amareilcinemaParole di cinema scritte ( e trascritte ) di notte e tant'altro per chi ha cuore e occhi per vedere.Per chi ama il cinema.Per chi ha ancora un sogno |
AREA PERSONALE
Il sogno
Se il sonno fosse (c'è chi dice) una
tregua, un puro riposo della mente,
perché, se ti si desta bruscamente,
senti che t'han rubato una fortuna?
Perché è triste levarsi presto? L'ora
ci deruba d'un dono inconcepibile,
intimo al punto da esser traducibile
solo in sopore, che la veglia dora
di sogni, forse pallidi riflessi
interrotti dei tesori dell'ombra,
d'un mondo intemporale, senza nome,
che il giorno deforma nei suoi specchi.
Chi sarai questa notte nell'oscuro
sonno, dall'altra parte del tuo muro?
JORGE LUIS BORGES
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Tempo verrà
in cui, con esultanza,
saluterai te stesso arrivato
alla tua porta, nel tuo proprio specchio,
e ognuno sorriderà al benvenuto dell'altro,
e dirà: Siedi qui, Mangia.
Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io:
Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore
a se stesso, allo straniero che ti ha amato
per tutta la vita, che hai ignorato
per un altro e che ti sa a memoria.
Dallo scaffale tira giù le lettere d'amore,
le fotografie, le note disperate,
sbuccia via dallo specchio la tua immagine.
Siediti: E' festa: la tua vita è in tavola.
Di Derek Walcott Citato nel Film "La Febbre"
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Post n°146 pubblicato il 20 Novembre 2012 da nottelunas
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Post n°145 pubblicato il 20 Novembre 2012 da nottelunas
Regia: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne
"L'incontro tra 'Rosso Malpelo' e 'Ladri di biciclette' non poteva sfuggire allo sguardo intelligente dei fratelli Dardenne. Dalla loro penna si sono dunque profuse le consuete grazia ed arguzia, generando un film che ha entusiasmato critica e platea a Cannes, dove i virtuosi bros belga corrono per la Palma d'oro. Che, fosse centrata, sarebbe la terza dopo 'Rosetta' e 'L'enfant'. (...) Amore, dolore, amicizia e l'onnipresente bicicletta, rubata e ovviamente restituita. Perché il lieto fine ogni tanto esiste: da vedere per credere. (Anna Maria Pasetti, 'Il Fatto Quotidiano', 19 maggio 2011) La bicicletta e l'introduzione al sogno di Giuseppe Riefolo “Sognare... è ciò che permette di creare”
La storia
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Post n°144 pubblicato il 20 Novembre 2012 da nottelunas
Corpo Celeste di Curzio Maltese Se una regista nemmeno trentenne è capace di creare con pochi mezzi e tante idee un film come Corpo Celeste, si può essere ottimisti sul futuro del cinema italiano. A Cannes il film di Alice Rohrwacher è parso a molti il film più interessante della Quinzaine, laboratorio del futuro dove hanno esordito fra i molti Fassbinder e Herzog, Carmelo Bene e George Lucas, Oshima e Jarmusch e i fratelli Dardenne. È presto per dire se Rohrwacher si aggiungerà alla lista, ma certo il suo è un esordio folgorante. Corpo celeste, molto liberamente tratto dal romanzo della Ortese, è la storia del ritorno a casa di una giovane famiglia calabrese tutta al femminile, madre e due figlie, dopo dieci anni in Svizzera. Ma soprattutto è il romanzo di crescita della piccola Marta, 13 anni, del suo sguardo straniero e smarrito sui riti di una comunità adulta che ha perso ogni ragione di stare insieme, ogni identità e ne cerca il surrogato in un vuoto conformismo ammantato di parvenza religiosa. La circostanza narrativa che la scoperta della ragazzina avvenga attraverso un corso di catechismo improntato ai più sconci luoghi comuni televisivi non deve ingannare. Corpo celeste è già diventato un piccolo culto