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Messaggi di Maggio 2022

'Zvanì', 'Giosuè'... Notti gianicolensi. Amore e Morte

Post n°1125 pubblicato il 27 Maggio 2022 da giuliosforza

 

1029

   Che resta da fare a un vecchio se non re-inventarsi, nella veglia e nel sogno, il più possibile magnificandola, la vita trascorsa? A me ciò riesce assai bene: diversamente non mi resterebbe che attendere una morte ignominiosa (plebea, son solito dirla), non ‘mortificante’ (che etimologicamente suona: ‘dante la morte’, da mortem facere, dunque Morte che uccide la Morte, morte della Morte!).  

   Ecco come ho giocato stanotte.

   In primo luogo mi son visto  lettore e commentatore di ‘Pianto antico’, la struggente breve lirica di Carducci, anzi di Giosuè; sì perché del ‘Leone di Maremma’ io ho sempre amato Giosuè, l’autentico poeta, il Giosuè-uomo còlto nei  momenti di più puro lirismo, e non nella pomposità di Poeta “laureato” e di vate ufficiale dei (ne)fasti della neonata Italietta e dei suoi fondatori; precisamente come m’è assai più caro ‘Zvanì’ dell’anche lui ‘laureato’ Pascoli, ‘laureato’ se non col Nobel, con le numerose vittorie riportate nelle gare internazionali di Poesia latina di Amsterdam, coi cui ricavati (una volta tanto le muse si smentirono e furono generose, e non solo di pane) poté comprarsi la casa-rifugio, ora santuario, di Castelvecchio di Barga. Solo dell’Ermapollodionisiopescarese, -questo l’endecasillabo che mi sono inventato per D’Annunzio- non mi è possibile distinguere, per ovvi motivi, il nome dal cognome.

   La seconda parte della notte l’ho trascorsa tutta al Gianicolo con quelli, dei miei studenti o dei “metanoetici”- tali dal nome dell’Associazione cultural-corale extraaccademica ‘Metanoesi’ che ci eravamo inventata per i nostri ludi …extramoenia - che con me, dopo l’omaggio al Nolano a Campo dei Fiori, salivano sul più bel Colle di Roma per festeggiare e brindare con l’akolàste pròposis, il Brindisi Libertino.

   Le nostre notti al Gianicolo si concludevano così goliardicamente con una giocosa sfida poetica tra l’Apollo-Johann Wolfgang e il Dioniso-Giulio: tanta, non c’è che dire, la mia presunzione, ma bisogna riconoscere che i pur perfetti settenari  del Bundeslied del giovane ventiseienne Francofortese, scritti per celebrare il matrimonio di certi amici svizzeri, non sono, in quanto a contenuti, all’altezza dell’autore del Faust e dell’West-östlicher Diwan, sono poco  più di quelli improvvisati dagli  stornellatori in qualsiasi matrimonio villico. I miei quindici endecasillabi e i due settenari, che non s’aspettano l’onore di esser musicati da un melanconico Franz, come fu dei versi goethiani, hanno invece il merito della ricercatezza dell’ironia e dell’irriverenza, pregi che normalmente vanno stigmatizzati ma che non guastano mai quando si è posseduti dallo spirito birichino del Nolano e dei suoi amici Elio e Dioniso con relativi corteggi di Muse pudiche o di mènadi discinte! Poi… poi sono, ed è la cosa che conta, autenticamente ‘pagani’, una qualità che non può mancare quando si brinda per dileggio sulla Roma addormentata dei necropompi, dei necrofori, dei tafei!

   Ai giovani le nostre nottate gianicolensi piacevano da morire e molti, fatti ormai uomini seri, le rimpiangono. Anche il Vegliardo giuntalodiano, naturalmente, le rimpiange, ma ormai non gli resta che attendere di poterle rievocare nei Campi Elisi.

   Ecco dunque la tenzone poetica. A voi l’ardua sentenza, poi riderete di cuore, se vi va!

   Del Bundeslied riporto solo alcuni versi, quelli che declamavamo sul Gianicolo, ma che in qualche modo anticipano lo spirito di tutta la composizione.

   Apollo chiama Dioniso:

     In allen guten Stunden,

     Erhöht von Lieb’ und Wein,

     Soll dieses Lied verbunden

     Von uns gesungen sein!

     Uns hält ein Gott zusammen,

     Der uns hierher gebracht,

     Erneuert unsre Flammen!

     Er hat sie angefacht.

     So glühet fröhlich heute,

     Seid recht von Herzens eins!

     Auf, trinkt erneuter Freude

     Dies Glass des echten Weins!  (J. W. Goethe, Bundeslied)

     (In tutte le meravigliose ore / nobilitate dell’Amore e dal vino / questo canto all’unisono / da noi deve essere levato. / Ci tiene insieme quel Dio / che qui ci ha condotto / e che rinnova le nostre fiamme! / quelle che Lui ha alimentato.

     Rallegratevi dunque oggi, / siate uni di cuore! / Orsù, alzate con rinnovata letizia / questo calice di vino verace!).

   E Dioniso risponde:

     Chàirete Dàmones!. Stendete, amici

     L’anima vostra e il vino la cosperga.

     Ed intrisa d’essenza il dio che l’ama

     Di sé inebri ed il mondo un folle iddio

     S’abbia novello che negli interstizi
     Intramondani capriolando il Tutto

     Colmi di Gioia insana, e Ilarità

     Faccia sua concubina, e dionisiaca

     Prole ne nasca cui oinopòtes Pan

     E Panodé sia nome e Panpaiàn.

     Da gole piene il canto

     Sgorghi e l’ombre inimiche fughi: il Lutto

     E la Tristezza e lor schiere di neri

     Corvigracchiantiausteri.

