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Creato da giuliosforza il 28/11/2008
Riflessione filosofico-poetico-musicale
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Messaggi di Giugno 2024
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Ho conosciuto in rete una giovane seria e informata, studiosa poliglotta e …polimatica (risuscito il termine in senso positivo etimologico e non limitativo come oggi lo si intenderebbe) dal bel nome di Linda Guerrini, un nome che mi evoca uno dei poeti ai quali son dedicate le strade del nuovo quartiere Talenti di Roma: Olindo Guerrini. Che sia un suo avo? Guerrini, che fra i tanti suoi vari eteronimi usava firmarsi anche Lorenzo Stecchetti, nome col quale fu più conosciuto, fu un poeta non degli ultimi tra quelli della generazione seconda metà Ottocento - primo Novecento (1848-1949), ed io prima che la febbre dannunziana mi divorasse, lo ebbi fra i più frequentati. In questo anno pucciniano (è il Lucchese il musicista che con Wagner prediligo) sto approfondendo l’argomento dei rapporti tra Puccini e D’Annunzio mai conclusisi, nonostante i reciproci desideri, con un’opera che avrebbe potuto dare origine a un Gesamtkunstwerk a due unico al mondo. Non che i Mascagni, i Pizzetti, gli Zandanoi e i Debussy che misero in musica opere del Pesecarese, fossero da gettare. Ma Puccini è un’altra cosa!
Di Linda Guerrini mi permetto di riprodurre qui, sperando non le dispiaccia, un bell’articolo riguardante i rapporti epistolari D’Annunzio-Puccini, prezioso per gli amanti della Poesia dell’Uno e della Musica dell’Altro: due nomi che bastano da soli, pur ignorati dalle Accademie, a glorificare nel mondo Calliope ed Euterpe, come nessun altro mai; troppo grandi per le Accademie, come il Nolano achademici di nulla achademia.
“Linda Guerrini, Il poeta e il maestro (Linda Guerrini, Il poeta e il maestro, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 35, no. 8, gennaio/aprile2014)”.
“Agli studiosi dannunziani è cosa abbastanza nota che Gabriele D’Annunzio e Giacomo Puccini cercarono più volte di collaborare per la creazione di un’opera che unisse, come afferma Aldo Simeone, “il melodramma al dramma moderno”1). Tale collaborazione peraltro non avvenne mai, o, per meglio dire, non produsse mai risultati. Ci si è chiesti spesso il perché. Critici e studiosi di vario orientamento hanno tentato di fornire risposte, ma – a mio parere – il problema reale va individuato nella diversità di carattere dei due artisti: D’Annunzio mirava sempre a essere eccezionale tout court, mentre Puccini era più modesto, accontentandosi di “essere qualcuno”. Ma analizziamo per un attimo le due individualità. Pur avendo idee alquanto diverse sia sulla struttura di un’opera teatrale, sia in politica (D’Annunzio era filofrancese e interventista, Puccini filotedesco e neutralista), coltivavano interessi comuni: il dandismo, i motori, la concezione arte = merce e un’indubbia tendenza alle intense passioni amorose – un magnanimo eufemismo? Chissà. Le motivazioni che li spingevano a una collaborazione erano comunque differenti: il ‘Vate’, sempre in cerca di popolarità (e anche di danaro, vista la sua incontenibile propensione a sprecarlo), ambiva al vasto pubblico pucciniano, mentre il compositore ammirava lo spirito innovatore di D’Annunzio. A ogni modo, i due s’incontrarono grazie alle sollecitazioni di ‘operatori culturali’ come Tito e Giulio Ricordi, il procuratore Carlo Clausetti e altri, che fecero molto spesso, soprattutto all’inizio, anche da intermediari: proprio per questo, nella ricostruzione del carteggio, sono state indispensabili le lettere che i due artisti spedivano e ricevevano da tali personaggi. Queste, purtroppo, sono molto più numerose rispetto a quelle del carteggio diretto fra D’Annunzio e Puccini, poiché, soprattutto quelle scritte dal Poeta, sono in gran parte andate