Creato da middlemarch_g il 24/01/2008
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Livorno-Parigi sola andata

Post n°513 pubblicato il 04 Giugno 2009 da middlemarch_g

C’è che Lupo ha scritto su Modigliani delle cose che mi hanno fatto pensare. Di più, mi hanno spinto sul terreno sdrucciolevole dell’identificazione con la moglie Jeanne, che oltre ad essere la sua compagna, e la madre delle sue figlie, fu anche lei pittrice, e come parecchie altre donne capitate sulla traiettoria di un uomo molto grande, ha finito per essere assorbita dalla sua leggenda come una chiazza d’umido da uno strofinaccio. Chissà perché non capita mai il contrario. Dev’essere il fatto che le donne hanno nel sangue le svolte biografiche ad inclinazione ancillare: quando c’è spazio per una sola stella, ci intriga la vocazione a farci da parte e a lasciare il palcoscenico a disposizione del compagno che abbiamo scelto. Prima o poi qualcuno troverà una ragionevole giustificazione a livello cromosomico, probabilmente ci vincerà un nobel, e nemmeno a quel punto so se riusciremo a farcene una ragione.

Ma comunque, non divaghiamo. La verità è che Modigliani era davvero un talento. Jeanne era brava, ma non mi piace nello stesso modo. Solo che non è neppure questo il punto. Il punto è: cosa guardiamo, o meglio cosa ci raccontiamo quando guardiamo una creatura amata? E’ questo che dice Lupo. Che Modigliani sapeva raccontare le donne. Perché Jeanne era così, e dico così per dar credito a quella convenzione secondo cui una foto può contare su un certo margine di obiettività condivisa, nel senso che voi e io ci dovremmo ipoteticamente vedere la stessa cosa. Poi, nella realtà, che voi ed io si veda la stessa cosa in qualsiasi fenomeno della natura, è pura utopia trascendente priva di qualsiasi fondamento scientifico e non diversa nella sostanza dal dogma della transustanziazione. Ma facciamo finta che. Facciamo finta che anche voi ci vediate quello che vedo io. Quello che vedo io è: portate dell’acqua, che qui c’è un incendio. Veniva da una cattolicissima famiglia, la Jeanne, ma non si direbbe proprio malgrado l’abbigliamento da prefica, vero? Del resto se ti trascini dietro quella vertigine negli occhi, cosa  vuoi coprire? Tempo sprecato, lo capisce chiunque. Questa dunque era Jeanne. Ma anche questa - in via del tutto empirica, sia chiaro - è sempre Jeanne, è la Jeanne che vedeva Modigliani quando guardava la donna che abbiamo appena visto nella foto, la donna che amava e che gli aveva dato le sue figlie, quella nata e quella che non fece in tempo a vedere la luce morendo insieme alla madre che si ammazzò gettandosi dal quinto piano il giorno dopo la morte di lui. E poi c’è una terza Jeanne. C’è la Jeanne di Jeanne, quella del suo autoritratto: questa, e al di là di ogni opinabile considerazione, spero che almeno su una cosa saremo tutti d’accordo. Che non assomiglia alla foto. E non assomiglia alla madre delle figlie di Modigliani. Questa Jeanne è un’altra Jeanne. Ma tutte e tre le Jeanne, e l’infinita ulteriore moltitudine di donne che si portava dentro, se ne sono andate nello stesso modo e nello stesso istante, lasciando questo mondo nello spazio compreso fra il quinto piano di un edificio e il suolo di Parigi, la mattina del 25 gennaio 1920. Il che è un bell’esempio di tutta una serie di leggi fisiche e metafisiche, tipo l’unità nel molteplice, o l’impenetrabilità dei corpi, oltre alle conseguenze nefaste di un uso improprio della forza di gravità.

Per cui quello che mi chiedo è: cos’avrebbe fatto per sé Jeanne, se avesse potuto decidere liberamente? Se l’amore non l’avesse messa nelle condizioni di non poter scegliere niente altro se non il modo più eclatante per rifiutare l’elaborazione del lutto – perché l’amore nel peggiore dei casi fa anche questo, ed è bene dirselo ad alta voce prima che ci capiti magari alla sprovvista, ché poi risolvere all’impronta è un problema per tutti, e spesso non si risolve più niente, in via definitiva. Avrebbe scelto il suo viso, o si sarebbe comunque tenuta quello che le aveva dipinto Modigliani solo perché oggettivamente lui era più grande? E la superiorità estetica del suo talento, ammesso che sia poi una cosa dimostrabile con qualche margine di verosimiglianza, l’avrebbe compensata della rinuncia alla sua identità? O sarebbe stata in grado di tenerseli entrambi, più la luce incendiaria della foto, magari inventarsene anche degli altri che adesso non riusciamo nemmeno a immaginare?

Domande retoriche, non c’è modo di saperlo. Mi viene solo da pensare che in tutta questa storia c’è un’altra Jeanne, che porta il nome di lei, e il cognome di lui. La figlia sopravvissuta, che aveva questa faccia, e che fu allevata in Italia dalla sorella del padre. Non le dissero niente, venne su come una bambina normale e non come l'ultimo verso strillato a squarciagola della leggenda bohémienne che oggettivamente era. Lo scoprì solo da grande, e ci scrisse un libro. A volte la vita fa dei giri larghissimi, talmente larghi che ti pare di averla persa di vista, ti prende un senso di sconforto che sembra ti riguardi da vicino, anche se si parla di altri. Poi un attimo dopo te la ritrovi lì tra i piedi, accucciata come un gatto che si lecca una zampa con la lingua rasposa e poi se la passa dietro un orecchio. Senti che tutto ha un senso, e che anche qui vale il principio dei vasi comunicanti della metafora. Se ha un senso per loro, allora deve averlo anche per me.

 
 
 
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