     E Panéuthymos vinca, regni e imperi.

 

     V’ha chi sua trenodìa fa sotto i salici;

     Noi a Panakòlastos alziamo i salici  (Giulio Sforza, Akolàste Pròposis)

 Codicillo del 26 10 ’96:

     Uni da Urano Gea li concepì

     Prototipi del Superuomo un dì.

     Zeus li divise, all’Unità li rese

     Ermapollodionisiopescarese.

*

   Sto rileggendo, di Béatrice Commangé, La danza di Nietzsche (Gallimard, Paris, 1988, Guanda, Parma, 1994. In copertina il Nietzsche, già immerso  nella sua lucida Follia, nella interpretazione di un altro lucido Folle, Edvard Munch). Un ottimo messaggio-massaggio per chi è minacciato di intorpidimento nel corpo e nell’anima.

*  

   Amore e Morte

   Per la prima volta mi gusto per intero, in tv, nello sconquasso dell’anima e del corpo, un “Andrea Chénier”, quello trasmesso da Rai5 nell’allestimento che inaugurò la stagione scaligera del 2017, direttore l’ottimo Chailly da sempre difensore e celebratore, contro l’albagia dei tanti critici, ungarettiani “termometri anali”, del capolavoro giordaniano. Seguo positivamente sgomento per tanta bellezza fino ad oggi a me sfuggita. Verismo assoluto, ma anche romanticismo assoluto. Superamento di sigle e categorie. Simbiosi perfetta di regia scenografia testo e canto. Me lo godo come un’opera del miglior Wagner, un vero e proprio Gesamtkunstwerk, un Gesamtkunstwerk italico, finalmente. Opera immensa (la passione della prima volta forse m’acceca?), potentissimo dramma d’amore e di morte nella drammaticissima cornice della Rivoluzione. E a ragione, dunque, più di una volta vengono con proprietà evocati testo e atmosfera lirica del Tristan und Isolde e se ne respirano misticismo ed incanto. E preludio all’atonalità, per ora limitato alla non indicazione di tonalità in chiave. Bella bella bella, forte forte forte, l’Opera di Giordano. Che egli sia, dunque, lodato con il troppo spesso, anche da me, negletto Illica: ché in Chénier libretto e musica si fondono a tal punto da farne apparire gli autori come un’unica persona in carne ed anima, cor unum et nima una. L’urlo finale all’unisono dei protagonisti ‘invasati’ (quasi isoldiano ‘unbewusst, höchste Lust!’), “Amore e Morte, Amore e Morte”! mi riecheggerà a lungo nell’anima.  

____________________    

   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

  Gelobt seist Du jederzeit, Frau Musika!

 

 

 
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Divagazioni su Pirandello e Dante. Effemeridi

Post n°1124 pubblicato il 14 Maggio 2022 da giuliosforza

 

1028

   Io giunsi, È il fine. O sacro Araldo, squilla!”. (Originale: Giungemmo. È il fine… Vedi Pascoli, ‘Alèxandros’, Poemi conviviali)

 *

   Grazie Rai 5

   Tre giorni di santo Relativismo pirandelliano: Sei personaggi in cerca d'autore, L'uomo, la bestia e la virtù, Così è (se vi pare). L’uomo dal fiore in bocca

   E poi l'ultima apparizione pubblica di Elio (Pandolfi) in uno spettacolo a tre (recitazione pianoforte, canto) al quale presenziai nella sala concerti della Filarmonica Romana in via Flaminia. Avevo accanto Luisa, la vedova del comune amico Mario Maranzana. 'Inventare il tempo', il titolo dell'evento, curato da Sandro Cappelletto, ove si diceva degli strazi dell'ultimo Puccini e della sua Turandot...'Non voglio morire, non voglio morire!'...urlava Elio, mentendo (per esigenze sceniche, naturalmente - non per nulla il corrispondente greco di commediante è ypokritès): a me Egli, ogni volta che ci si sentiva, confessava di non veder l'ora di andarsene. Ho trattenuto a stento le lacrime.

 *  

Non mi è molto simpatico, per certi aspetti, il Pirandello uomo. E non perché fosse, e fosse stato fino all’ultimo, fervente fascista (affari suoi, si direbbe), ammiratore e amico personale del Duce, Accademico d’Italia, firmatario del Manifesto degli intellettuali fascisti (quello al quale Croce ed un’altra quarantina avrebbero tiepidamente risposto col Manifesto degli intellettuali ‘non fascisti’ - tale il primitivo titolo, sfumatura significativa, allorché apparve su Il Mondo e su Il Popolo) come d’altronde moltissimi altri i quali, a Fascismo ormai caduto, si ‘rifecero la coscienza’ indossando  chi il colbacco chi la zimarra pretesca; o perché donatore, in occasione delle Sanzioni, della medaglia d’oro del Nobel alla Patria (lo stesso Croce donò la sua di senatore) e via discorrendo. Ma il vero, principale motivo della mia poca simpatia è che il tutto era platealmente in contrasto con i suoi convincimenti che dicono profondi; e i comportamenti che non seguono i convincimenti sono falsi e ipocriti, come ben fiacchi sono i convincimenti che non generano coerenti comportamenti. Per questo mi sono sempre chiesto come sia possibile in buona fede far convivere, come fa il Nostro, Relativismo e Fascismo. E inoltre la mia poca simpatia nasce da un motivo, diciamo così, assai personale e privato: a uno come me che la passione didattica ha sempre divorato e ancora a cent’anni divora, che a tutto ad essa sacrificò, non può essere simpatico chi,  nei suoi circa venticinque anni di  titolarità di una cattedra al Magistero femminile di Roma,  non dimostra alcuno slancio per l’insegnamento, è  più assente che presente (troppi  i suoi impegni privati legati al suo vero nobile mestiere: ed ecco perché con D’Annunzio ritengo che i veri artisti debbano essere lautamente mantenuti dallo Stato affinché possano dedicarsi con tranquillità alla loro nobile missione, quella di ‘sforzare’, attraverso l’Arte, ‘il mondo a esistere’), e per curare i suoi impegni privati trascura  e ha in uggia a tal punto quelli ufficiali,  didattici ed accademici, da attirarsi forti rampogne del conterraneo e amico Giovanni Gentile ministro dell’Istruzione.   Qualche attenuante sono disposto a concedergliela. Da tutti è risaputo che l’Agrigentino non aveva una vita familiare delle più felici e soprattutto la malattia mentale della moglie gli creava gravi problemi, di molto turbando la sua stessa serenità.