perdute – o eccessivamente deteriorate. Ciò ha determinato l’opinione secondo cui il poeta, spesse volte, evitasse di rispondere alle pressanti richieste pucciniane, negandosi con piccole scuse. Ora, pur conoscendo i comportamenti di D’Annunzio verso alcuni ospiti che definiva “sgraditi” all’epoca del soggiorno a Gardone, giova nondimeno ricordare che il il poeta e il maestro «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», ISSN 2280-8833, 35, gennaio/aprile2014 | 2) poeta nutriva per Puccini una grande stima: è improbabile dunque che gli si negasse. Inoltre, la collaborazione col maestro lucchese poteva essere occasione rara per dar vita ad una sorta di opera totale di respiro wagneriano, che unisse la totalità delle arti. In futuro, fallite le trattative con Puccini, D’Annunzio non abbandonerà questo progetto, mettendo in scena prima la ‘Pisanella’ (1913), musicata da Ildebrando Pizzetti, poi la ‘Parisina’ (1913), per la quale D’Annunzio collaborò con Mascagni e, infine, la ‘Francesca da Rimini’ (1914), tratta da una sua tragedia, scritta in forma di libretto da Tito Ricordi e musicata da Riccardo Zandonai. Entrambi i soggetti, come oggi è ben noto, erano stati pensati inizialmente per Puccini. I due furono in trattativa dal 1894 al 1913. Tutto iniziò quando D’Annunzio, che da qualche tempo si era affacciato sul panorama teatrale, decise d’intraprendere la carriera di librettista e quindi scrisse a Ricordi per trovare un musicista adatto alle sue esigenze. Il procuratore Carlo Clausetti lo mise in contatto con Giacomo Puccini, allora compositore emergente dotato di talento e capacità innovative non comuni, reduce dal successo della ‘Manon Lescaut’. All’inizio, le trattative sembravano impossibili, perché i costi dannunziani erano davvero eccessivi (chiedeva 40000 lire, cifra enorme per l’epoca). Nel 1889 D’Annunzio si trovava in pessime acque, a causa dei debiti contratti comprando la “Capponcina”, nonché per gli innumerevoli insuccessi delle sue tragedie. Già prima della loro conoscenza diretta, Puccini si era mostrato gentile con il poeta: ad esempio, in occasione della prima della ‘Città morta’ dannunziana – un vero fiasco –, il musicista toscano stese un encomio per l’opera, definendo fra l’altro l’autore “caro mio fratello d’arte”. Il primo tentativo di collaborazione risale, almeno dai documenti in nostro possesso, al 1900. Si tratta del ‘Cecco D’Ascoli’, opera della quale però non ci è pervenuta alcuna traccia, se non le righe che Puccini scrisse a Giulio Ricordi, ove si diceva impaziente di ottenere da D’Annunzio la traccia del primo atto. Questo non fu mai scritto e il soggetto fu abbandonato. Registriamo le successive trattative solo dopo sei anni, nel 1906. Questa volta i due sembrano molto più motivati, s’impegnano davvero reciprocamente. D’Annunzio scrive a Tito Ricordi: “Spero di poter offrire al Maestro Puccini un poema ove il più ardente soffio umano attraversi le visioni della più insolita poesia”2) . Sono decisi a trovare un compromesso, ossia a creare un’opera adatta all’indole di Puccini ma, nel contempo, conforme alla più schietta maniera dannunziana. L’homme de lettres abruzzese questa volta non gonfierà i costi: come egli stesso sostenne, la “Santa Poesia” cedeva volentieri il passo a “Madonna Equità”. È importante sottolineare, probabilmente, che il poeta offrì sempre al compositore progetti completamente nuovi, dichiarandosi inoltre disponibile a modifiche, cosa che non fece mai neppure con Debussy . Risale al 23 febbraio 1906 il primo contatto diretto fra i due artisti: qui inizia la collaborazione vera e propria. Frutto di questa sarà Parisina (che doveva far parte del “ciclo dei Malatesti” assieme alla Francesca da Rimini), un soggetto tratto dal celebre poemetto di Il poeta e il maestro «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», ISSN 2280-8833, 