per le associazioni anti clericali, per quanto la regista si affanni a ripetere a ragione che non si tratta di un film contro la Chiesa e tanto meno contro la religione. Semmai è un film contro la vera religione dell'Italia contemporanea, il conformismo televisivo e l'opportunismo politico, che sono la negazione stessa di ogni spiritualità. Non per caso uno dei pochi personaggi positivi della storia è un prete di villaggio, il bravissimo Renato Carpentieri, che rivela a Marta la follia di Gesù, il genio più anticonformista della storia dell'umanità. La questione è che ormai si scambiano, si possono scambiare i fatti per satira e il racconto nudo per intenzione caricaturale. In questo la Rohrwacher è favorita dall'esperienza di documentarista. Le scene e i personaggi più surreali del film sono in realtà i più vicini alla realtà. Il prete di parrocchia che fa il galoppino politico per ottenere una promozione, la catechista che s'ispira ai quiz televisivi (Chi vuol esser cresimato?) per "vendere" ai ragazzi il cattolicesimo, sono figure che s'incontrano a ogni angolo di periferia italiana. Come s'incontrano i ponti che collegano il nulla al nulla, le tangenziali inutili, gli scheletri di case mai terminate, i fiumi trasformati in discariche tossiche. Questa è l'Italia che appare allo sguardo di un'adolescente cresciuta in Svizzera e questa sarebbe agli occhi di noi italiani adulti, se non volessimo dimenticarla. Un paese che ha perso il suo dio, la propria identità e va a cercarsi una ragione di stare insieme davanti a uno schermo televisivo, intonando canzoncine e slogan dementi ma alla moda («Mi sintonizzo con Dio, è la frequenza giusta»). Tanti anni fa, nel dopoguerra, un grande antropologo, Ernesto De Martino, descrisse la «crisi della presenza» delle società rurali del Mezzogiorno come profezia di un mondo che avrebbe smarrito ogni senso d'identità e appartenenza. Corpo celeste è in parte il racconto di questa profezia avverata, qui e ora. Un bellissimo film civile, quindi, e forse il primo effetto della rivoluzione cinematografica scatenata dal più importante film del decennio passato, Gomorra di Matteo Garrone. Con il quale non condivide i temi, visto che la criminalità organizzata è volutamente tenuta fuori dal ritratto, per quanto sia più dominante a Reggio Calabria rispetto a qualsiasi altra città d'Italia, Napoli e Palermo comprese. Ma ne ricorda i climi, la corruzione dei costumi quotidiani, i paesaggi e ne condivide l'attore protagonista, il sempre straordinario Salvatore Cantalupo. Un'altra prova del talento della regista è la capacità, come per Garrone, di far recitare allo stesso livello professionisti eccelsi come Cantalupo, Carpentieri e Anita Caprioli, con dilettanti dalla resa sbalorditiva. Per esempio la piccola protagonista, Yile Vianello, una delle migliori attrici adolescenti fra le molte vista a Cannes. Per non parlare della catechista Santa, Pasqualina Scuncia, un talento naturale di attrice che misteriosamente fin qui ha sempre fatto nella vita la tabaccaia. Un'Italia che non vedremo altrove, un piccolo film da non perdere, una giovanissima regista già avviata verso una splendida avventura nel cinema italiano e mondiale.
Paolo Mereghetti - Il corriere della sera (...) Corpo celeste è, a memoria non solo mia, il più bell’esordio cinematografico di una regista italiana. (...) la Rohrwacher filma con un pudore pari alla maturità dello stile, con una macchina da presa molto mobile ma mai gratuitamente ondivaga e che scegliendo con istinto sicuro quello che è veramente importante da inquadrare obbliga lo spettatore a prendere una posizione di fronte alle cose. Come fanno gli occhi di Marta e come dovrebbe fare sempre il cinema.
Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 18 maggio 2011 "Diretto da una documentarista che guarda allo stile dei Dardenne e prima di girare ha esplorato a lungo quel mondo. Per raccontarlo con gli occhi innocenti quanto acuti della piccola Marta (Yle Vianello), 'emigrata di ritorno' con la sua famiglia in Calabria. (...) Crisi spirituale, mercificazione, corruzione, resa generalizzata al consumismo, anche in materia di fede. In quella parrocchia di provincia c'è tutto il peggio del nostro paese, dai bambini che fanno catechismo (anzi 'Katekismo') a colpi di quiz, alla canzoncina 'Mi sintonizzo con Dio', al parroco maneggione (Salvatore Cantalupo) che vuole sistemare in chiesa un 'crocifisso figurativo' all'antica al posto dell'attuale mostruosità fluorescente. E magari ingraziarsi il vescovo per farsi trasferire in una sede più prestigiosa. Ma 'Corpo celeste' (il titolo viene da Anna Maria Ortese) non è un j'accuse o un banale referto sociologico; la prima dote della neoregista è lo sguardo partecipe che posa sui suoi personaggi, dalla spaesata Marta a sua madre (Anita Caprioli), l'unica che sa amarla e capirla, all'ingenua Santa (l'efficacissima non attrice Pasqualina Scuncia), la catechista che prepara i ragazzi con lo zelo e la goffa innocenza di chi è troppo parte di un mondo per coglierne l'assurdo. Ma del film restano negli occhi soprattutto gli spazi: gli osceni cavalcavia della città moderna; la fiumara-terra di nessuno, unico luogo in cui sembra pulsare un po' di vita vera, paradossalmente; i tornanti che portano al paesino fantasma dove il parroco va a prelevare il famoso crocifisso e Marta capirà di colpo molte cose, del mondo e di sé (fulminante apparizione di Renato Carpentieri, prete semicieco, che parla a Marta del vero Gesù). Con atmosfere e sentimenti che a tratti evocano i film dell'argentina Lucrecia Martel ('La cienaga', 'La niña santa'), ma scoprono un pezzo di Italia ancora mai visto al cinema." «Grande soggetto, grande esordio, anzi, grande film. Ci voleva una neoregista di nemmeno trent’anni per farci vedere ciò che è sotto gli occhi di tutti, ma che non abbiamo più tempo o voglia di guardare. Ci voleva una protagonista sospesa tra infanzia e adolescenza, il volto angelico e il passo sghembo di chi non si sente mai a posto, una piccola “aliena” di ritorno dalla Svizzera con madre e sorella, per dare del Sud, della Chiesa, del nostro Paese, un’immagine così netta e tagliente Fabio Ferzetti, Il Messaggero, 27 maggio 2011. CORPO CELESTE recensione di Rossella Valdrè
Ho riportato, quasi per intero, l'accorata e dolente descrizione che poco più di cinquat'anni fa Pasolini fece della Calabria, terra priva di bellezze, bestialmente sfruttata e abbandonata, perchè la bella opera prima di Alice Rohrwacher, Corpo Celeste, ce la riporta in primo piano, in tutta la sua tragica fissità, o in una drammaticità che si è persino aggravata nel tempo. |
La sorpresa dell'amore di Marianna Cappi Nonostante sia reduce da un immenso successo di pubblico in Francia, con più di due milioni di presenze in sala, Philippe Le Guay presenta il suo Le donne del 6° piano alla stampa romana con una modestia e una generosità poco comuni. Innanzitutto si scusa di non parlare italiano, mentre racconta di aver dovuto imparare lo spagnolo perché due delle “sue donne”, le interpreti dei personaggi di Dolores e Pilar, non parlavano per nulla il francese (cosa che comunque gli ha regalato il piacere di poter dare istruzioni alle sue attrici senza che il protagonista, Fabrice Luchini, comprendesse nulla, mandandolo regolarmente in ansia). Ma chi sono queste donne del sesto piano? Delle chiassose e vivaci domestiche spagnole che abitano il sottotetto di un immobile borghese al centro di Parigi e cambiano per sempre lavita di un rigido agente di borsa e padre di famiglia: uno straordinario, comme d’habitude, Fabrice Luchini.