   Per il resto la mia stima e la mia simpatia gli vanno tutte.    Dalla frequentazione dei due paesi della Valle dell’Aniene (ai quali, seppure un poco già abruzzese, appartiene amministrativamente anche il mio), Arsoli e Anticoli Corrado (la rocca dei Principi Massimo il primo, storico ‘paese delle modelle’ il secondo) ove egli si recava a villeggiare quasi ogni anno (il figlio Fausto, noto pittore della “Scuola Romana”, ad Anticoli  si era addirittura accasato sposando una anticolana, e molte testimonianze nel locale Museo lo ricordano), numerosi  particolari ho appreso che me lo rendono un quasi familiare e che meriterebbero da parte mia un più articolato ricordo. E ancora: egli era l’artista preferito dal mio amico, e raffinatissimo attore, Mario Maranzana, che ai suoi testi dedicò innumerevoli spettacoli al Tetro Ghione e non solo, ne scrisse egregiamente in una breve ma originale e densa monografia, e quale ambasciatore di cultura lo commemorò e celebrò in ogni parte del mondo.   *

   Una giornata che avrebbe potuto essere, tutta, non vi avesse messo lo zampino TIM, albo signanda lapillo dies.

   Per una decina di giorni ho combattuto col mio gestore di telefonia fissa.

   A fatica raggiunto, un operatore mi assicura una immediata segnalazione. Ne nasce un traffico ininterrotto di telefonate e di messaggi vicendevoli per una settimana. Viavai e sopralluoghi, rivelatisi tutti inutili, di un giovane tecnico impacciato e di una tecnica angustiata da una minaccia di licenziamento. E finalmente una comunicazione rassicurante: ‘il guasto è in centrale e non nel suo impianto, quindi l’intervento sarà gratuito. Si provvederà immediatamente’. Fiducioso attendo. Ed ecco stamane il terzo atteso intervento domestico, che si rivela assai puntiglioso. Dopo vari armeggi coi suoi aggeggi, elettronici e non, sulle tre derivazioni, brutte nuove dal vivace tecnico (un capellone canterino e simpaticamente ciarliero di mezza età dalla lunga zazzera grigia tendente al bianco svolazzante su un volto barbuto): contrordine, il guasto è nel suo impianto e non nella linea esterna (te pareva, il commento di Laura, più sgamata di me). E colpevole è questa prolunga, che la invito a gettare subito nel secchio. Non provi a rimetterla: risalterebbe tutto l’impianto. Quel subito mi inquieta e comincia il mio travaglio: perché mai dovrei disfarmene subito? Che ci sia sotto un tranello? Che sia tutta una manfrina della Tim per estorcere soldi, e il capellone faccia parte del disegno? Che la responsabilità non sia della innocua prolunga? Cominciano ad assalirmi dei dubbi. Il tecnico mi invita a firmare sullo schermo del cellulare. Mi viene unoi scarabbocchio. Mi saluta e frettolosamente s’avvia. Quando è sulla porta lo richiamo; ho deciso (minchione!) per una mancia e gli faccio un dono inatteso: una bottiglia di grappa di Lambrusco. Fa la faccia sbigottita. Non gli par vero. Oh, il lambrusco, esclama, il mio vino preferito! E s’avvia, frettolosamente, e forse ride di me e della mia babbeaggine. E mi resta il travaglio: se provassi la prolunga su un’altra linea e mi togliessi ogni dubbio? E davvero risultasse sana? E se poi davvero il mio tel ammutolisse? Il tecnico capellone mi lascia in una grossa crisi esistenziale. Mi ha rovinato la giornata e forse non solo la giornata.  Fossi un Ibsen un Pirandello un semplice Thornton ci scriverei sopra una commedia semiseria (o dramma giocoso?).  

   Ma per fortuna c’è il pomeriggio di Rai5, questo sì tutto degno del sassolino bianco.

    Per il teatro Piccola città di Thornton Wilder, con Raoul Grassilli, Mario Carotenuto, Giulia Lazzarini ed altri della mia generazione. Deliziosa la prima parte dedicata alla vita e all’amore; nebulosamente, anche nel bianco e nero, mortuaria la seconda. Thornton, una felice scoperta. E per la musica il Gala del Belcanto, un omaggio a Donizetti e Bellini con un al solito ottimo italo-albionico Pappano, un poco migliorato, mi sembra, se non del tutto guarito, dal suo vizio… ‘boccaccesco’, quello di accompagnare il suo appassionato dirigere con rivoltanti boccacce che lo fanno somigliare (e a me fa schifo) a un ruminante in pieno rigurgito. Brava, anzi bravissima, oltre che bellissima (il che non guasta) soprano statunitense di origine cubana Lisette Oropesa (‘valutabile a peso d’oro’? Mai cognomen fu più omen) e il ventisettenne tenore spagnolo Xabier Anduaga, a cui l’inesperienza fa volentieri perdonare qualche minima défaillance di continuità e lindura tonali.

