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25 dicembre

Post n°177 pubblicato il 25 Dicembre 2011 da fulov
 

Natale del '43

Per molti anni, a casa mia, si è festeggiato un doppio Natale. La nonna paterna,abruzzese e cattolica, preparava per tempo il presepe. Era un gran presepe affollato di pastori, mucche, asinelli, Re Magi e in mezzo la grotta ricoperta di muschio, dove tra Maria e l’asinello in un bel cestino c’era Gesù. Mia madre, lituana ed ebrea, attorno alla stessa data si concentrava sul rito della Hannuka, tenendo acceso il vecchio candelabro a nove braccia, unica eredità e ricordo del padre, rabbino di Kowno. La nonna abruzzese e la mamma lituana avevano dimenticato le preghiere della loro infanzia, ma della festa, si chiamasse Natale o Hannuka, amavano il rituale che la prepara e l’accompagna. E dunque, i vestiti bianchi delle bambine, la tavola preparata con particolare cura, i numerosi antipasti di pesce, la minestra con l’arzilla, il cesto con il torrone, i fichi secchi e i dolci fritti, le statuine da tirar fuori con cura dalle scatole in cui erano state risposte l’anno precedente, l’odore delle candele che dovevano rimanere accese per non so quanti giorni. La festa dunque, nel mio ricordo, aveva assai poco di religioso. Ma era una vera festa, un incontro di più generazioni, con i vecchi a capotavola e i bambini allegramente ammessi alla cena dei grandi (senza scambi di regali, però, che allora non usavano; o meglio, i regali per i bambini, contrariamente a quanto accade oggi, arrivavano solo un paio di settimane dopo e non li portava Babbo Natale ma la Befana). Poi, dopo l’approvazione delle leggi razziali e con la guerra, anche il nostro Natale inevitabilmente cambiò. La nonna abruzzese che preparava il presepe non c’era più. E le relative statuine erano andate perdute in qualche frettoloso trasloco. Ma mia madre aveva conservato con cura il candelabro del nonno rabbino e continuava ad accenderne le candele per Hannuka. Nel corso degli anni la cena diventava sempre più sobria, e i dolci sempre più rari. E non sempre c’era mio padre, che allo scoppio della guerra era stato richiamato alle armi. Comunque, era sempre Natale o Hannuka, che dir si voglia. Una serata nella quale si intrecciavano i ricordi e i propositi per il futuro. E tuttavia, se debbo ricordare un Natale particolarmente ricco di emozione e di speranza, la mia memoria va immediatamente al Natale del 1943. A settembre era stato firmato l’armistizio, ma la guerra non era finita. Roma, occupata dai tedeschi, era entrata nel tunnel della fame e della paura. E affamati e impauriti eravamo anche noi nella nostra casa dietro piazzale Flaminio che ci era stata ceduta da un amico collezionista d’arte, rifugiato altrove in una sua villa di campagna. In città i trasporti erano incerti. Incerta l’erogazione del gas e dell’elettricità. Più che incerta la distribuzione dei viveri. La città era come stranita, percorsa da notizie e voci sempre più incontrollabili e inquietanti. A piazza del Popolo, a Porta Pia, a Porta Maggiore stazionavano i carri armati tedeschi. Si diceva che gli ebrei del Ghetto, non si sapeva quanti fossero, erano stati cacciati, di notte, dalle loro case, e poi caricati sui camion verso destinazione ignota.Si parlava, sottovoce degli uomini arrestati dalle Ss, trascinati in una palazzina di via Tasso e lì torturati a morte. Si parlava delle razzie operate dai tedeschi che, all’improvviso, circondavano un palazzo per stanare i giovani renitenti alla leva, nascosti da settimane nelle cantine, nelle soffitte o in qualche appartamento dietro un muro. La città viveva nella fame e nella paura. E nell’attesa dell’arrivo degli Alleati. Piazza San Pietro era tagliata in due da una striscia bianca disegnata in terra che delimitava l’inizio dello Stato della Città del Vaticano. I tedeschi non potevano varcare