"Chi ama non conosce nulla della creatura amata,
Cercare un luogo che c’è (...) Jean-Louis finalmente scopre il sesto piano e lo spazio che può abitare è molto più ampio di quello abitato fin’ora: "lavorano dalle 6 di mattina e tornano a casa dopo le 11 di sera; vivono in una stanza stretta, senza bagno e senza acqua calda… Sono sopra la nostra testa e noi non ne sappiamo nulla!". Suzanne è sorpresa da questo interesse del marito e la sorpresa, subito si declina in sospetto e paura: "strano che ti interessi tanto di quelle spagnole e non ti interessi affatto di quello che ho fatto oggi io!". Il suggerimento nuovo e creativo, e l’emozione di Jean-Louis non possono essere colte dal campo gravemente organizzato in modo conformistico (tutto al primo piano, dalle camicette di Suzanne, ai due antipatici figli, fino alla ritualità dell’uovo alla Koch, parla di conformismo…). Jean-Louis descrive il cambiamento in atto, restituendo a Suzanne il quadro esatto della loro vita in cui è persa ogni capacità di sorprendersi e dove tutto accade già prima. Il tono del paradosso crea la frazione: "ebbene: alle 8 sei andata in ufficio; alle 9,45 sei andata al parrucchiere e alle 12 ti sei vista con le tue amiche Nicole de Grandcourt Colette de Bergeret per il Bridge, alle 16 sei andata dalla sarta e poi sei tornata a casa: ho sbagliato qualcosa?"
Il sesto piano è il momento in cui possiamo vedere qualcosa che fino a quel momento sentivamo potenziale. Quando scopriamo il sesto piano, il campo (che sul piano intrapsichico tende a rappresentare il Sé) puntualmente si dissocia: da una parte l’eccitamento per qualcosa che finalmente si realizza, dall’altro la paura e l’ostilità. Il film dice che non scopriamo il sesto piano per semplice casualità o fortuna, ma è un processo che parte dalla perdita di certezze che non sono più funzionali alla nuova organizzazione: Germaine, la vecchia domestica, che dopo vent’anni va via perché deve accettare che la madre di Jean-Louis è morta; Suzanne vuole trasferire lo studio a casa "perché è sempre stanca" e, finalmente, Jean-Louis non può più tollerare che il suo uovo alla Koch sia puntualmente un uovo sodo. A Maria, la nuova domestica che irrompe con tutta la sua bellezza e subito la sensualità è nell’aria, verrà chiesto di sostenere alcuni elementi che non destabilizzino troppo il nuovo assetto: "sa fare l’uovo alla Koch?... se c’è una cosa su cui non transigo è l’uovo alla Koch!" Ma il prezzo del cambiamento sarà notevole e non negoziabile perché ne hai assolutamente bisogno e non puoi più permetterti di rinviare: "le darò cento franchi, come per Germaine!"; "No, risponde Maria, trecento franchi!". Anche la risposta di Jean-Louis suggerisce che puntualmente ogni processo evolutivo si declina attraverso due forme di dissociazione: una creativa (Bromberg, 2006; Riefolo, 2011): "va bene sia per trecento!"; l’altra difensiva: "ma sia un segreto fra me e lei: la signora non deve sapere!". La dissociazione creativa è ciò che è potenziale non appena si affaccia alla possibilità di essere conosciuto: il sesto piano, dove i padroni non vanno, lo scopri (se una nuova funzione apre la strada) quando eventi della vita ti ci portano senza che l’abbia chiesto: "posso stare qui con voi?" ; "ma questa e casa sua! è lei il padrone!"; "Ah… sì è vero, sono io il padrone!". Anzi: avresti sempre evitato di andarci, e infatti, la meraviglia dei tuoi figli e delle amiche di tua moglie sottolineano quella necessità che viene da un grave transito nella sofferenza, ma la vecchia cameriera ti lascia perché non vuole che si riattivi la stanza dove è morta tua madre da 6 mesi e tu devi necessariamente mantenere la cura di te: "scusa Suzanne, non ho più camice! Come vado in ufficio?"; "Metti un maglione!". Tutti ti suggeriscono di non cambiare nulla, di risolvere la sofferenza semplicemente sospendendo quella dolorosa pulsione al cambiamento. La sequenza del film è precisa: Jean-Louis pone una istanza di cambiamento; le risposte necessarie sono due, da un lato una soluzione difensiva ("metti un maglione") che tenta di anestetizzare la sofferenza attraverso la coazione a ripetere, dall’altro la soluzione creativa della scoperta del sesto piano. Si tratta di uno spazio potenziale (Winnicott) a cui ora abbiamo accesso. Infatti le creazioni dei processi analitici non sono mai esattamente "magiche", ma, quando va bene, riguardano sempre un allargamento dello spazio che possiamo abitare. Quella che chiamiamo dissociazione creativa ha bisogno dello spazio potenziale aperto dalla presenza dell’altro: la dissociazione creativa è lo stato di scissione che viene a saturarsi attraverso la presenza originale dell’altro.