   Siano lode a Calliope e a Melpomene, disdoro a TIM.  

*

   Se dovessi un giorno o l’altro (cosa più che probabile) decidere di smettere di raccontami su queste pagine, lo farei col canto XXVII del Purgatorio, versi 124-141: la migliore sintesi del viaggio descritto dalla Commedia verso la scoperta di Dio come scoperta dell’Io.    

      Come la scala tutta sotto noi

      fu corsa e fummo in su ’l grado superno,

      in me ficcò Virgilio li occhi suoi,

      e disse: «Il temporal foco e l’etterno

      veduto hai, figlio; e se’ venuto in parte

      dov’ io per me più oltre non discerno.

      Tratto t’ho qui con ingegno e con arte;

       lo tuo piacere omai prendi per duce;

       fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte.

       Vedi lo sol che ’n fronte ti riluce;

       vedi l’erbette, i fiori e li arbuscelli

       che qui la terra sol da sé produce.

       Mentre che vegnan lieti li occhi belli

       che, lagrimando, a te venir mi fenno,

       seder ti puoi e puoi andar tra elli.

       Non aspettar mio dir più né mio cenno;

       libero, dritto e sano è tuo arbitrio,

       e fallo fora non fare a suo senno:

       per ch’io te sovra te corono e mitrio».  

   Questo ultimo verso è particolarmente forte e anticipa di secoli la moderna concezione laica di un Io liberato dalla sua angusta prigione, ove sta nella triste obliquità che pensa (Arturo Onofri, Terrestrità del sole) ed identificato col Tutto-Natura-Dio. Chi si intestardisce a leggerlo   in chiave confessionale trascendentistica non vuole intendere quale sia la forza rivoluzionaria in esso contenuta: coronare e mitriare Dante significa trasferire sul suo capo la corona imperiale e la mitria papale, vale a dire i poteri politici e religiosi che si arrogano una investitura divina per meglio prevaricare sui greggi degli ignoranti o degli ignavi e soffocarne gli aneliti di autonomia e libertà. Con questo verso il Fiorentino inaugura l’epoca del pensiero libero quattro secoli prima che l’Illuminismo inizi la sua battaglia non del tutto purtroppo ancora, se mai lo sarà, vinta. Ma ancora più forti sono i tre versi precedenti ove chiaramente Dante viene invitato a non seguire se non il suo arbitrio che è libero retto e sano, sicché sarebbe (fora) grave colpa (fallo) non agire di conseguenza secondo tale principio (senno).

   Così parla la Ragione a Dante per bocca di Virgilio. E Dante intende e condivide, oh se intende e condivide, ma quanto è condiviso ed inteso?

   E con quelli ancor più altamente simbolici del XXXIII del Paradiso ‘ereticamente’ (nei riguardi, intendo, dell’ermeneutica dantesca ‘ortodossa’) interpretati’:

      Quella circulazion che sì concetta

      Pareva in te come lume riflesso

      Da li occhi miei alquanto circunspecta

      Dentro di sé del suo colore stesso

      Mi parve pinta de la nostra effige

      Perché il mio viso in lei tutto era messo (v.132)

nei quali l’identificazione dell’Io con Dio appare ancora più esplicita: l’essenza divina di Dio  appare a Dante pinta della ‘nostra’ essenza, natura divina e natura umana gli si rivelano coincidenti, ed egli può sentirsi in tal modo affrancato da ogni sorta di eteronomia: culmine di un  processo che ogni essere umano è chiamato a compiere passando dall’anomia, attraverso l’eteronomia, all’autonomia, lo stesso che Gentile nel Trattato di Pedagogia come scienza filosofica  individua in un iter scolastico paradigma di tutto un ciclo vitale; un iter  che si proponga  via via, dall’infanzia all’Università, non di formare schiavi ma uomini liberi da ogni tipo di idòla, non di aggregare (ad gregem) ma di degregare (de grege); il solo che potrebbe giustificare l’esistenza di scuole che non siano prigioni di forzati, quelle denunciate da  Papini nel suo famoso ‘Chiudiamo le scuole’ (un «Giovanni Papini del 1914, estremo, particolarmente caustico e provocatore. Un testo, più che mai attuale, che esprime con decenni di anticipo un malessere oggi dilagante. Una soluzione estrema ad un problema reso cronicamente insolubile. Una proposta radicale che tutt’oggi potrebbe far discutere se qualcuno avesse il coraggio di esprimere un simile dissenso, con cui apriva il primo numero di ‘Lacerba’» -dalla quarta di copertina dell’edizione Millelire Stampa alternativa. Tratto da Giovanni Papini, Chiudiamo le scuole. Vallecchi editore, Firenze, 1919).

*

   Cristiano Casalini, teorico e storico della Pedagogia in terra d'America, in vacanza nel "Golfo dei Poeti', mi invia da Lerici questa immagine (targa di una strada ove è scritto ‘Via San Franceso d’Assisi, già via Giordano Bruno’). Quel che v'è scritto fa ridere nei suoi cieli Bruno Nolano, noto spregiatore di plebi (l'Odi profanum vulgus et arceo' oraziano era uno dei suoi motti) ma soprattutto offende (oltre che far teneramente anche lui sorridere) il Menestrello di Dio, il Troubadour François, alias Francesco D'Assisi. Sicuramente il cambiamento di titolazione della strada é contemporanea all'erezione, per opera dell'ebreo Nathan, del monumento a Bruno a Campo dei Fiori. Meschina operazione, quella di Lerici. Cancelleremo la cittadina dall'itinerario del Golfo de Poeti. Schelley, Mary, Keats, Byron ne esulteranno nei loro Limbi.