35, gennaio/aprile2014 | 3 Lord Byron. Ma anche questa volta, a causa del poeta, le trattative furono abbandonate: ritardava sempre la data di consegna del libretto; inoltre, trovandosi coperto di debiti e perseguitato da creditori, chiedeva di continuo prestiti a Ricordi. Per di più, D’Annunzio si negava talora al maestro, accusando una misteriosa “malattia”, di cui però non resta alcuna traccia negli epistolari. Non fu la sola causa delle fallite trattative: quando Puccini, già spazientito per il comportamento del ‘Vate’, vide finalmente il libretto di Parisina, non lo gradì affatto, considerandolo una mera “riscrittura della Francesca da Rimini”. Il 5 agosto dello stesso anno si registra un nuovo incontro fra i due, dal quale Puccini sembra congedarsi soddisfatto: il giorno dopo scrive a Giulio Ricordi che D‘Annunzio è “sempre un po’ nelle nuvole”, ma che comunque lo ritiene “sceso verso terra abbastanza”3 . Avevano così pianificato un nuovo progetto: La Rosa di Cipro. Questa volta il soggetto è del tutto inedito e D’Annunzio sembra avere idee molto chiare circa la stesura del libretto. Il ‘Vate’ crede in quest’opera: lo dimostra una lettera piena di “fiammeggianti ideazioni poetiche” che spedisce a Puccini, e un’altra, diretta a Giulio Ricordi, ove elogia il lavoro che sta per compiere. I due artisti s’incontrano e il poeta legge al maestro il primo atto della Rosa. Sembra la volta buona. Qualcosa però va storto: qualche giorno dopo, D’Annunzio riceve una lettera di Puccini (andata purtroppo perduta), in cui quest’ultimo annuncia un ripensamento. Il problema, questa volta, erano le loro differenti concezioni di poesia: il toscano propendeva per una poesia carnale, sorprendente, con un “razzo finale”, tutte caratteristiche che il primo atto della Rosa non possedeva, dal momento che l’abruzzese aveva posto al centro del suo lavoro la “pura rappresentazione estetica della bellezza”4 . In altri termini, al musicista era stata proposta una pura e semplice descrizione paesaggistica senza alcun’ombra d’azione! In futuro, questo scritto sarà utilizzato unicamente per lo scenario incluso nell’Allegoria d’Autunno, mentre il soggetto sarà ripreso per la Pisanella. Dopo questo ulteriore fallimento, Puccini e D’Annunzio continueranno a sentirsi sporadicamente, con missive che comunque rivelano grande stima reciproca, anche se in una lettera ad un amico il poeta scriverà: “I miei contatti col maestro lucchese sono stati sterili. Egli si sbigottisce di fronte alla forza della poesia!”5 . Ciò denota che il ‘Vate’, persona orgogliosissima e mai disposta – come ricordato prima – a modificare i propri testi, si era stancato dei continui ripensamenti di Puccini e delle sue critiche. Dal canto suo, il compositore non si rassegnava all’idea che non si potesse trovare un accordo fra loro, e continuava a scrivere lettere supplichevoli a D’Annunzio. A ogni modo, le trattative sfumarono di nuovo nell’autunno 1906. Il poeta non era, di fatto, più interessato a tale collaborazione, anche perché aveva, al momento, parecchi progetti da cui si aspettava successi. Non fu così: nell’ottobre dello stesso anno, ci fu la prima di Più che Il poeta e il maestro «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», ISSN 2280-8833, 35, gennaio/aprile2014 | 4 l’amore, una tragedia moderna che, di là dal ‘fiasco’, scatenò un vero e proprio pandemonio. All’uscita dalla sala, il pubblico, scorgendo un gruppo di forze dell’ordine, gridò a squarciagola: “Arrestate l’autore!”