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Parini, 'La vita rustica'. 'Aureliano in Palmira', 'Somnium Scipionis'

Post n°1165 pubblicato il 22 Maggio 2023 da giuliosforza

 

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   Una delle fantasie in cui, da quel vanesio che sono, mi è piaciuto sempre cullarmi.  

   In una delle mie precedenti vite fui anche Parini. E fra tutte le mie opere trasudanti disprezzo per il servilismo di ogni genere scrissi anche l’ode La vita rustica, ancora un pochino barocca nello stile ma pienamente neoclassica nei contenuti, nella quale lo spirito del Giorno già tutto si respira.

   Rinato in un ‘secol’ ben più ‘venditore’ mi trovo ancora maggiormente a disagio, avendo mantenuto lo sprezzo superbo per il baratto volgare della mia dignità, e di quel poco di ingegno che mi ritrovo, col “mammona d’iniquità”. Ancora amo impunito ripetere:

   Me non nato a percotere
   Le dure illustri porte
   Nudo accorrà, ma libero
   Il regno de la morte.
   No, ricchezza né onore
   Con frode o con viltà
   Il secol venditore
   Mercar non mi vedrà.

   Dovessi ancora per punizione rinascere (Platone e Buddha intercedano perché ciò non sia) proseguirei con la stessa protervia a negare ogni ‘genuflessioncella d’uso”, quella che il fiero allobrogo Vittorio Alfieri rimproverava al mite Pierino Trapassi, alias Metastasio.

*
 
Seguo con vero piacere su rai 5 Aureliano in Palmira, Rossini 1810.

La figura di Aureliano mi piace, non solo per la riunificazione dell’Impero da lui nel suo breve regno operata, per la costruzione delle mura di Roma a lui intitolate e in buona parte ancora resistenti, e per tante altre belle cose. Ma anche, e direi soprattutto, per il tentativo di introdurre e diffondere nell’Impero il culto del Sol invictus zarathustriano. Il sole splende visibilmente su tutti, non si vela dietro alcun mistero, tutto illumina e scalda, nemmeno i ciechi possono negarne l’esistenza, solo un folle può negarne l’evidenza. Nel culto del Sol invictus tutti i popoli della terra potrebbero ritrovarsi, non esisterebbero guerre di religione, nelle quali spesso il Dio metafisico combatte contro se stesso essendo lo stesso Dio venerato dai due o più popoli contendenti. Quando Costantino riconoscerà il Cristianesimo, meglio il cattolicesimo niceno-costantinopolitano nel quale ben poco resta del Cristianesimo cristico, come religione dell’Impero, non realizzerà una unificazione, metterà anzi le basi per  tutte le divisioni, madri, cause prime o concause di tutte le guerre.

   Tutto ciò suona a molte orecchie blasfemo. E mi tocca tacere.  Mi tocca praticare il culto del Sol Invictus nella cella segreta della mia anima solitaria.

 * 

   Non sarà un ciceroniano ‘Somnium Scipionis’. Ma è sicuramente più divertente. Non vi si danno platonismi cosmismi stoicismi ‘et similia’, ogni metafisincheria è da esso bandita. Forse solo un analista junghiano potrebbe trovarvi qualche spunto per le sue riflessioni. Per questo tento di raccontarvelo, e raccontarmelo.

   Dicono che sia brutto segno per un vegliardo dormire sognare o solo sonnecchiare troppo spesso. Perché brutto segno? Potrebbe semplicemente trattarsi di un allenamento in prospettiva dell’imminente sonno eterno. A me di recente questo avviene, sempre più di frequente avviene, nella breve siesta pomeridiana o la sera davanti alla TV in attesa dell’assunzione degli ultimi farmaci; avviene di prender sonno e sognare, e di un vero dormire e sognare si tratta, non di un semplice dormivegliare. E quasi mai tali sogni sono incubi, come in maggioranza quelli della notte fonda o della primissima alba. Anzi sono di una luminosità e di una vivacità senza pari, e colmi di eventi. E loro assoluta caratteristica è che sono quasi tutti ambientati nel mio borgo, un borgo che cambia magari scenografia ma stranamente è sempre lo stesso, sempre diverso e sempre uguale, sempre diverso perché sempre uguale.

   Abitato di norma da un centinaio di vecchi e da una ventina di donne e uomini maturi (di giovani nemmeno l’ombra, se non in qualche fine settimana e durante un mese o due dell’estate, quando è gradevole abbandonare le afe di Roma o di Tivoli per respirare al fresco dei nostri 757 metri sul livello del mare al cospetto delle prime montagne abruzzesi) il mio natio borgo selvaggio è lo scenario ideale per i sogni. E anche per i tre quarti di questo sogno postprandiale lo è.