Al sesto piano ti introduce Maria. A questo punto il film parla un linguaggio ambiguo: si potrebbe pensare che Maria sia la sensualità vitale che mancava nella opaca vita dei piani residenziali, ma a me piace pensare che Maria sia una funzione che ti conduce lì in quella situazione di vita e di sensualità che fa girare un gruppo di amiche per negozi di abiti da sposa in un caldo pomeriggio di agosto (ma ad agosto — come per l’analisi - non sono chiusi i negozi? Evidentemente negli scenari psicologici i negozi sono sempre aperti se ne hai bisogno…). Maria non è l’amore, ma, il tramite che permette di entrare al 6 piano che è li da sempre, potenziale, e ci puoi arrivare solo se qualcuno te lo permette. Per questo non mi ha fatto piacere trovare Jean-Louis e Maria nel letto: quello è il film che vuole la gente e il regista se lo concede, ma, nel mio film non saprei collocarlo: è la paura di Raffaella che teme di sporcare il lettino dell’analisi portando la sensualità che ha sempre evitato tenendo sempre pulita e piatta la sua vita Ma io so che c’è l’altro sogno in cui presenta agli altri i suoi incontri con me in cui non c’è più la violenza sottile di uno zio, ma gli sguardi e le sensazioni che scambi mentre parli di psicoanalisi. Maria è il dispositivo vivo dell’amore che ti fa crescere: quando ci vai a letto non è più un dispositivo, ma un fine finalmente raggiunto. Per fortuna, anche nel film è solo una breve sosta perché subito Maria riparte e Jean-Louis deve rimettersi alla ricerca: "perché prendendo conoscenza si toglie qualcosa all’oggetto…Perciò non esiste neppure la verità per gli amanti; sarebbe un vicolo cieco, una fine, la morte del pensiero…" (Musil, 543). Ho pensato che Maria non è l’amore che ciascuno vuole trovare nei film e nelle storie, ma è l’amore di cui parlano gli psicoanalisti che deve descrivere non un oggetto concreto, ma una tensione che ti spinge a cercare uno "spazio potenziale" che non è mai esistito prima e che puoi abitare: quello spazio è necessario non perché devi essere più comodo, ma perché devi sopravvivere e quello spazio ha bisogno della presenza di un altro perché ha una dimensione precisa estendendosi "fra il bambino che gioca da solo e la ‘madre’ la cui presenza è necessaria" (Winnicott, 1967, 604).
