Creato da giuliosforza il 28/11/2008
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Messaggi di Settembre 2018

Otello verdiano, Atto quarto. Rilke citato in "Quartett". "la Sonnambula"

Post n°992 pubblicato il 18 Settembre 2018 da giuliosforza

Post 913

Sarà che sono un romanticone impunito e impenitente, ma il quarto atto dell’Otello verdiano, che ho seguito in Rai, non smette di commuovermi fino alle lacrime. E non  tanto per i il dramma in sé, il solito dramma della gelosia e della diabolica perversità jaghesca che da che uomini e donne esistono continua a far vittime in barba ad ogni pretesa di incivilimento dell’umana specie, quanto per l’altissima religiosità che dal canto di Desdemona traspira. Fin da piccolo la “Canzone del salice” e l’”Ave Maria” intonate dalla moritura han rappresentato per me i vertici di quel lirismo, che dirò devoto, verdiano, uno di quei vertici che l’amico Paolo di Nicola, autore di un interessante saggio dall’azzeccato titolo Un credente in maschera, immagino usi per dimostrare la sua tesi, per me ardua, di una presunta, ben mascherata appunto, ortodossia cattolica del Cigno di Busseto. La religiosità è un conto, la religione un altro (una cosa il simbolo altra cosa il dogma, a vicenda a rigor di termini escludentisi), indiscutibile la prima in Verdi, non solo discutibile ma chiaramente secondo me da negarsi, per sua stessa ripetuta esplicita dichiarazione. Ma per la mia emozione queste sofisticherie poco contano. E non conta il fatto che Otello, penultima opera del Maestro, sia dall’ultima, il Falstaff, definitivamente contraddetta con quel conclusivo, beffardamente urlato come un cachinno diabolico, “Tutto nel mondo è burla”, che, esso sì, per me rappresenta la summa della filosofia verdiana. Sarà che i vecchi son troppo facili alle commozioni? Sia. Ma io in vita mia ho pianto molto spesso, da giovane e da uomo maturo; perché dovrei ora, da vecchio, nel tempo dell’indurimento dell’anima e della cute, vietarmi il dolce refrigerio d’una lacrima?.

*

Uno dei poeti di lingua tedesca più ermetici, nel significato stretto del termine, è certamente Rainer Maria Rilke. Eppure è uno dei più citati, dal Diario fiorentino alle Elegie duinesi ai Sonettii ad Orfeo ai Quaderni di Malte Laurids Brigge. L’ho amato per la sublimità della sua ispirazione, l’ho invidiato e odiato per la sua intimità con la trentanovenne, lui venticinquenne, Lou Andreas Salomè, colei (“sorella e sposa”) che ebbe l’animo di negarsi al folle amore di Nietzsche e di prendersene crudelmente gioco, per altro una delle donne più donne e delle femmine più femmine che, passando per salotti ed alcove, compresa quella freudiana, ma soprattutto assorbendo avidamente dal patrimonio culturale dei grandi che frequentava, riuscì ad emergere come uno dei personaggi femminili di maggiore spicco degli ultimi quarant’anni dell’Ottocento e dei primi quaranta del Novecento. Il Nietzsche da lei riconsegnatoci in Nietzsche. Una biografia intellettuale non è forse il più profondo ma di certo è il meno travisato, e per questo le siamo grati. E parimenti si dica del Freud quale emerge dalle sue numerose memorie.

