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Messaggi di Agosto 2018

19 Agosto. Stroncatura bernhardiana di Heidegger

Post n°990 pubblicato il 21 Agosto 2018 da giuliosforza

Post 911

19 Agosto 2018. 85esimo compleanno. Così all’alba su fb mi son beneaugurato, a mia volta beneagurando.

Cari  amici beneauguranti,

oggi, giornata particolare per me (non è un privilegio da poco poter gettare uno sguardo retrospettivo sulla propria vita dall’alto di un’età come la mia veneranda) mi sono donato, anche a vostro nome, l’Endimione di John Keats nell’edizione BUR bilingue (1988-2008) curata da Viola Papetti, inaspettatamente rinvenuto, con altri grandi classi inglesi francesi  tedeschi, sul modesto scaffale di una cartolibreria di provincia. Non ricordo se già lo possiedo e se l’ho già letto, ma poco conta. Mi avvicino al poema classico-romantico di uno degli autori che prediligo (sovente son meta del mio pellegrinaggio l’appartamento di Piazza di Spagna, oggi fondazione-museo keatsiano -shelleyano, ove nel 1821, a 26 anni morì di tisi, e il cimitero acattolico della Piramide Cestia ove è sepolto) con animo mai come oggi vergine, disponibile a farmi come Lui fecondare (“stuprare”, anzi, come da testo) da una Luna-Selene innamorata. Quando il poema uscì nel 1818 la canea concorde dei critici togati letteralmente s’avventò contro il giovane autore nel tentativo di sbranarlo, assicurando per lui il fallimento e profetizzando ed assicurando per la sua opera  vita breve, sì  da sconsigliare l’editore dal disperdere altro denaro per una eventuale ristampa. Come è noto l’auspicio di quei …veggenti si è realizzato e il nome del Novalis britannico dopo duecento anni è finito addirittura sul misero scaffale di una modesta cartolibreria abruzzese…

Il primo verso del poema, forse il più citato, recita: “A thing of beauty is a joy for ever”, che in genere viene tradotto, come qui, “una cosa bella è una gioia per sempre”. A me questa traduzione non piace. Nella mia poetica, che è poi quella dei miei Autori,  le cose non ‘son’ belle: sta all’arte, e alla vita come opera d’arte,  far belle’ le cose. E dunque il verso per me suona così: è l’’atto del far’ le cose belle, è la ‘creazione della bellezza’, l’unica gioia che dura per sempre. Questo  è  l’augurio  che mi faccio: poter continuare a tradurre ‘thing of beauty’ in ‘creazione di bellezza’,  per tutto il tempo che dalla Natura e dagli Dei mi sarà concesso; un augurio che estendo, carissimi amiche e amici, a voi in ringraziamento dei vostri, di auguri, che così tanto gradisco da auspicarmi di riceverne ancora per molti anni, addirittura, se permettete …per saecula saeculorum.

*

Lascio ancora una volta la mano alla feroce penna di  Bernhard l’iconoclasta. Dopo Stifter e Bruckner, questa volta tocca all’idolo Heidegger. Dedicato ai miei amici filosofi, filosofanti e filosofastri, me compreso (vedi Antichi Maestri, cit, pp. 60-65).

Naturalmente non ho bisogno di far notare come la divertente e feroce parodia fatta qui da Barnhard di Heidegger abbia ben poco a che fare con una critica filosofica seria. Sul piano filosofico essa ha ben  poco da dire: ai contenuti del pensiero heideggeriano non è fatto il minimo riferimento, il che non è concepibile per un pamphlettista serio. Ma una critica filosofica non è evidentemente nelle intenzioni dello scrittore di Heerlen ben consapevole delle proprie competenze, che prudentemente non intende oltrepassare. Perciò dopo anche il nostro,  non devoto e pedissequo, ma ragionato ossequio al Filosofo della Foresta Nera, godiamoci pure l’irrisione spassosa del Personaggio.