. D’Annunzio fu costretto a scappare dall’uscita di sicurezza. Non sappiamo se i due, nei cinque anni che seguirono, si incontrarono, dal momento che non ci è giunta alcuna corrispondenza. Questo, peraltro, è plausibile. Certo è che, nel 1911, i contatti fra i due ritornano assidui: ripartono le trattative per il quarto progetto, La Crociata degli Innocenti. Puccini, questa volta, mette le mani avanti, spiegando in più occasioni al poeta quanto desidera, ossia “amore, dolore, grande dolore in piccole anime”. E così sarà. La trama è molto più ‘tradizionale’, del tutto consona alle richieste pucciniane. Si narra di un pastore, Odimondo, che tradisce la fidanzata, Novella , con una prostituta lebbrosa, Vanna la Vampa. Quest’ultima, per guarire dalla malattia che l’affligge, deve bere il sangue di un innocente, e perciò il pastore sacrifica la sorellina Gaietta. Ma un mistico Pellegrino non solo risuscita l’uccisa, ma converte anche a vita spirituale la donna di malaffare; dopodiché tutti si mettono in viaggio con un gruppo di bambini (gli innocenti) verso la Terra Santa. La nave cade però in mano a briganti, che vogliono vender tutti come schiavi. Ad un certo punto c’è una colluttazione e, per disgrazia, Novella e Gaietta cadono in mare e muoiono. Questa è la punizione di Odimondo per il delitto commesso. La trama è talmente vicina al gusto del maestro lucchese che, più tardi, i critici insinueranno che l’opera possa avere suggerito l’atmosfera e alcuni caratteri della Turandot. A novembre Puccini viene ospitato per due giorni dal poeta ad Arcachon (D’Annunzio si era trasferito in Francia dal 1910 per cure odontoiatriche). Anche dopo questo periodo, in alcune lettere ad amici, il ‘Vate’ sembra piuttosto spazientito dall’incontentabilità del maestro circa i suoi scritti. Puccini però era già al lavoro per musicare il primo atto, benché questo tardasse ad arrivare. D’Annunzio lo terminerà solo nel 1913 e Puccini, leggendolo, ne sarà entusiasta, anche se con qualche riserva: “Caro Gabriele – ho nelle mani lo scritto tuo – l’ho letto e lo rileggo: mi penetra poco a poco – e voglio che mi trapassi! […] non mi stancherò mai di raccomandarti = laconismo = cioè l’economia delle tue belle parole – per la mia brutta musica!”6 . Ma, a prescindere da tali osservazioni, il primo atto gli era piaciuto davvero molto. Qualche giorno dopo, il poeta spedisce al maestro pure gli altri atti, mostrandosi entusiasta del proprio lavoro. Scrive: “Vedrai come io abbia conciliato l’elemento mistico con l’elemento drammatico (ed era difficilissima cosa!)”7. Ma quando Puccini riceve gli scritti non è affatto della stessa idea: quelle scene gli appaiono inaccettabili, alcuni elementi su cui si erano accordati sono stati cambiati radicalmente, tutto è diverso, in una parola, da quanto pattuito. In una lettera a un’amica, il maestro toscano definirà la Crociata una “piccola, informe mostruosità”. La colpa, questa volta, non Il poeta e il maestro «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», ISSN 2280-8833, 35, gennaio/aprile2014 | 5 può non essere attribuita a D’Annunzio: persino Tito Ricordi, dopo aver letto gli atti, lo accuserà di non averci creduto abbastanza e di non aver speso al massimo le sue potenzialità, a differenza di quanto fatto dal Maestro. Il progetto viene, per l’ennesima volta, abbandonato. Nello stesso anno, forse consapevole di aver sbagliato e desideroso di riparare, è il poeta a proporre a Puccini la creazione di un atto unico: rimase solo una proposta, anche perché il toscano era alle prese con altre opere (di futuro successo), e l’abruzzese aveva trovato, nel frattempo, due compositori che lo accontentavano in tutto e per tutto: Pietro Mascagni e Ildebrando Pizzetti. Nel 1914 cessano definitivamente le trattative fra due dei più grandi artisti del primo Novecento. Durante l’impresa fiumana, Giacomo Puccini, in una lettera a un amico, lascia trapelare il disappunto per l’estremismo dannunziano e commenta: “D’Annunzio non è contento e occupa”. Tuttavia, nel 1921, il maestro sentì il bisogno di scrivere al “recluso di Gardone” il proprio entusiasmo per la svolta del Notturno: “Auguri fervidi! Il tuo nuovo libro ha pagine di vibrazione e di sentimento che conquistano