   Nel sogno sono sdoppiato fisicamente (non m’era mai avventuo: m’ero sì una volta nel sogno sdoppiato, ma in una entità viva e una morta, avevo partecipato al mio funerale e assistito divertito e disincantato alle scene esilaranti che si svolgevano durante il mio corteo funebre fra lacrime sospiri dicerie  pettegolezzi e mal represse risa); in questo caso sono l’io narrante e osservante e l’io narrato e osservato perso nella fitta calca dell’affollatissima misteriosa scena alla Hieronymus Bosch ma  senza oscenità diavoli inferni e paradisi. E la cosa infastidisce non poco il primo io, che parecchio se ne rode. Vorrebbe che tutte le attenzioni fossero per lui, e invece di lui e della novità dello sdoppiamento nessuno sembra accorgersi. E questa dello sdoppiamento non è la sola originalità del film onirico di cui sono nel contempo regista protagonista e anonima comparsa. Mentre scrivo ho ancora la fantasia stracolma delle fantasmagoriche immagini che l’hanno attraversato, distinte in due diversi quadri, uno più bello dell’altro. Nel primo quadro le zone centrali e quella  più bassa del paesello detta ‘Palaterra’ hanno riacquistato tutta la vivacità dell’epoca della mia infanzia: da ogni casa, da ogni tugurio, da ogni rustico gallinaio addossato a ogni casa, da ogni  stalla, sotto un sole nel suo pieno risplendere escono  e si mescolano non in un sabba infernale ma in un tripudio celestiale vivi e morti, piccoli e grandi, vecchi arzilli e curiosi, monache  preti soldati poliziotti carabinieri galline cani gatti maiali asini cavalli muli mucche pecore capre e turbe di contadini cantanti e già semi avvinazzati, come quelli della mia infanzia diretti, dopo la faticosa giornata, all’osteria del Grottino a raccontar di guerre e a cantarne le canzoni in cori sempre più rumorosi e sgangherati man mano che il vinello di Angelo e Filomena diminuisce nei boccali da un litro (tubo, alla romana) da mezzo litro (foglietta)  da un quarto (quartino). E da ogni parte canti nitriti belati muggiti guaiti miagolii cinguettii chicchirichì di galli di e coccodè di galline tutti insieme a formare una rumorosa orchestra da transavanguardia, e da ogni casa contadini muratori mugnai allevatori pastori vaccari tagliaboschi suore e qualche prete. e tutti a chieder nuove di me (del mio primo io); e ciurme di miei ex allievi d’università ridiventati giovani e adolescenti, precipiti, tra sgomitate e pericolosi sgambetti, tra canti e vezzi e scene d’amore innocenti, verso il ruscello della Fonte che scorre canterino a valle. E tutti a reclamar da me (l’invisibile o incurato io primo) un ‘Lied’ schubertiano e mahleriano o un discorso, e io (il secondo io) a schermirmi (quando mai passerebbe per la testa all’io primo di schermirsi?), e a sorridere più o meno verecondamente alle belle fanciulle ex allieve nel pieno del loro giovanile fulgore o tornate adolescenti o bambine innocenti, italiane e straniere, lusitane basche greche tedesche giunte da noi per l’Erasmus.

   Nel secondo quadro il sogno cambia scena. Si svolge a Roma nel mio studio salotto biblioteca bazar ove non è più spazio nemmeno per uno spillo. E Laura e un’amica e Jacopo Numa Leon a frugare in ogni angolo in ogni stipo in ogni cassetto in ogni scaffale in ogni cassapanca alla ricerca dei miei numerosissimi peluches grandi e piccoli (scimmie leoni serpenti cani gatti oche anatre pappagalli parlanti tartarughe… un vero zoo) e a pretendere l’impossibile impresa di tentar di montarli a piramide per adornarne il presepe, ché nel sogno è già Natale. Ed io a suonare sul piccolo organo-harmonium elettronico pastorali classiche e nenie popolari d’ogni paese.

   Ma a questo punto improvvisamente il sogno svanisce e mi desto a quell’altro complesso tragicomico sogno (“Tutto nel mondo è burla”, ‘Falstaff’) che chiamano vita. E tornano le diurne diuturne malinconie e nostalgie a dilacerarmi l’anima antica.

   __________________

  Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 
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