«In effetti Stifter mi ricorda continuamente Heidegger, quel ridicolo filisteo nazionalsocialista coi pantaloni alla zuava. Se Stifter, con incredibile sfrontatezza, ha annegato nel kitsch l’alta letteratura, Heidegger, il filosofo della Foresta Nera Heidegger, ha annegato nel kitsch la filosofia. Heidegger e Stifter, ciascuno per suo conto e a suo modo, hanno implacabilmente annegato nel kitsch letteratura e filosofia. Heidegger, sulle cui orme si sono mosse le generazioni della guerra e del dopoguerra, sommergendolo con stupide e disgustose tesi di dottorato quando ancor4a era in vita, Heidegger me lo vedo sempre seduto sulla panchina davanti a casa sua nella Foresta Nera accanto a sua moglie, la quale, nel suo perverso entusiasmo per i lavoro a maglia, lavora ininterrottamente per confezionargli le calze invernali con la lana che lei stessa ha tosato dalle loro pecore heideggeriane.. Heidegger non riesco a vederlo altrimenti che seduto sulla panca davanti a casa sua nella Foresta Nera, e accanto a lui vedo sua moglie che lo ha  completamente soggiogato per tutta la vita, e che a maglia gli lavorava tutte le calze, e all’uncinetto tutti i berretti, e gli infornava il pane, e gli tesseva le lenzuola, e gli confezionava personalmente persino i sandali. Heidegger era una mente inzuppata di kitsch, diceva Reger, esattamente come Stifter, eppure era assai più ridicolo ancora di Stifter, che era stato davvero una tragica apparizione, a differenza di Heidegger che è sempre stato soltanto comico, piccolo borghese come Stifter, altrettanto spaventosamente megalomane, un imbecille delle Prealpi, credo giusto quello che ci vuole per il minestrone della filosofia tedesca. Heidegger se lo sono pappato tutti a grandi cucchiaiate, con una fame da lupi, per decenni, come nessun altro, rimpinzando così i loro stomaci di germanisti e di filosofi tedeschi. Heidegger aveva un volto ordinario, non un volto dal quale trapelasse l’ingegno, era un essere del tutto sprovvisto di ingegno, assolutamente privo di fantasia, assolutamente privo di sensibilità, un ruminante della filosofia tipicamente tedesco, una vacca della filosofia gravida in permanenza, diceva Reger, che pascolava sui prati della filosofia tedesca e che per decenni ha lasciato cadere il suo lezioso sterco nella Foresta Nera. Heidegger era per così dire un fedifrago della filosofia, diceva Reger, uno che era riuscito a mettere nel sacco una intera generazione di studiosi tedeschi. Heidegger è un episodio rivoltante nella storia della filosofia tedesca, diceva ieri, Reger, un episodio di cui sono stati responsabili  e sono tuttora responsabili tutti gli uomini di cultura tedeschi. Oggi Heidegger non è stato ancora completamente svelato, la vacca heideggeriana è dimagrita, è vero, ma il latte heideggeriano viene ancora munto. La fotografia di Heidegger coi pantaloni alla zuava infeltriti davanti alla finta casamatta a Todtnauberg, mi è del resto rimasta in mente come una foto più che rivelatrice, il filisteo del pensiero, con il berretto nero della Foresta Nera in testa, testa in cui non ribolliva comunque nient’altro che l’imbecillità tedesca, così Reger. Quando per noi arriva la vecchiaia, di mode ne abbiamo viste tante, mode micidiali, tutte quelle mode micidiali  artistiche e filosofiche e di beni di consumo. Heidegger è un bell’esempio di come, di una moda filosofica che un giorno ha conquistato tutta al Germania, altro non rimane che qualche ridicola fotografia e qualche scritto ancora più ridicolo. Heidegger era un imbonitore della filosofia, uno che portava al mercato solo merce rubata, tutta la merce di Heidegger è di seconda mano, Heidegger era ed è il prototipo del pensatore per imitazione al quale mancava tutto, ma proprio tutto, per pensare con la propria testa. Il metodo di Heidegger consisteva nel ridurre senza alcun riguardo le grandi idee altrui alle proprie piccole idee, proprio così, Heidegger ha rimpicciolito ogni cosa grande in modo tale da ridurla alla portata dei tedeschi, mi capisce, alla portata dei tedeschi, diceva Reger. Heidegger è il piccolo borghese della filosofia tedesca che ha messo in testa alla filosofia tedesca il suo nero berretto da notte kitsch, che Heidegger, come è noto, portava sempre, in ogni occasione. Heidegger è il filosofo dei tedeschi in pantofole e berretto da notte, nient’altro che questo. Non so, diceva ieri Reger, ma ogni volta che penso a Stifter penso anche ad Heidegger e viceversa. Non è certo un caso, diceva Reger, che Heidegger, esattamente come Stifter, sia stato e sia tutt’ora il filosofo prediletto delle donne inacidite, e infatti, come le infermiere operose e le suore operose si cibano di Stifter, essendo Stifter, per così dire, la loro pietanza preferita, così, per gli stessi motivi, esse si cibano anche di Heidegger. Ancora oggi Heidegger è il filosofo prediletto del mondo femminile tedesco. Il filosofo delle donne, questo è Heidegger, il filosofo dell’ora di pranzo, particolarmente adatto all’appetito tedesco di filosofia, servito direttamente dalla padella dei dotti. Se le capita di recarsi a un ricevimento della piccola borghesia o anche della piccola borghesia semiaristocratica, è molto probabile che Heidegger le venga servito già prima dell’antipasto, lei non ha ancora tolto il cappotto che già le viene offerta una fettina di