*  

   Ogni mattina mi alzo, mi guardo allo specchio ancora amico, interlocutore discreto e confidente, e mi dico: basta con le tue ciance, vecchio! Sono novanta anni che rompi È scoccata l’ora del silenzio e del ritiro (della “preparazione alla morte”, come si diceva nella ‘cultura’ funerea in cui si tentò, vanamente, di educarti, quella che dicesti da trenodia, tu che ti sentivi nato solo per epinici). Poi subito mi pento e rilancio: sarà che non mi rassegno a morire prima di morire? Ed eccomi così qui anche oggi, per la gioia mia e, spero, vostra, cari pazienti ‘amici miei e non della ventura’, con le mie ciance semiserie.

   C’è chi scrive libri e che scrive…bastoni. Io una ventina di libri e libercoli, di poesia o di prosa, monografie o raccolte o curatele, li ho messi insieme, ma ciò che amo di più sono i miei cento e passa bastoni su ognuno dei quali, in caratteri visibili a tutti o solo a me chiari, è breve testimonianza di un’epoca della mia errabonda vita intellettuale e affettiva, nelle poche lingue antiche e moderne che ho frequentato. Bastoni di montagna o bastoni di città, rozzi o raffinati, raccolti nei miei vari pellegrinari ai luoghi del cuore e della mente, da me stesso fatti o acquistati o donatimi. Non potrà capire me o di me dire senza tener conto dei miei bastoni e di ciò che su di essi è raccontato della mia vita, chi s’azzarderà a tentar dire di me ‘quel che non fue mai detto d’alcuno’. (Tranquillo, Sfortia, pericolo inesistente: perché il monumentum aere perennius che fin dai tuoi teneri anni sognasti di erigerti non l’hai eretto, presto il rogo del tempo disperderà le tue ceneri, e con esse la tua memoria, nel vento).

   Non ho intenzione dunque di smettere di scrivere libri e di scriver …bastoni finché avrò fiato: è pronto un ulteriore volume, il terzo, del mio … opus magnum (!), Dis-Incanti, quel diario virtuale di un vegliardo, delle sue diànoie metànoie parànoie, strappato all’etere a cui fu improvvidamente donato (in forma, fremete, di blog), e riconfidato alla amata carta in cento cinquanta copie  eleganti di due grossi tomi in cofanetto ancora affastellati in vari angoli di casa in attesa di poter esser finalmente donati ai centocinquanta amici per i quali fu stampato. Questo terzo, in avanzato stato di preparazione, risulterà di un volume bifronte dall’identica copertina riproducente il vegliardo giuntalodiano, dalla lunghissima barba e dal girello, che ‘anchora inpara’ (sic) e destinato anch’esso ad esser donato agli amici ad perpetuam mei memoriam; e conterrà  anche il nutrito sito (nel frattempo non più supportato dalla rete e rocambolescamente recuperato) che precedette il blog, nonché la quarta serie di liriche neoclassiche dal significativo titolo La sera di Pan.

   Troppa legna al fuoco?

    Ma non forse Ignem veni mittere in terram, et quid volo nisi ut accendatur? (Lc. 12,49)

  *      

   Notte magica musicale.

   Così in rete: "Villa Serra a Comago, in Val Polcevera, vicino a Sant'Olcese (GE), è un fantasioso complesso settecentesco rivisitato in chiave neogotica del XIX sec. Il tutto immerso in uno straordinario parco all'inglese, con vialetti tempestati di alberi maestosi, e aiuole con 150 varietà di ortensie. Qua e là giochi d'acqua, fontane e un laghetto abitato da cigni".

   Non so quale benevola divinità ha voluto ridonarmi una delle più belle notti di questi ultimi anni, restituendomi in sogno alla mitica atmosfera, questa volta anche musicale, in cui è immersa nei miei ricordi Villa Serra di Comago anni Cinquanta, fra lo stormire di mille piante, sequoie comprese, il canto d' un breve ma precipite ruscello che placa la sua corsa in un laghetto dalle acque trasparenti solcate da anatre placide e da cigni regali, il cinguettare di mille uccelli, il tubare di mille colombe, il garrire di mille rondini, il rombare dei tuoni e lo schiantarsi dei fulmini che, attirati da piante autoctone ed esotiche altissime e da cipressi svelti come antenne, scaricano, soprattutto nei giorni del corruccio di Giove, spesso a ciel sereno e nel pieno del Solleone (il mio segno), la loro potenza sul parco.

   Ora Villa Serra è, dunque, una struttura alberghiera assai signorile. Ai mie tempi, i tempi in cui è ambientato il mio sogno, l'edificio, in molte parti scadente, ma perciò ai miei occhi più fascinoso, ospitava unginnasio privato maschile ove appena ventitreenne, fremente di mille energie, non ancora laureato, ero stato chiamato ad insegnare greco latino italiano storia e quant'altro, ma soprattutto, innamoratissimo dalla nascita di Frau Musika, scrivevo diari poetici e componevo le mie prime 'nugae' musicali, i miei mai abiurati 'péchés de jeunesse', per il coro giovanile che avevo frattanto creato.