Tornando a Rilke. Nel bel film, scarso dei incassi e di critica positiva ma a me per nulla affatto discaro, dell’allora settantacinquenne Dustin Hoffman, Quartett, colgo al volo una citazione, tratta dalle Lettere ad un giovane poeta (così affini e così diverse  da L’arte poetica. Consigli ad un giovane poeta di Max Jacob) che dice bene di cosa sia la vera arte, di quali profondità si nutra, del mistero che avvolge il vero artista, che nessun critico, con la sua ragione “oggettivante”, come direbbe Gabriel Marcel, potrà mai squarciare: “Le opere d’arte sono di una solitudine infinita. Nulla può raggiungerle meno delle opinioni di un critico”. Che mi ricorda tanto il da me più volte citato Elias Canetti: La critica, la vendetta dell’intelligenza sterile nei confronti dell’arte creativa. La critica  seziona e sminuzza. E per sezionare e sminuzzare ci vuole il cadavere. L’artista che la critica ci restituisce è in realtà la sua carogna; la critica sta alla vera arte e al vero artista come la scienza al buon senso nell’epigramma del Giusti: “Il Buonsenso che fu già caposcuola / Ora in parecchie scuole (ch’io mutavo nella mia memoria in ora in molti cervelli, e mi  par ci stia ancor meglio) è morto affatto. / La scienza sua figliola / L’uccise per veder com’era fatto”.

*

La Sonnambula

Più volte mi è capitato di scrivere che quando ho bisogno di riposarmi per troppo Beethoven e Wagner corro da  Bellini e da Donizetti, i più grandi melodisti della nostra storia operistica che Richard stesso aveva, soprattutto il primo, in grande stima. Oggi mi sono riposato con La Sonnambula, del grande trittico belliniano forse il vertice. La seguo su Rai5 che ne trasmette l’edizione del “Costanzi” del 23 febbraio scorso. Una serie ininterrotta di invenzioni melodiche che mai perdono di spontaneità e di freschezza, dalla prima all’ultima, il canto di Amina ancora non risvegliata dalle parole e dal bacio di Elvino: Ah! Non credea mirarti / Sì presto estinto o fiore…”

Riudire oggi quella trasognata, è proprio il caso di dirlo, melodia risveglia in me un cumulo di ricordi di particolare intensità. Era il 2002, mi trovavo a Catania quale membro di una commissione di concorso a cattedre universitarie (meglio sarebbe dire mercato delle cattedre), una delle pochissime sessioni concorsuali alle quali ho accettato di partecipare negli anni della mia lunga attività accademica. In quel periodo l’Etna era in piena fase eruttiva, e strade e balconi erano ricoperti da un fitto strato di neve nera, la polvere lavica. Ma ciò non mi impedì di pellegrinare alla tomba di Bellini nella cattedrale di Sant’Agata, dove le spoglie del grande e bellissimo (stando ad Heine ma non solo) figlio di Trinacria erano state traslate nel 1876, dopo un quarantennale soggiorno al parigino Pére Lachaise, dove mi pare d’averne visto e venerato il cenotafio, non lontano da quello di Rossini, in una delle mie frequenti visite  a quel vero e proprio sacrario delle Muse. Ed oh sorpresa! Alla base del bel monumento sepolcrale, sulla lastra anteriore, che vedo inciso? Proprio le prime note e le prime parole della melodia di Amina (Ah! Non credea ecc, parole e musica profetiche, come se il musicista l’avesse pensate per sé, destinato a morire, ad appena trentaquattro anni, nel 1835) che dentro di me intonai mentre le lacrime mi premevano dietro le palpebre. Non ci fosse stata tanta ressa di turisti e di devoti, avrei dato la stura alla mia emozione cantandola a mia volta a voce alta con l’eroina del dramma. Uscito dal tempio, percorrendo una stradina della periferia in compagnia di due amici, notai dietro la rete di recinzione di un giardino una canna di bambù stagionato, robusta e dritta come un fuso, che subito destinai a infoltire la mia raccolta di bastoni-ricordo. Riuscii rocambolescamente a impadronirmene e a portarla con me a Roma dove subito mi misi all’opera. Verniciai d’un oro aureolare la verga, e la sua vasta superficie mi consentì di scrivere quanto segue: subito vicino all’impugnatura la melodia in questione, parole e musica, e sulle larghe coste laterali, a mo’ di diario: hanc indicam arundinem ex quodam catinensi viridiano, solis occasu, tenebrarum gratia furatus sum, ante diem III kalendas februarias anno MMDCCLVI a.U..c., Sarracino Francisca consciis ministris. E dall’altro lato, poeticamente fingendomi Vulcano, per immortalare l’evento eruttivo: Efesto fui nel ventre / di Mongibello ove l’arme forgiai / ed i fulmini a Zeus (da piccolo, al ginnasio, ero soprannominato Giove –forse per il mio apprente, perenne corruccio? Come Efesto forgiai dunque i fulmini a me stesso!).