Heidegger, e non si è ancora seduto e già la padrona di casa è entrata portando Heidegger, per così dire, assieme allo sherry sul vassoio d’argento. Heidegger è un piatto forte della filosofia tedesca, e fa sempre un figurone, lo si può servire ovunque e a qualunque ora, diceva Reger, e in qualunque ambiente. Non conosco filosofo che sia oggi più declassato di lui, diceva Reger. Del resto per la filosofia  Heidegger è oggi fuori gioco, se ancora dieci anni fa era ritenuto un grande pensatore, ormai non è nient’altro che un fantasma il quale, per così dire, si aggira nei salotti pseudointellettuali durante i ricevimenti pseudointellettuali, sommando alla ipocrisia del tutto naturale tipica di quegli ambienti una ipocrisia artificiale. Anche Heidegger, come del resto Stifter, è un budino di letture, insapore ma facilmente digeribile, per l’anima tedesca  media. Con lo spirito filosofico Heidegger ha tanto poco a che fare quanto Stifter con la letteratura, in rapporto a filosofia e letteratura Heidegger e Stifter non valgono praticamente niente, anche se io colloco Stifter più in alto di Heidegger, che ho sempre trovato repellente, perché in Heidegger mi ha sempre disgustato tutto, non soltanto il berretto da notte in testa e i mutandoni invernali tessuti a mano e stesi sulla stufa che lui stesso si accendeva a Todtnauberg, non soltanto il suo bastone della Foresta Nera tagliato in casa, ma per l’appunto la sua filosofia della Foresta Nera fatta in casa, tutto in quest’uomo tragicomico mi ha sempre disgustato, tutto mi ha sempre profondamente ripugnato al solo pensiero; mi è bastato conoscere una riga di Heidegger per esserne disgustato, ma soltanto quando l’ho letto ho capito, diceva Reger; ho sempre avuto la sensazione che Heidegger fosse un ciarlatano, il quale per tutta la vita non ha fatto altro che sfruttare tutto quanto gli stava intorno, e sfruttando a destra e a manca si abbronzava sulla sua panchina di Todtnauberg: Se penso che anche persone estremamente intelligenti si sono fatte abbindolare da Heidegger e che persino una delle mie migliori amiche ha scritto una tesi di dottorato su Heidegger e che questa tesi l’ha anche scritta sul serio, mi viene ancora oggi il voltastomaco, Quel niente è senza fondamento è la cosa più ridicola, così Reger. Ma sui tedeschi fa colpo la vanagloria, diceva Reger, i tedeschi hanno una particolare  propensione, è questa una delle loro qualità più spiccate. E quanto agli austriaci, in tutte queste cose sono peggiori ancora. Ho visto una serie di fotografie che una fotografa di eccezionale talento ha fatto a Heidegger in quella sua aria da pingue ufficiale di stato maggiore in pensione che ha sempre avuto, diceva Reger, e un giorno gliele mostrerò; in quelle fotografie Heidegger scende dal letto, si rimette a letto, Heidegger dorme, si risveglia, indossa i mutandoni, infila i pedalini, beve un sorso di mosto, esce dalla casamatta e contempla l’orizzonte, intaglia il bastone, si mette il berretto, si toglie il berretto dalla testa, tiene il berretto in mano, divarica le gambe, alza la testa, china la testa, mette la mano destra nella sinistra di sua moglie, sua moglie mette la mano sinistra nella sua destra, cammina davanti a casa, cammina dietro  la casa, si dirige verso casa, si allontana da casa, legge, mangia prende qualche cucchiaiata di minestra, si taglia una fetta di pane (fatto in casa), apre un libro (scritto in casa), chiude un libro (scritto in casa), si china, si stiracchia, e così via, diceva Reger. Roba da vomitare. Se già i wagneriani sono insopportabili, figurarsi gli heideggeriani, diceva Reger. Ma Naturalmente Heidegger non può essere paragonato a Wagner, il quale lui sì, è stato un vero e proprio genio cui il concetto di genio si addice effettivamente più che a qualunque altro, mentre Heidegger è stato soltanto un misero serrafile della filosofia. Heidegger, questo è chiaro, è stato il filosofo tedesco più blandito del secolo, e nello stesso tempo il più insignificante del secolo. In pellegrinaggio andavano da Heidegger soprattutto quelli che confondono la filosofia con l’arte culinaria, quelli che pensano che la filosofia sia qualcosa di fritto, di cotto al forno, di bollito, il che rispecchia perfettamente il gusto tedesco. Heidegger teneva la sua corte a Todtnauberg e si faceva contemplare senza posa sul suo podio filosofico della Foresta nera come se fosse una vacca sacra. Persino il famoso e temuto direttore di una rivista della Germania del Nord si inginocchiò devotamente davanti a lui con la bocca aperta, quasi che, per così dire, aspettasse da Heidegger,, seduto sulla sua panca davanti a casa nella luce del tramonto, l’ostia dello spirito. Tutta questa gente andava in pellegrinaggio da Heidegger a Todtnauberg e si rendeva ridicola, diceva Reger. Andavano in pellegrinaggio, per cos’ dire, nella Foresta Nera della filosofia e salivano sul colle Santheidegger e si inginocchiavano davanti al loro idolo. Nella loro ottusità non potevano sapere che il loro idolo era, sul piano intellettuale, un fiasco assoluto. Non lo sospettavano neppure, diceva Reger. Il caso Heidegger è comunque un esempio molto istruttivo del culto dei tedeschi per i filosofi. Si attaccano sempre e soltanto a quelli sbagliati, diceva Reger,, a quelli che più gli convengono, a quelli più stupidi ed equivoci».