   Nel mio rutilante sogno stanotte s'operava oltretutto una miracolosa bilocazione: il coro "I Nuovi Ragazzi di Vivaro" ai suoi albori, destinato negli anni a trasformarsi in "Metanoesi", nella onirica finzione, più reale di ogni realtà, si esibiva nell'esecuzione del brano di cui qui riproduco la prima pagina della partitura (che a Villa Serra composi e che reca la data XII VI MMLVI), in simultanea tra le sequoie della villa genovese da una parte, e attorno all'olmo maestoso che spandeva la sua vasta ombra sullo spazio verde tra un rudere e l'altro del nostro Castello Borghese, dall'altra. Non ridano i miei amici Federico Biscione e Alberto Cara, i grandi compositori intimissimi di Frau Musika, dei miei ingenui balbettii: melomane da morire e soprattutto della nostra Signora modesto filosofo, ignoravo o non mi curavo delle varie vicissitudini alle quali l'Arte di Euterpe nel corso dei secoli, soprattutto negli ultimi, fu, con esiti ai miei orecchi per lo più assai poco gradevoli, sottoposta. Il brano s'intitola 'Sogna il guerrier le schiere', sottotitolo 'Madrigaletto', e il testo è tratto da uno dei poeti da me preferiti, quel Pierino Trapassi in arte Metastasio che, nonostante l'irrisione alfieriana della 'genuflessioncella d'uso', continuo ad amare se non più ad adorare.

   Trapassante dal guerresco al sognante, l''Arietta' ('Sogna il guerrier le schiere / le selve il cacciator / e sogna il pescator / le reti e l'amo. / Sopito in dolce oblio / sogno pur io così / colei che tutto il dì / sospiro e chiamo') è risuonata al mio orecchio per tutta la mia notte e ancora risuona in quest'alba finalmente di nuovo rosata.

   Risuona essa ancora pure all'orecchio di qualche "Nuovo Ragazzo di Vivaro" e di qualche "metanoetico"?

   Qualcuno di essi alle sue note ancora, 'sopito in dolce oblio', sogna, sospira e chiama?

Se non è, lo compiango. Il Vegliardo, a cento anni, ancora sospira e chiama. Oh se sospira, oh se chiama!

   P. S.

   Appello agli ex coristi: 'rauniamo' "le fronde sparte" dei nostri gruppi corali e andiamo a commemorarci con una cantata nostalgica nell' incanto di una notte agostana a Villa Serra di Comago?

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    Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

  Gelobt seist Du jederzeit, Frau Musika!

 

 

 

 

 

 
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Frau Musika in tempi di calamità. Antonio Rostagno, Das Paradies und die Peri

Post n°1121 pubblicato il 03 Maggio 2022 da giuliosforza

 

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   Una deliziosa Frau Musika in tempi di calamità  

   Das Paradies und die Peri, il Paradiso e la Peri  

   Il musicologo torinese Antonio Rostagno, scomparso troppo presto alla soglia dei sessant’anni nel 2021, era uno studioso molto serio e nel contempo godibile, al quale era del tutto alieno quel linguaggio ermetico ai limiti del sensato e del comprensibile a cui molti critici, e soprattutto quelli musicali, troppo spesso con compiacenza ricorrono, ed era titolare di Storia della Musica alla Sapienza. Era succeduto nell’insegnamento a Pierluigi Petrobelli, altra figura eminente nel campo della musicologia, che ebbi modo di conoscere e di apprezzare in occasione degli incontri, musicali e non solo, che ai miei tempi egli organizzava al teatro Ateneo. Persona piacevolissima e signorilmente disponibile, specialista di Schumann e della musica romantica in generale, passò a Rostagno un degno testimone.   A un articolo di Rostagno scritto in occasione di una Peri palermitana ricorro oggi, che ricevo   in dono da Rai 5 il capolavoro giovanile dello sventurato Schumann, Das Paradies und die Peri, nell’allestimento appunto del Massimo di Palermo del 2017. Me lo godo, pur se ancora alquanto tramortito dalla quarta dose di anticovid, che avrei voluto volentieri risparmiarmi, e alla quale se ho poi ceduto è stato solo per la speranza, non certezza, di non crepare per il maledetto C19, che è una morte (detto senza offesa per i poveracci di ogni età e ceto che ne sono rimasti vittime) traditrice e ‘plebea’, una morte che amerei risparmiarmi, pur conscio che prima o poi, più prima che poi, mi toccherà fare i conti con la misteriosa Signora  da Petrarca,  Leopardi,  Heine, Schopenhauer e tanti altri accomunata alla Bellezza  e all’Amore -il colmo per dei pessimisti cosmici, ai quali un po’ di ragione sarei disposto a concedere  solo se essa avesse le leggiadria e la levità di quella invocata da Hermann Hesse nei versi  birboni di “ Der Mann von fünfzig Jahren, L’uomo di Cinquanta anni” (in Die Gedichte. Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1953, 1977,) ai quali rimando.   Ecco il testo di Rostagno, molto discorsivo e facilmente comprensibile anche da quanti non hanno dimestichezza con Schumann e con la musica romantica. La fonte ne è in rete la Redazione.     

Il Paradiso e la Peri di Robert Schumann: lacrime di serenità.

   «Non a tutti è noto cos’è una Peri, e pochi possono dire di conoscere l’oratorio di Schumann. Eppure lui vivente questo fu il solo lavoro (insieme alla Prima Sinfonia) a garantirgli una notorietà in patria e nel circuito internazionale.