e affascinano”8 . Ma un episodio singolare, quasi inspiegabile, è quello della commemorazione del maestro alla sua morte (29 novembre del 1924). Il comitato per le onoranze funebri aveva scritto a D’Annunzio affinché componesse un discorso per il defunto, che avrebbe dovuto essere pronunciato all’inaugurazione di un monumento in suo onore. D’Annunzio non rispose. Prima di condannare il gesto, è opportuno tuttavia ricordare che il periodo del Vittoriale fu molto buio e che il poeta non fece mai uscire alcuna lettera dai cancelli di Gardone. D’altro canto, egli non era nuovo a questi episodi: un fatto simile era successo alla morte di Wagner. L’ultima parola sul loro rapporto toccò proprio al Vate, che nel Libro Segreto scrisse: “Ecco il lago di Massaciuccoli (a Lucca, terra natia di Puccini) tanto ricco di cacciagione quanto povero d’ispirazione”. Quell’ispirazione carente, sembra dire il poeta, avrebbe dovuto essere soccorsa dalla sua di “poeta immaginifico”: andava invece a inserirsi nel novero degli atti mancati, delle delusioni, dei rimpianti".
Note 1. A. Simeone (a c. di), Gabriele D’Annunzio, Giacomo Puccini, Il carteggio recuperato (1894 – 1922), Carabba, Lanciano, 2009. 2. Lettera di D’Annunzio a T. Ricordi del 16 febbraio 1906. 3. Lettera di Puccini a G. Ricordi del 6 Agosto 1906; Lettera di D’Annunzio
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Chàirete Dàimones!
Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)
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Ritrovo e pubblico con piacere: è il ricordo di uno dei mille eventi musicali che hanno costellato la mia vita, raccontato sulla sua rivista dal prof Luigi Scialanca, uno che fa cultura, che è cultura. E per questo la scuola sa redimre a skolé.
“ScuolAnticoli Libera Scuola di Umanità diretta da Luigi Scialanca
“La Musica e il Canto popolare nella Valle dell’Aniene Professor Giulio Sforza - associazione culturale Vivarium Civico Museo d’Arte Moderna di Anticoli Corrado, sabato 13 ottobre 200 |
“Sabato 13 ottobre 2007, in una sala dello splendido Museo di Anticoli Corrado, abbiamo partecipato a un evento che è stato anch’esso un’opera d’arte. E che, in quanto tale, ha suscitato in noi la fantasticheria di un futuro in cui sarà forse possibile “incorniciare” e conservare, nella loro sensuale pienezza, non solo il “testo”, ma le emozioni, quello che potremmo chiamare il “clima” personale e interpersonale, i colori, le scoperte, i silenziosi soprassalti dei momenti perfetti che di quando in quando ci sono offerti da persone eccezionali, o da persone comuni in un eccezionale istante di assoluta “grazia”, o da entrambi quando i primi, com’è accaduto in questo caso, riescono quasi per magia a dar vita nei secondi a una così rara condizione. Parliamo delle Riflessioni sul canto e la musica popolare che il professor Giulio Sforza ha generosamente condiviso con noi nel corso di uno dei più suggestivi appuntamenti di questo bel Festival degli Antichi Suoni che da settembre anima i finesettimana della Valle dell’Aniene. Riflessioni che non sono state oggetto solo di una “conferenza”, ma al tempo stesso anche di uno spettacolo e di un concerto; e nelle quali Giulio Sforza ha saputo così meravigliosamente coinvolgerci da trasformare anche noi in una sorta di “coro” interpretante e commentante: certo, non così esperto e versatile come il vero coro dell’associazione Vivarium che frattanto le illustrava con i suoi canti, alla ‘mbriachegna e non, ma in qualche modo altrettanto presente, altrettanto consapevole dell’importanza della propria funzione nell’assicurare la godibilità e il successo dell’evento. “Insegnanti” di questa fatta sono così rari che incontrandone uno viene spontaneo chiamarlo, piuttosto, Maestro. Poiché, presentando il volume I Vivaresi e il Canto Popolare, antologia di musiche e testi scelti e annotati da Beatrice