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Chàirete Dàimones!

Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 
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Alba al Frainile, "Ottetto delle dissonanze"

Post n°989 pubblicato il 12 Agosto 2018 da giuliosforza

Post 910

L’immenso noce che mi impedisce la vista della casa paterna e dei ruderi della Rocca Borghese che la sovrastano, e quello più piccolo (che piantai nel 1978 in concomitanza con la posa della prima pietra del mio rifugio che avrei voluto di pace e fu di guerra), i cui rami ora quasi entrano per la finestrella della mia cella come a darmi il buon giorno, oggi sono talmente immoti da parer scolpiti nell’aria del mattino (sono le sei e venti solari): non un alito di vento, non un canto d’uccelli fra i rami, preannuncio di una delle giornate più torride di questo solleone. Anche le noci, abbondanti  e polpose, stanno, incastrate come tessere di un mosaico nell’intonaco di una parete d’aria solidificata. Ma vengo da una notte tranquilla, sorrisa di sogni leggiadri, d’una inattesa levità. E prima che le cicale intonino la loro  nenia, suonerò all’organo un adagio buxtehudiano, sperando di richiamare almeno un cinguettio di passeri e rondini, così pigri oggi ad apparire in questo cielo d’un azzurro opacizzato dal sole che avanza dominatore, superati gli ostacoli delle vette di Maiella e Gran Sasso, nel suo tragitto ormai sgombro. Oh Elio accecante, non illuminante!