quella striscia di confine e si facevano fotografare lì, sullo sfondo della basilica, con aria divertita e marziale. A Villa Borghese pascolavano le pecore e le aiuole di Roma (anche quella di piazza Venezia) erano state trasformate in miserabili «orti di guerra». Alle sette di sera scattava il coprifuoco. I portoni delle case si chiudevano. Si chiudevano le finestre dalle quali non doveva trapelare nemmeno una lama di luce. Le strade erano buie e deserte. Dopo le sette di sera potevano circolare soltanto i militari, fascisti o tedeschi, e i civili che avessero un permesso speciale, i tipografi, i medici, gli infermieri. Ma per Natale ci fu una novità. Il comando tedesco ordinò lo spostamento del coprifuoco dalle sette alle nove di sera. Per tre giorni, il 24, il 25 e il 26 dicembre, avremmo potuto godere di due ore di libertà in più. E noi ci godemmo quelle due ore di libertà in più andando alla ricerca di carrube e mosciarelle (le castagne secche che potevano essere masticate per ore) che avrebbero sostituito sulla tavola natalizia i dolci di una volta. La casa che l’amico collezionista ci aveva affidato era grande e bene arredata, conservava il ricordo di lontane feste e ricevimenti ai quali noi non avevamo partecipato. E all’improvviso ci venne in mente di festeggiare lì il nostro Natale del 1943. Chiamando a raccolta, per quella sera, i nostri amici più cari. Nonostante il freddo, la fame, la paura. Mia madre venne convinta a sacrificare, per l’occasione, un mastello di marmellata gelosamente conservato da tempo immemorabile. Le patate, nascoste da mesi in cantina, avevano messo i germogli e passammo un intero pomeriggio a ripulirle. La cena, decidemmo, doveva essere una vera cena, alla quale tutti avrebbero contribuito portando qualcosa: un mezzo chilo di pasta, una mezza bottiglia d’olio, una scatola di pomodori. Degli aranci. Del pane. Del formaggio. E vino, in abbondanza. E cena fu, come avevamo deciso. Non ricordo se mia madre accese anche quell’anno il candelabro a nove braccia che era stato del padre rabbino a Kowno. Ma ricordo la nostra allegria, la sicurezza con la quale tutti, un po’ ubriachi, brindammo abbracciandoci all’ultimo Natale di guerra. Non era solo una speranza. Eravamo sicuri che l’anno successivo non ci sarebbero stati più tedeschi a Roma. Era la nostra scommessa di adolescenti, impegnati da mesi a distribuire giornaletti clandestini e a scrivere di nascosto sui muri «abbasso i tedeschi». Ed eravamo sicuri di avere ragione, sicuri che alla fine avremmo vinto noi. Eravamo giovani... Il più vecchio tra noi, Maurizio Ferrara, aveva ventidue anni. E aveva appena compiuto i vent’anni Maria Antonietta Macciocchi, responsabile delle donne comuniste dalla nostra zona che mi aveva ordinato «se ti fermano mentre hai l’Unità in borsa, devi mangiarla» (per fortuna non mi è mai successo). La più giovane era mia sorella Giulia che, a tredici anni, aveva avuto il compito di cucire, per il giorno della liberazione, una quantità di coccarde tricolori. La Resistenza era per noi un’avventura, un gioco, una sfida. Dalla quale eravamo sicuri di uscire vincitori (la bella sicurezza di essere nel giusto che pian piano, negli anni della maturità,avremmo perduto). Così un Natale di freddo, di fame, di paura si trasformò (e tale è rimasto nella mia memoria) nel più bel Natale della mia vita, di amicizia, di festa e di speranza. All’alba, appena possibile, uscimmo tutti assieme. Arrivammo fino al Pincio. Faceva un gran freddo e i nostri cappotti erano miserabili. Sotto di noi la piazza era vuota. Eravamo ubriachi e felici. Sicuri di avercela fatta. E, dopotutto, avevamo ragione. Su quella piazza, solo qualche mese dopo, vedemmo arrivare i primi carri armati inglesi e americani.

Miriam Mafai
(da “La Repubblica” del 23 dicembre 2007)

 
 
 
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