   Dire cos’è una Peri in poche parole non è facile: nella più antica mitologia persiana era un essere demoniaco di genere maschile al servizio di Arimane, lo spirito del male nello zoroastrismoNelle più tarde tradizioni islamiche la Peri, divenuta di genere femmineo, ha fattezze e modi attraenti, figura alata, occhi grandi e si nutre del profumo dei fiori. Le Peri, in questa ultima forma, sono “razza peccatrice”, caduta nella colpa, ma aspirano a tornare nell’Eden, da dove sono state scacciate. Questa è la forma del mito giunta a Schumann. Nel 1840 si trova il primo accenno al riguardo nei suoi Diari, ma la leggenda della Peri è per ora indicata come Opernestoffe (materiale per un’opera); quando fra il 1842 e il giugno 1843 il compositore porta a termine il lavoro, esso ha assunto la forma di un oratorio. Richard Wagner nello stesso 1843, a Dresda dove ha colto i suoi primi successi, ipotizza un’opera sullo stesso soggetto persiano, ma presto abbandona il progetto non trovando come portarlo sulla scena; per questo, saputo della composizione di Schumann, si premura di scrivergli complimentandosi per la riuscita e per aver trovato la forma adatta (lettera di Wagner a Schumann, 21 settembre 1843).

   Schumann trae il soggetto da un racconto in versi del poeta Thomas Moore (1779-1852), precisamente dal secondo episodio del prosimetro (racconto in prosa e versi alternati) Lalla Rookh del 1817, realizzando una forma mista epico-lirica da concerto: lui stesso è consapevole di aver creato “un nuovo genere per la sala di concerto. Terminato il “poema per voci soliste e coro” (così nella prima stampa), Schumann scrive che si tratta di “un oratorio non per un luogo di preghiera, ma per persone serene” (für heitere Menschen): che intende? Il 1843 è un anno felice dal punto di vista esistenziale e artistico: Schumann, felicemente sposato, ha approfondito la composizione liederistica (1840) sinfonica (1841) e cameristica (1842); il grande “oratorio profano” riassume tutto ciò.

   Inoltre si direbbe che la “serenità” si riferisca anche al felice momento esistenziale di Schumann, finalmente sposato (a metà della composizione nasce la seconda figlia Elise), e professionalmente rassicurato per l’avvio del conservatorio di Lipsia, alla cui fondazione ha partecipato insieme a Mendelssohn. Ma i Diari di Clara parlano di “prostrazione” e “malinconia”, lamentando una sostanziale assenza del marito nei difficili primi momenti della figlia neonata. E se andiamo avanti di qualche mese dopo le prime fortunatissime esecuzioni dirette dall’autore (4 e 11 dicembre 1843), nella primavera 1844 troviamo Schumann in una delle sue più acute crisi, tanto da fargli quasi perdere la parola e le capacità motorie. Insomma, quella “serenità” si rivela piuttosto un’aspirazione e una sosta momentanea, in una psicologia fortemente tendente alla malinconia distruttiva e incapace di rimuovere alcuni oscuri sensi di colpa che l’assillano.

   Il portato autobiografico, ossia l’aspirazione alla “serenità” sempre provvisoria e instabile, è il primo dei grandi temi del Paradiso e la Peri; altro elemento è l’ispirazione orientale, ma “travasata” in simbologie e linguaggi europei e propri della cultura schumanniana. L’orientalismo è assai comune nella cultura germanica della prima metà dell’Ottocento, dal Divano occidentale-orientale di Goethe, a Friedrich Schlegel, Herder, Novalis, Schopenhauer, Rückert. In ambito musicale nel 1840 Heinrich Marschner compone la cantata Klänge aus Osten (“Suoni d’Oriente”) op. 90. Ma c’è qualcosa di più.

   L’idea del Paradiso e la Peri viene proposta a Schumann dall’amico Emil Flechsig; il dato sembra un vuota curiosità, ma non è così: Flechsig è un pastore luterano, come luterano è Schumann stesso. Ebbene, il testo persiano-islamico, adattato dai luterani Schumann e Flechsig, traendolo da un originale dell’irlandese-anglicano Moore acquista un significato interconfessionale, una possibile armonia fra religioni diverse, implicitamente indicando elementi affini fra le tradizioni cristiana e islamica. Per esempio, nei tre “doni che la Peri deve trovare perché le siano aperte le porte edeniche possono vedersi analogie con le tre prove dell’anima a cui dio sottopone il fedele nella religione cristiana (ovvie le differenze nel simbolo, evidenti le analogie nel simboleggiato). Si trovano esempi delle tre “prove dell’anima” anche nella letteratura maggiore: il caso della “favola” di Griselda, narrata da Boccaccio e da Petrarca, è l’esempio più noto. Altro elemento comune è quello della costanza, della fermezza d’animo, della tenacia come virtù suprema: la Peri non si scoraggia per le prove fallite, e la musica di Schumann coglie per due volte lo slancio con cui, davanti alle porte dell’Eden che rimangono chiuse, reagisce e si rimette alla ricerca.

 Le tre prove dell’anima scandiscono le tre sezioni, che Schumann divide fra narrazione (affidata alternativamente a un tenore, un mezzosoprano, un baritono e il coro), parti cantabili della protagonista e di altri solisti, sezioni corali sentenziose o contemplative. La redenzione finale assurge a carattere universale: appunto una musica “per persone serene”, una serenità che Schumann vuole comunicare a tutti. La prova finale, che riapre alla Peri le porte del Paradiso, è una lacrima di un delinquente che, davanti alla purezza di un bambino, s’inginocchia e ritrova la forza di pregare, una consolazione che le sue colpe gli avevano da tempo impedito (proprio come accade a Macbeth dopo il delitto). È la colpa redenta dalla purezza, ciò che          Dante chiamò “virtù”, quella virtù che l’umanità per sua natura deve perdere, per avere la forza di riacquisire con la forza della volontà. Schumann per tutta la vita ha lottato contro i suoi oscuri e divoranti sensi di colpa (non sapremo mai per quale spettro nascosto nella sua psiche), che hanno lasciato profondi segni nella sua musica. Nella grandissima musica di questo oratorio profano la “serenità” scaturisce appunto dal riuscito sforzo dell’uomo verso la redenzione, e la Peri redime la sua condizione di reietta portando al cielo la prova di questo percorso “verso la serenità”. Questo nella trasposizione artistica; ma abbiamo già visto come la realtà esistenziale di Schumann sia tragicamente andata nel modo esattamente opposto.

