sono persone in carne e ossa, ma sono anime in attesa di ricongiungersi con i loro corpi, fissati per l’eternità nel loro peccato. Lo stile illustre di Dante, afferma Auerbach, «consiste per l’appunto nella classificazione del caratteristico individuale, talvolta orribile, repellente, grottesco e triviale, entro la dignità del giudizio divino che trascende ogni più eccelsa statura umana». Questo perché la concezione della storia che ha Dante non è quella comune. Ciò che alla gente appare come un susseguirsi di fatti, di avvenimenti sulla terra, per Dante è «in continua correlazione con un piano divino, che è la mèta a cui continuamente volge l’accadere umano», sostiene Auerbach, perché «ogni fenomeno terrestre, tramite un gran numero di fili verticali, è immediatamente riferito al piano di salvezza della provvidenza».

   Richiamando le analisi compiute nel saggio Figura

 Il compimento «di fronte alla figura è forma perfectior» , l’aldilà dantesco è compimento, in quanto mondo eterno, in cui la figura, il personaggio storico, si invera. Nell’allegoria invece la figura non ha un’esistenza autonoma ma esiste solo in quanto richiama il suo corrispondente sul piano divino: si pensi alle allegorie dei vizi scolpite sul muro che cinge il giardino nel Roman de la rose o nella Commedia stessa il carro che appare alla fine del Purgatorio.

   Dopo avere analizzato l’episodio di Farinata e Cavalcanti dal punto di vista stilistico, Auerbach arriva alle sue conclusioni sul significato figurale degli avvenimenti nella Commedia. Innanzitutto, Auerbach parafrasa e riassume l’episodio, quindi sottolinea che «vi è una condensazione d’avvenimenti maggiore che in qualunque altro dei luoghi», cioè in qualunque altro dei testi della letteratura classica e alto-medioevale da lui esaminati fino a quel momento. Auerbach nota che non c’è unità di azione nell’episodio, ma l’unità è data dal luogo, il paesaggio fisico-morale del cerchio degli eretici e dei miscredenti, in cui mutano gli interlocutori di Dante, ma «nonostante questo rapido mutare degli episodi», puntualizza il filologo, «non si può parlare di una connessione sintattica paratattica», perché ogni scena presenta molti legami sintattici e, nella forte contrapposizione tra l’atteggiamento fiero di Farinata e preoccupato di Cavalcante, «vengono impiegate […] forme d’espressione molteplici ed efficaci, che sono da valutarsi piuttosto come commutazione che come paratassi».

In altre parole, gli atti dei personaggi non sono disposti rigorosamente e in modo uguale come avviene per esempio nella Chanson de Roland analizzata nel saggio Nomina di Orlando a capo della retroguardia, «bensì si staccano dal fondo nell’elaborata singolarità del tono e stanno in reciproco antagonismo»

   “O Tosco che per la città del foco
   vivo ten vai così parlando onesto,
   piacciati di restare in questo loco.

   La tua loquela ti fa manifesto
   di quella nobil patrïa natio,
   a la qual forse fui troppo molesto

   Altrettanto originale è la posizione della sequenza narrativa, che non introduce ma segue la sequenza dialogica con cui Farinata irrompe nella scena.

   “Subitamente questo suono uscìo
   d’una de l’arche; però m’accostai,
   temendo, un poco più al duca mio”.

   Questo modo di presentare il personaggio, questo «irrompere così gagliardo e prepotente d’un altro mondo topico, morale, psicologico ed estetico», rispetto a quello rappresentato dalla coppia Dante-Virgilio, non si giustappone nella trama ma si contrappone nell’intreccio. Il secondo cambiamento si ha al verso 52, con le parole «Allor surse», con cui si annuncia l’irrompere sulla scena di Cavalcante.

   “Allor surse a la vista scoperchiata
   un’ombra, lungo questa, infino al mento:
   credo che s’era in ginocchie levata”.

   Di nuovo Auerbach contestualizza l’espressione nel panorama dell’intertestualità medioevale e confessa di non sapere indicare un altro testo della letteratura predantesca, italiana o francese antica, in cui il termine «allora» si stagli in modo così netto. L’analogo, ma più tenue, «es voz» del verso 413 della Chanson de Roland conduce a rintracciare l’antecedente nel latino «ecce», o meglio «et ecce», che si trova nelle lettere di Cicerone, in Apuleio, piuttosto che in Plauto, quindi in opere alte piuttosto che basse, ma soprattutto si trova nella Vulgata, nella Bibbia tradotta in latino da Gerolamo. Per non scivolare su eccessi di determinismo, Auerbach precisa che non intende affermare che Dante abbia introdotto nello stile illustre l’espressione, attingendola dalla Bibbia, ma che all’epoca in cui usò quel drammatico «allora» non era così naturale come oggi e Dante «l’usò più radicalmente di chiunque altro prima di lui nel Medioevo».

   Si potrebbe proseguire oltre ma l’esemplificazione è sufficiente per comprendere il metodo di Auerbach che rileva come Lo stile illustre è usato in un contesto basso, come l’Inferno, e serve a rappresentare con potente realismo figurale personaggi che, pur essendo morti, assumono una straordinaria vitalità, perché Dante immerge «il mondo del fare e del patire, e più precisamente delle azioni e dei destini individuali» nell’esistenza immutabile degli abitatori dei tre regni dell’aldilà, secondo l’interpretazione di Hegel nelle sue Lezioni di estetica ripresa da Auerbach, che se ne serve per concludere che «in conseguenza delle speciali condizioni del compimento di sé nell’aldilà, la persona umana si afferma ancor più potente, più concreta e singolare che nell’antica poesia». Esprimendo con tanta potenza e realtà l’indistruttibilità cristiana dell’uomo totale, Dante, secondo Auerbach, fu il primo umanista. Nel caso specifico, analizzando i mezzi stilistici, Auerbach arriva a concludere che Dante dà alla sua narrazione non un andamento paratattico ma «un movimento incessante» presente in tutta l’opera. Questa ricchezza gli consente di mescolare gli stili, sul modello della lingua ebraico-cristiana presente nella Bibbia, con cui tratta di soggetti infimi in stile sublime, in modo inaudito per gli antichi, persino nel punto più alto del poema, nel Paradiso, dove troviamo il verso «e lascia pur grattar dov’è la rogna»

 _________________

  Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et        absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

  Gelobt seist Du jederzeit, Frau Musika!

 

 

 
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