Sforza e Francesco Petrucci, il professor Sforza ci ha letteralmente sollevato e portato con sé (con la parola, col gesto, col terribile sguardo animato non soltanto da implacabile intelligenza, ma anche, per fortuna nostra, da affabile levità ― non a caso è L’evità il titolo della sua ultima raccolta di liriche dell’immanenza) dalla Grecia dei culti dionisiaci alle osterie di Vivaro, dalla Bayreuth di Richard Wagner alla Pescara di Gabriele D’Annunzio, dai monti ove con lui dimorò Zarathustra (Giulio Sforza, Canti di Pan e Ritmi del Thiaso, Subiaco, 2005, p. 74) alle meno rischiose valli ove gli apprendisti come noi si accontentano e son già deliziati dal sentirne parlare così profondamente e voluttuosamente: pendevamo dalle sue labbra, né più né meno come il coro dell’associazione Vivarium pendeva dalla sua mano e dal suo diapason, e a poco a poco la parola e il canto si son fusi nelle nostre menti in quell’armonia così rara, così difficile da ottenere, che è dei sensi e dell’immaginazione insieme”. Il prof Scialanca riproduce anche la quarta di copertina dei mei volumi poetici, aggiornata in Dis-Incanti. Fa piacere riprodurla amche a me a vantaggio di chi vorrebbe saperne di più sull’autore di queste …dianoie metanoie paranoie…Più paranoie, per la verità!
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Giornata uggiosa. Minaccia pioggia. Al mio borgo su 134 iscritti finora hanno votato in undici, me compreso anarchico conclamato. Ho ceduto alle richieste di una donna. Merito per questo condanna? Amici anarchici andate a votare, perché non debba troppo vergognarmi. Frattanto io mi rilasso con qualche strofetta metastasiana, che fab proprio al caso, come
“Se a ciascun l’interno affanno
Si leggesse in fronte scritto
Quanti mai che invidia fanno
Ci farebbero pietà”.
e con la lettura delle serissime facetissime genialissime comico-tragico-surreali “Intermittenze della Morte” di Saramago, che nel suo simpatico e comodo stile di scrittura, che elimina quasi tutti i punti di interpunzione, al quale sarei tentato di adeguarmi, ci dnarra delle conseguenze che in uno Stato imprecisato causa un mattino di capodanno l’improvviso sciopero generale della morte.
e per associazione di idee mi sovviene della Sibilla cumana che, impetrata dagli dei l’immortalità e ottenutala, avendo dimenticato di chiedere contemporaneamente la giovinezza eterna invecchiava a tal punto da diventare sempre più una sorta di larva e finire entro un’ampolla e ai devoti che le chiedevano Sybilla ti teleis Sibilla che desideri ripondeva con voce impercettibile come proveniente da lontananze siderali apothanein telo apothanein telo voglio morire voglio morire.
Ed ora ‘Chairete’ se potete.
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Vagando per la rete mi sono per caso imbattuto nel seguente intervento di Lorenzo Fortunati che si pone il problema della libertà della rete, sempre ma in quel periodo particolarmente sentito e discusso: argomento che egli trovò trattato da me nel post 241 (26 gennaio 2010) di questo blog, e che volle, con parole assai elogiative nei miei riguardi di cui lo ringrazio, riproporre all’attenzione ei suoi lettori. È il caso che anche io qui lo riproduca, ritenendo il problema della libertà della rete dal recente episodio dello spegnimento del mio blog per alcuni giorni riposto, poiché mi sembra che in esso il tema sia trattato da me con una chiarezza che non mio è solita e in uno stile piano che non mi fu e non mi è troppo familiare.
Scrive dunque Lorenzo:
“Settantasettenne e inattuale, da due anni blogger, uomo di rara cultura e sapienza, Giulio Sforza è capace di donare a noi internauti ‘consumati’ una interpretazione della libertà del Web che millenni luce avanti a quella dei tanti meschini Riottelli che abbiamo per l’aere digital televisivo, invocando filtri, cani e guardiani per le rete di domani.