   L’oratorio è diviso in tre sezioni, ognuna descrivente un “dono” che la Peri coglie sulla terra per portare all’Angelo; sono tre racconti distinti, secondo la poetica della narrativa frammentaria tanto cara a Schumann. Ognuna delle tre grandi sezioni è a sua volta tripartita: A) descrizione della situazione (India, Egitto, Siria), ricca di riferimenti simbolici, assegnata a voci narranti, coro e interventi lirici della Peri; B) azione alternante narrazione e discorso diretto. Qui intervengono i personaggi al centro di ognuna delle tre sezioni: l’eroe patriota, i due giovani amanti, il delinquente pentito; C) conclusione lirico-contemplativa, dove salgono a protagonismo la Peri e il coro in dialogo (un fugato nella prima parte, un’innodia funebre nella seconda, ancora un fugato strumentale e una grande “luminosa” contemplazione finale nella terza). Alternando i tre livelli epico, lirico e drammatico Schumann ha realizzato quel “nuovo genere da concerto”, che non rinnega affatto la grande tradizione oratoriale di Händel e Haydn, e che si colloca in quel genere sinfonico-corale che nella Germania ottocentesca ha goduto di altissima considerazione.

   Per la prima “prova”, la Peri vola in India e la parte iniziale è occupata dalla descrizione musicale del viaggio. Nella successiva scena di realistica descrizione della battaglia, Schumann ricorre per l’unica volta nell’oratorio a una timbrica orchestrale di vaga suggestione “esotica”. Il “dono” per l’Eden è l’ultima goccia di sangue dell’eroe, che cade per la libertà della patria davanti al tiranno Gazna (sono fatti storici, Mahmud di Ghazni nell’XI sec. invase e sottomise Iran, India e Pakistan).

   Trovate chiuse le porte, nonostante le lacrime di compassione dell’Angelo, la Peri riparte per la seconda prova; ora vola in Egitto “colpito da mortale epidemia”. Presso un lago solitario si è rifugiato per morire un giovane appestato, con l’unica consolazione che la promessa sposa sia al sicuro nel palazzo paterno. La Peri è accolta dai Geni del Nilo, creature acquatiche ritratte da una vivace scrittura corale a tre voci, alleggerita dall’assenza dei bassi, su un animatissimo lavoro orchestrale (quest’episodio è assente in Moore). Vedendo la terra minata dalla peste, la Peri piange; la musica di Schumann realizza qui un senso di sollievo e sofferenza al tempo stesso non traducibile a parole, grazie all’ampio disegno di violoncelli e violini su cui il tenore-narratore declama: “Per le lacrime [della Peri] risplende intorno l’aria, il cielo sorride” e il disegno sofferente-consolatorio si trasmette al quartetto di voci sole (“Nella lacrima è una magica potenza”).

   Come nella prima sezione, anche qui dopo la descrizione inizia l’azione, la scena “in presa diretta”: prima era la guerra, ora è l’arrivo della giovane che, seguito l’amato, vuole morire con lui. Abbracciando il corpo appestato (la musica idealizza, ma si può misurare l’effetto di commozione se si pensa come in questi anni Balzac descrive impietosamente la devastazione fisica della malattia), la giovane bacia l’amato e la morte coglie entrambi in questo momento. La Peri porta l’ultimo respiro degli amanti all’Angelo, ma l’Eden resta chiuso; affranta ma instancabile, per il terzo dono la Peri vola in Siria, presso il tempio di Baalbek nella valle della Beqaa. Ancora una lunga sezione descrittiva precede la scena principale: un delinquente macchiatosi dei peggiori delitti, vedendo un fanciullo in preghiera, ricorda la sua purezza prima della colpa, e trova il coraggio di inginocchiarsi e pregare. Sui suoi occhi una lacrima di pentimento brilla per un raggio, nel quale la Peri riconosce il sorriso dell’Angelo; e finalmente quella lacrima le apre luminosamente le porte dell’Eden.

    Le due prime prove sono prove di morte: la Peri coglie ultimi attimi di vita, “doni” non graditi ad Allah, che non redimono ma concludono tragicamente una vita terrena; al contrario il terzo dono apre una nuova vita anche sulla terra, la vita libera dal senso di colpa. Nella spiritualità musulmana, il luterano Schumann trova così in Allah la figura di un dio che perdona e concede una nuova vita. Non so se mai è stato alzato un inno più “sereno” all’armonica unità fra religioni diverse. Il significato di questo finale di redenzione individuale si avvicina al finale di redenzione universale del “coro mistico” che chiude il Faust goethiano; e questo può sembrare un accostamento eccessivo solo se ci si ferma alle situazioni, ai versi, ai contenuti referenziali del Paradiso e la Peri, a volte apparentemente ingenui.

Ma Schumann è un compositore, il suo messaggio è trasmesso dalla musica, non dalle parole; e la musica descrive un percorso nel buio, nelle tragedie umane (guerra, amore e morte) per raggiungere la luminosa redenzione attraverso il pentimento, la preghiera, le lacrime. Questo è il percorso che Schumann indica agli “uomini sereni”. E se l’immagine della lacrima illuminata dalla grazia ha qualcosa di “ingenuo” e forse inattuale per noi uomini del terzo millennio, disincantati e concreti, tutto viene trasfigurato e idealmente nobilitato dalla musica. Questa è la forma di spiritualità sentimentalizzata che il compositore consegna al suo oratorio».

Antonio Rostagno

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    Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

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