*

Giorni intensi, questi miei nella mia fresca clausura. Giorni di letture e scritture amene o impegnative, ma tutte rilassanti e rasserenanti. Lasciai nell’Urbe affocata le mie angosce di malattia e di morte, e mi rifugiai là dove nacqui, a sforzarmi a rinascere. Sono persino tentato di riprendere a poetare: I Canti di Pan e ritmi del thiaso, L’Evità,  Aquae nuntiae aquae iuliae attendono da troppo tempo un quarto fratello che serenamente li accompagni all’epilogo. Accoglierà i versi del tramonto, che potrebbero titolarsi  Non pensati Pensari ,il volumetto dalle pagine di carta paglia  rilegato in  sughero e cuoio recatomi in gradito dono da Laura dalla Spagna, e che somiglia a uno scrigno: lo scrigno delle mie ultime …perle?

Pur invocati, passeri e rondini non rispondono al richiamo. Incurante mi rifugio sotto il noce, a lasciar che intoni  lei, la mia anima, il mattutino al primo sole i cui raggi tra i fitti rami stentano a trapassare, e mi immergo nella lettura di Annus mirabilis, strano romanzo storico di Geraldine Brooks, giornalista australiana inviata di guerra trapiantata in America, che narra in prima persona le vicende orribili  della peste che decimò la popolazione di  un villaggio presso Londra nel 1665-66, in uno strano stile tragico e insieme lieve, come tragiche son le vicende del pastore Mesallion, di suo moglie Elenor e della loro serva Anna (la narratrice)  dediti a curar piaghe, ad assistere moribondi, a scavar fosse, a seppellire morti e ad evocare fantasmi nelle miniere. Strano libro, insisto, che dovrebbe forse chiamarsi Annus terribilis; o forse gli sta bene mirabilis perché la protagonista finirà, tornando a vivere, tra i giardini fioriti e le stanze arabescate di un  Harem? Brooks non stona col Pasolini di Una vita violenta, che rileggo a sessanta anni dall’uscita,  col Blake bucolico dei Canti dell’innocenza e dell’esperienza, col Boukowski ‘maledetto’ di  Ehi, Kafka, col Bernhard l’iconoclasta di Antichi Maestri; con gli autori dell’Ecclesiaste,  del Cantico dei cantici, del Libro di Giobbe: otto stili, otto universi, così vicini, così lontani: un “Ottetto delle dissonanze” che non stona con la sinfonia classica di una Natura qui ancora miracolosamente incontaminata.

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Riflessioni corsare: razza, razzismo, antirazzismo. Popper e 'Don Matteo'

Post n°988 pubblicato il 01 Agosto 2018 da giuliosforza

Post 909

Sto rileggendo Scritti corsari di Pasolini. E corsare sono anche un poco queste mie odierne riflessioni, di cui temo interpretazioni e reazioni. Ma questo penso e questo scrivo.

Sono giunto ad una triste conclusione: non esservi peggior razzismo dell’antirazzismo strumentale o zelotico.