E’ giusto o no che di tutti i miei bastoni, questa verga di indica canna si meriti un posto di privilegio?

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Chàirete Dàimones!

Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 
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Pensieri corsari sull'8 Settembre. Cronaca minima

Post n°991 pubblicato il 07 Settembre 2018 da giuliosforza

 

Post 912

Domani ricorre l’8 settembre e già immagino le orge di retorica  con la quale si celebrerà quella data. Che fu una data infausta per uno come me che era cresciuto col latte della Lupa. 

Era il quarto anno di guerra, avevo dieci anni e servivo messa a Monsignore. Formazioni di “fortezze” volanti anglo americane stracariche di bombe, protette da agili caccia che si esibivano attorno ad esse, a protezione, in arabeschi nei cieli della Piana del Cavaliere, rombavano giorno e notte sulle nostre teste, dirette a distruggere, oltre che milioni di vite umane, quanto di più civile ed artistico, dall’Italia alla Germania, abbelliva il Vecchio Continente. I “perfidi” albionici lanciavano bambole e penne stilografiche esplosive, e più di un mio compagno ne restò mutilato.

Avevo appena dieci anni, dunque, ma ero già in grado di pensare con la mia testa e di comprendere il dramma del fascismo, della guerra e dell’evento che oltre  alla guerra ci faceva perdere anche l’onore. Sia ben chiaro: se un irriducibile anarchico mentale quale io ero e sono avesse vissuto il Ventennio da uomo ed intellettuale maturo qual sarebbe poi stato, sarebbe finito sicuramente al confino, in un confino di quelli tosti ove si spargevano lacrime e sangue, non in quelle specie di villeggiature gratuite di lusso in paesi caratteristici e in amene isolette del Mediterraneo che toccarono in sorte ad alcuni intellettuali dissidenti di mia conoscenza (qualcuno dei quali, come il filosofo Calogero, ebbi anche modo di frequentare). Le mie considerazioni sono quelle di un uomo libero, che ha appreso il fascismo sulla sua pelle di ragazzo, e non dai libri scolastici postbellici, faziosi e precritici non meno di quelli prebellici, i cui autori in maggior parte erano e sono, non meno dei piaggiatori del Duce, dei servitori ossequiosi dei nuovi subdoli regimi pseudodemocratici (oclocratici, dove popolo sta per folla), ed altre fonti non conoscono  che la storia scritta dai vincitori.

