Prima della guerra passarono nella mia vita due cani che non lasciarono traccia. Li portò a casa papà, non in contemporanea ma uno dopo la morte del primo. Non ricordo i nomi di nessuno dei due perché erano molto simili e anche chiamandoli non si muovevano. Forse non avevano mai avuto un nome, poi erano stati abbandonati. Non dovevano avere una grande opinione dell’ umanità, perché non facevano il minimo sforzo di riconoscenza.
Mangiavano e dormivano, non li ho mai sentiti nemmeno abbaiare; se tentavo di accarezzarli si appiattivano al suolo terrorizzati credendo li volessi picchiare. Morirono nello stesso modo: in silenzio e apparentemente senza una ragione plausibile. Durante la guerra la mamma ci proibì di tenere un cane poiché già faticava a fornire a noi qualcosa da mettere sotto i denti e non avremmo potuto alimentarlo. Avevamo dei gatti che si arrangiavano bene con topi e purtroppo anche uccellini, ma dovevano provvedere al loro mantenimento. Appena avemmo di nuovo la pace, papà durante una sua passeggiata si imbatté in un contadino che aveva una cucciolata appena svezzata da collocare e portò a casa PEPIN, un bastardino di una incredibile intelligenza. Era piccolino e privato della sua mamma e dei fratellini pianse tutta notte, ma la mamma disse che si doveva abituare e dovemmo rassegnarci tutti due. Mi alzai presto il mattino, lo riempii di coccole e cominciò così la nostra convivenza amichevole e affettuosa. Il cane desidera proprio appartenere e pur amando tutti, mi aveva eletta a sua padrona. Se poteva cercava di disobbedire, ma a me mai. Poi io mi sposai e cominciai a vederlo solo la domenica, ma era ben affidato; i miei genitori lo trattavano proprio come un di famiglia e papà lo viziava; aveva preso il mio posto. Era un cane felice, piaceva molto anche a mio marito che lo portava in giro per i campi e lo faceva giocare. Avevamo inventato un gioco che prediligeva. Quando dicevamo: andiamo a fare i matti, lui saltava e guaiva di gioia. Consisteva in questo: avevamo legato uno straccio a un bastone, lui addentava lo straccio e noi lo facevamo roteare in torno sollevato da terra , tipo giostra o lo portavamo in giro appoggiando il bastone sulla spalla. Capiva le parole anche se non erano rivolte a lui. La mamma, mentre stavamo cucinando, mi diceva: se il cane ti da fastidio lo mando fuori ....e lui era già davanti alla porta. Oppure se accucciato stava dormicchiando e noi per scherzare dicevamo: PEPIN è morto. Si alzava abbaiando furiosamente e in questo modo ci smentiva subito. La nascita di mia figlia fu per lui una gioia, l’amò in modo incredibile. Era diventata la sua prediletta e se noi fingevamo di picchiarla, non ci mordeva, ma abbaiava mettendosi davanti a Marina per difenderla. Era un cane che non amava molto essere lavato e quando vedeva la bacinella, correva a nascondersi o si trincerava dietro mio padre, che gli dava ragione perché lo riteneva ancora pulito. I "poverino" di mio padre finivano per avere la meglio e si rimandava a quando il suo protettore andava in città. Allora Pepin si rassegnava ai nostri voleri, però appena papà tornava gli correva incontro e rivelava il nostro crimine abbaiando verso noi e la bacinella. Ricordo gli indignati: AVETE LAVATO IL CANE ! di mio padre e i suoi rassegnati: me lo ha detto poverino! Visse parecchi anni, ma fece a mio parere una fine terribile . Un giorno cominciò con strani comportamenti, mandammo a chiamare il veterinario che allibito ci disse che il cane era idrofobo e pericoloso e che doveva fargli subito un’iniezione. Io piangevo e chiedevo se non si poteva curare. Non si spiegò come potesse essersi ammalato e lasciò un gran vuoto e un gran dolore.
Nonna Rachele