De-demonizzare la parola razza per sconfiggere il razzismo

C’è razza e c’è razza, c’è, se mi è consentito il termine, ‘razzità’ e c’è razzismo. Razza è una parola innocua che continuiamo tranquillamente ad usare senza scandalo nei confronti dei nostri fratelli animali che sono, per un monista e panteista come me, ma anche per molti che monisti e panteisti non sono, semplicemente consanguinei, solo alcune tra le infinite possibili (non per nulla si parla di ‘santa diversità’) autodeterminazioni  dell’unica divina sostanza. Non si dimentichi che i più grandi delitti della storia non sono stati perpetrati  nel nome della razza, bensì di una volontà di potenza di fratelli contro fratelli, di caini contro abeli, prevaricatori, oppressori, carnefici, assassini del genere umano che mai hanno evocato la parola oggi tanto incriminata. Certo sorge il problema di come un’unica divina sostanza possa scindersi, per così dire, contro se stessa,  da se stessa possa trarre ciò che diciamo  male. Ma se per gli immanentisti il male rappresenta un problema, molto di più  lo rappresenta  per i trascendentisti, e non è certo questo il posto per discuterne.  Lasciamo dunque il male al suo mistero e torniamo a noi. Le potenze imperialistiche del passato, di ogni tempo e latitudine, perpetrarono e perpetrano i loro delitti senza evocare la parola razza. Per limitarci ai secoli a noi più vicini, Inghilterra Francia Spagna, e in misura solo di poco minore Olanda e Portogallo, per secoli impiegarono il loro tempo a distruggere civiltà, a schiavizzare le stirpi camitiche, colmando gli  oceani dei loro cadaveri, senza evocare la parola razza, più spesso anzi evocando la parola dio, dal Dio lo vuole dei crociati, al Gott mit uns dei nazisti, all’Allah akbar dei fondamentalisti islamici. Non è necessario dunque  essere “razzisti” per essere assassini. Troppi degli “antirazzisti” che giustamente denunciano i delitti di Hitler  e di Stalin e dei loro consimili non hanno proprio coscienze e mani pulite, Israele compreso, i cui comportamenti nei confronti dei Palestinesi non possono proprio dirsi esemplari e che, come la Chiesa nell’espressione petrina, continua a ritenersi in qualche modo la gens electa. Ma soprattutto non hanno coscienza e mani pulite gli Stati Uniti d’America che in nome dell’antirazzismo e di uno strano concetto di democrazia di cui si sono arrogato il monopolio, da Hiroshima al Vietnam all’Irak non han fatto e fanno che trascorrere da un eccidio all’altro, incuranti, talebani di segno opposto, se tra i bersagli siano bambini ed opere d’arte. E i loro alleati europei proseguono  nelle politiche dello sfruttamento economico, vero e proprio latrocinio  schiavistico, delle ex colonie che hanno abbandonato al caos più totale. I delitti di Hitler e dei suoi consimili di tutte le latitudini nascono dall’umana ferocia, non da una questione linguistica. Caricare la parola razza di significati negativi è offensivo, ripeto,  nei confronti degli animali, dei quali si continua senza scandalo a indicare razza, pedigree e quant’altro, anche da parte di quelli che non si riconoscono nel mio monismo.

E’ per questo motivo che trovo l’abolizione della parola razza (ignoro se si tratti di una proposta , o di un provvedimento già in atto), voluta, dicono, da Macron, dalla costituzione francese,  una ipocrisia bella e buona. Macron provveda ad affrancare le sue ex colonie, soprattutto quelle africane, dall’imperialismo economico che egli, per storia personale e preistoria, ampiamente rappresenta, di cui egli è mandatario e mandante; affranchi le sue ex colonie dalla schiavitù finanziaria che le soffoca, graffia…iscoia ed isquatra (Inf.,VI,18).  

La mia Francia, quella dei Rousseau, dei Diderot, dei Voltaire, dei Pascal, degli Hugo, dei Baudelaire, dei Maudits, dei Romantici, dei Bergson, dei Marcel dei Sartre dei Gide dei Garaudy…non è la Francia dei Macron, espressione  dei più perfidi potentati economici. J’accuse. E mi rifiuto di unirmi al coro dei di quanti a lui inneggiano per aver eliminato la parola razza dalla costituzione, nell’illusione  di nettarsi la coscienza. Viva la razza, viva le razze, viva la magnificenza di quel Dio che in esse si celebra.

*

Nel tentativo di trovare un programma passabile che facesse compagnia alla mia noia, stamane sono incappato in un episodio del ‘Don Matteo’ televisivo, nel punto in cui un giovane medico, sospettato dell'omicidio della fidanzata, cita niente di meno che Popper e il suo falsificazionismo: "Chi cerca conferme trova conferme". "Che ha detto?" del maresciallo Cecchini, meraviglia del capitano, e mia. Caspita!, ho pensato. Ho studiato e insegnato Popper (compresi i per molti aspetti discutibili tomi Hegel e Marx falsi profeti) a lungo, ma non ricordavo questa frase concisa che riassume tutta la critica popperiana ai positivismi di ogni sorta, al loro attaccamento ossessivo alla verifica dell'ipotesi caratteristica del metodo baconiano-galileiano, col ricorso ad una ripetizione senza fine della stessa esperienza (da Galileo sostituita con l'esperimento, ma poco cambia) che non garantisce il distacco critico e fatalmente conduce alla conferma dell'ipotesi alla quale si è affezionati. Nonostante tutte le critiche che sono state mosse a Popper (nel mio piccolo anche da me), credo che egli meriterebbe nuova considerazione, in epoca in cui dogmatismi di ogni sorta (paradossalmente tranne che nella scienza diventata, anche per suo merito, filosofia critica) vanno riprendendo campo attorno nel mondo in ogni ambito con tutti i rischi e i pericoli ad essi connessi.

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