Dopo tre anni Jean-Louis va a cercare ed incontra Maria, che intanto ha avuto la sua vita ed un’altra figlia. Per fortuna il film si sospende nell’incontro degli sguardi dei due. A me piace immaginare che Maria continui ad avere la propria vita e Jean-Louis possa andar via, perché ora conosce dov’è Maria e la propria vita potrà organizzarsi e continuare sapendo che lei c’è e che non deve vivere come se lei non esistesse: "Sign. Jean-Louis, io so dov’è Maria… è ad un paesino a 20 Km!… è che mia moglie non capisce l’amore!…" Giuseppe riefolo pol.it
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Post n°142 pubblicato il 11 Maggio 2011 da nottelunas
"Hors-la-loi" : rebelles académiques | 21.09.10 | Voici donc le film pour lequel le maire de Cannes a organisé une cérémonie expiatoire, lors de sa présentation au Festival (sous l'appellation "Hommage aux victimes françaises de la guerre d'Algérie"), contre lequel les associations de rapatriés ont manifesté avant même sa projection, et devaient encore se rassembler à l'occasion de sa sortie en salles - ainsi, lundi 20 septembre, lors d'une projection en avant-première, à Marseille... On serait tenté de dire, "s'ils avaient su...", mais la connaissance même de Hors-la-loi n'aurait pas changé grand-chose aux préjugés. Certes le film ne trouve quasiment rien à sauver dans l'oeuvre colonisatrice de la France : il commence par l'expulsion d'une famille de paysans algériens au profit d'un propriétaire français ; il finit par la tuerie du 17 octobre 1961, lors de laquelle des dizaines de manifestants mobilisés par le Front de libération nationale (FLN) périrent aux mains de la police parisienne. Pourtant, ce ne sont pas tant les torts faits aux Algériens par la puissance coloniale qui intéressent Rachid Bouchareb, que ceux qu'ont infligés les combattants à leurs compatriotes. Il s'agit d'évaluer le prix payé pour l'indépendance et, aux yeux de Bouchareb, il est terriblement élevé : les purges au sein du FLN, la rivalité sanglante avec le Mouvement national algérien (MNA), l'emploi des sympathisants comme chair à canon (ou plutôt à matraques), rien n'échappe au regard de Bouchareb. On aimerait qu'à cette volonté de lucidité politique corresponde une autre volonté de cinéma qu'un hommage aux films tournés en studio à l'époque des événements. La famille que l'on voit expulsée au début du film compte trois fils. Le cadet grandira pour prendre les traits de Sami Bouajila, qui tient le rôle d'Abdelkader, intellectuel, idéologue, emprisonné à la suite de la répression à Sétif. Mais on voit que quelque chose cloche dans le film quand la caméra s'attarde sur les lunettes que porte Abdelkader enfant. S'il a des lunettes, il sera intellectuel. Chapelet de dilemmes Messaoud (Roschdy Zem), l'aîné, ne quitte pas l'armée française après la fin de la seconde guerre mondiale. Combattant en Indochine, il est fait prisonnier par le Vietminh et expérimente dans sa chair la victoire des colonisés. Après avoir tué un notable inféodé à l'administration coloniale, Saïd (Jamel Debbouze) part pour la France, où il poursuivra une carrière de proxénète et de promoteur de combats de boxe, suscitant le désespoir de sa mère et le mépris de ses frères. Tant que le film approche de son sujet - la guerre d'Algérie telle que l'ont vécue les Algériens vivant en métropole -, ces archétypes restent vivants. L'évocation du massacre de Sétif, les parcours d'Abelkader et de Messaoud adhèrent strictement aux conventions romanesques, mais ils sont portés par un mouvement et une volonté de montrer ce qui est resté longtemps caché qui font oublier la frugalité des situations, les personnages sommaires. C'est sans doute en arrivant dans le bidonville de Nanterre (où s'entassèrent pendant des décennies les immigrés des "trente glorieuses") que Hors-la-loi s'effondre sous le poids du spectacle. Les artifices de cette misère de chef décorateur étouffent les efforts des acteurs, neutralisent les situations les plus dramatiques. Le scénario égrène sans faiblesses son chapelet de dilemmes moraux et politiques, que les deux frères aînés résolvent toujours en faveur de la cause, contre les individus. Il montre bien sûr la brutalité des forces de répression qui se moquent autant de la loi que les insurgés. Ancien résistant, le policier qui représente l'appareil d'Etat dans Hors-la-loi est incarné par le même comédien qui jouait le sous-officier d'Indigènes. Bernard Blancan est un acteur de grand talent, pourtant son travail est ici infiniment moins convaincant qu'il ne l'était dans le film précédent. C'est une mesure comme une autre du semi-échec de Hors-la-loi. di Thomas Sotinel
Film français de Rachid Bouchareb avec Roschdy Zem, Jamel Debbouze, Sami Bouajila. (2 h 18.) |
Non dire che hai abbandonato il sogno.
Non c'è altro per noi a cui aggrapparci, se non questo.
Non dire che hai abbandonato il sogno.
Non c'è per noi altra strada se non questa.
Asakusa Kid, Takeshi Kitano
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