Suonarono all’improvviso le campane del borgo  a festa, quel giorno, all’annuncio  della resa incondizionata che chiamarono bugiardamente armistizio (ché non di cessazione provvisoria delle ostilità- come il termine suona- si trattò, bensì di un vile -così in molti ancora  ritengono- tradimento grandiano, savoiardo e badogliesco, di un cambio di fronte che ci avrebbe additato al disprezzo di vincitori e vinti) ed io, da capochierichetto, fui convocato per servire la messa e cantare col popolo il Te Deum di ringraziamento in quel gregoriano rimaneggiato, una specie di falso bordone, in verità  di ottimo effetto, che consentiva a maschi e femmine (zeppe erano allora le chiese, e ancora si cantava al borgo, in chiesa e nelle osterie e alla Sballata nelle notti, illuni o di luna piena, di giovanile ’giurgiulea’) di dare sfogo a tutta la potenza delle loro corde vocali, e accompagnato a orecchio all’organo Rieger  da Isidoro fra il vociare dei giovanotti che azionavano coi piedi il rumoroso mantice a pedale. L’officiante era ‘Monsignore’, storico parroco dalla corporatura imponente, dalle mani e dai piedi possenti e lesti a colpire, e dalle idee chiare, che s’era trovato a gestire con criteri, ieri ed oggi variamente giudicati, gli atroci eventi della Grande Guerra, dell’epidemia  detta Spagnola che ne seguì e che fece più vittime dei cannoni, dei disordini che aprirono le porte al Fascismo, della guerra d’Africa, e infine del secondo Conflitto ancora in atto che egli, come tanti, si illuse sarebbe cessato dopo l’’armistizio’ inaugurando finalmente un’epoca di pace; che avrebbe invece aperto, con la guerra civile, uno dei periodi più sanguinari della storia d’Italia. Monsignore si illudeva, ma non mi illudevo già io, mentre nervosamente turibolavo in sacrestia in compagnia di Zio R. Era zio R. un fascista doc sansepolcrista, che aveva pagato cara la sua ortodossia all’interno del Regime prima, con la persecuzione e l’esclusione da cariche e prebende, e dopo, con l’epurazione, a guerra finita. Aveva sposato la nipote di Monsignore, del quale accusava in quel momento,  nervosamente misurando a passi concitati in lungo e in largo l’angusto spazio della sacrestia,  la cecità che gli impediva di rendersi conto di quale catastrofe incombesse sull’Italia come conseguenza fatale dell’’armistizio’.  Ché, anche fosse stato un errore nefasto l’alleanza con Hitler, per altro imposta da una real Politik alla quale sarebbe stato impossibile sottrarsi (pura utopia immaginare la neutralitù di una nazione come la nostra posta al centro del mediterraneo, strategicamente essenziale: avremmo fatto in pochi giorni la fine della Francia; e d’altra parte allora impensabile una alleanza con Inghilterra Francia ed, in seguito, America, traditrici delle giuste attese italiane a Versailles e perciò dirette corresponsabili dell’avvento del Fascismo) pagammo cara la defezione:  come zio R. e già io profetizzavamo gli alleati teutonici divennero nemici  ed in pochi giorni ci trovammo occupati, con tutte le conseguenze che dagli eredi dei prussiani di Bismarck sentitisi colpiti alle spalle non era difficile attendersi.

Non mi si chiedano dunque celebrazioni. Condannerò le atrocità da ognuna delle due parti commesse (fascisti o antifascisti, partigiani o repubblichini) e venererò la memoria delle vittime (con studiata intenzione evitando la parola martiri) degli opposti schieramenti. Di più non mi si chieda.

*

Tanti anni or sono, quando il leone Giulio ancora un poco ruggiva, come omaggio per il suo compleanno Lilli Nike fece dipingere per lui da una amica artista la belva protettrice, ruggente solitaria nel vasto silenzio di una natura attonita, che il destinatario moltissimo gradì e con la solita modestia così si autodedicò:

"Rugientem dentibus leonem
noumenon spiritusque yerodominatum
impotenti vi
ad mysterii ostia 
defendentem
amici
inimici
Iulium Sfortia caveatis" .

Il leone al suo tramonto malinconicamente e nostalgicamente ne sorride

 

*

Catturata da un vecchissimo sbiaditissimo film (tra i protagonisti Fred Astaire) di cui mi è sfuggito il titolo, la seguente affermazione, attorno alla quale tutte le vicende del film girano: "Caso è il nome che gli sciocchi danno al Fato". Io sono tra quegli sciocchi e persisto. Diversamente non potrei, con Ludwig v. B., "afferrare il Destino per la gola". Se dire caso il destino è da sciocchi, dire destino il caso è da ignavi.

*

Con piacere , dopo sette anni (un attimo e una eternità) vedo riproposto da Andrea Cristofari, su FB, uno tra i miei più fissi pensieri, che l’attento discepolo annotò da una mia lezione, e che rappresenta il compendio della mia filosofia.

"Compendio della mia filosofia: vuoi Dio? Spremilo dalle cose." (Giulio Sforza)

Pericoloso per gli spiriti deboli

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