Stavolta le sue parole sono semplici, almeno in gran parte, per cui segue un invito alla lettura che rivolgo a voi amici. Riporto qui un post del suo blog Dis-Incanti, ma non commentate qui sotto, non solo almeno: vi chiedo di lasciare un piccolo commento, direttamente a lui, QUI. Anche un seplice ‘grazie’ avrà del valore”.
Post 241 di Giulio Sforza
“Verità, verità, verità, che è la Verità? Chi più esplicitamente, che implicitamente, tutti alla fatidica parola fanno riferimento. Ma quale la verità che si vorrebbe dalla rete? La verità di chi? Io credo che richiedere ad essa qualcosa di più che una pura e semplice precisione di dati, dico dati, e di opinioni, dico discutibili opinioni, sia prevaricante e prepari la strada alle censure indiscriminate o mirate (cosa che del resto già si sa avvenire o minacciarsi da più parti) dei regimi preoccupati solo della loro verità, cioè del loro potere. Chi di grazia dovrebbe controllare i contenuti del Web, le idee dei suoi utenti, magari i loro aborti di idee, le loro idee insanite od in sanie? E con quale diritto? Che una nostalgia strisciante per le sacre investiture e i diritti divini si stia impadronendo degli spiriti deboli? Che sia già pronto, da qualche parte l’Indice dei siti e dei blog proibiti, in procinto di essere pubblicato e con violenza difeso dagli sgherri delle nuove Inquisizioni (laiche o religiose che siano), appena la vigilanza degli spiriti liberi e forti s’allenti? E che stia risorgendo un Istituto per la preservazione della fede? E che si preparino i roghi per i dissidenti e gli eretici, per i naviganti che amino vagare e ‘bacchabondare’, posseduti da ulisside smania di conoscenza, alla ricerca di mondi diversi, fuori dalle prescritte rotte? Simile ad una tavola imbandita sia il Web, ricolma di ogni ben di Dio e di ogni più diabolica, magari attossicante, pietanza, premessa ineliminabile, per altro sì per ogni pericolosa abbuffata ma anche per la più squisita delle autoeducazioni alimentari. Cornucopia ricolmo la rete cui ad ognuno sia consentito di accedere che fame e sete di conoscenza tormentino. Come si può pretendere che l’autoeducazione ( e tale è solo e sempre una verace educazione) alla continenza del sé (cum-teneo, tengo insieme unito) possa veramente avvenire? Non è l’abbondanza delle opportunità e delle disponibilità fondamentale perché una libera scelta sia pensabile? È forse possibilità di locupletazione ove non sia variegatissima offerta? Ed è possibilità di libertà ove non sia possibilità di totale libertà? Non è forse la libertà il più alto dei rischi? Ma non è forse il rischio della libertà pur sempre minima cosa al confronto dei danni certi che la mancanza di libertà assicura? So bene la libertà essere, in ogni campo, figlia di estremo rigore; e so di tutti i bla bla moralistici che i propugnatori delle scelte obbligate (ivi compreso il grande dandy dell’esistenzialismo engagé Jean-Paul Sartre) oppongono alle argomentazioni, per essi sofismi, di chi nega l’esito obbligatorio della libertà dover essere la scelta, in realtà della libertà sostanziale negazione. Atto supremo di libertà è anche, e non è più di tanto paradossale, morire, come l’asino di Buridano, di fame e di sete, non certo per incapacità di scelta, ma per non volontà di scelta, per ludica, orgiastica, débauchée fedeltà alla libertà di scelta, che è anche scelta della non scelta.
Temo proprio, anzi non temo affatto, me ne compiaccio, doverci tener quell’universale Nous poietikòs ed insieme pathetikòs (che volgare dirlo contenitore!) che la Rete rappresenta tale quale è, e lottare perché tale e quale, salvi fatto gli auspicabili perfezionamenti tecnici che dilatino gli orizzonti e le opportunità, rimanga”.
Chàirete Dàimones
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