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Berlusconi va, il berlusconismo resta

Post n°1300 pubblicato il 06 Dicembre 2013 da antonello.mureddu

di Angelo d’Orsi


Li ho visti, ero tra loro, con le loro bandiere tricolori, mentre frammenti video mostravano le grandi imprese dello statista “di levatura internazionale”, a braccetto con i “grandi della Terra”. Li ho sentiti, mentre ripetevano imbambolati “Silvio, Silvio, Silvio..”, come un inutile mantra. Li ho studiati con attenzione, mentre rilasciavano improbabili proclami di guerra alle telecamere: “Per Berlusconi sono pronto a uccidere…, marceremo sul Parlamento, metteremo le bombe…” e via sragionando. Agitavano le mani, minacciose. Ostentavano palette in polistirolo, sulle quali facevano triste mostra le frasi che intanto qualcuno ripeteva. Erano persone comuni, specialmente anziani malmessi, in ogni senso, e giovinotti con cappellino d’ordinanza. Lumpenproletariat e media borghesia. Erano un branco smarrito, già privo del suo pastore, anche se lui era là, terreo, nerovestito, a recitar la parte insieme dell’agnello sacrificale e del leader che pur piegato dall’avverso destino, si dichiara pronto a continuare la lotta al di fuori del Palazzo. Quel popolo a sua volta sconfitto, dalle cui bocche – quelle che ancora avevano la forza di aprirsi in una situazione di smarrimento assoluto –, dichiarazioni stanche d’amore per il duce caduto risonavano meste e spente anche quando erano gridate, nello sventolio di bandiere che, con inconsapevole contraddizione, inneggiavano all’Italia, con tanto di tricolore, mentre quella stessa patria veniva ingiuriata perché aveva osato condannare quel sant’uomo. 

Erano soprattutto le parlamentari, la “classe dirigente” del nuovo-vecchio partito berlusconiano, a tradurre in dichiarazioni per i media o in motti che volevano essere d’incoraggiamento alla (piccola) folla, a fare la loro parte. La parte che spetta alle aspiranti leaderine, ora che il campo si è fatto più aperto dopo la fuoruscita degli ”alfaniani”. Ed ecco la raffica di affermazioni epocali: giorno amaro, insopportabile ingiustizia, lutto per la democrazia, morte della libertà, plotone d’esecuzione, calpestato il popolo sovrano, diecimilioni di italiani ignorati, golpe della magistratura rossa, e, la frase sovrana, che, dispiegata su uno striscione, un manipolo di coraggiosi campeggiava sulla facciata di Palazzo Venezia, lestamente tolto da solerti uomini delle forze dell’ordine, mentre altri, in borghese o in uniforme, allontanavano senza complimenti altri berluscones che davanti all’ingresso di palazzo Grazioli, protestando la loro indomita fede nel capo, chiedono udienza, gridando la rabbia di chi (dicono) è senza stipendio da oltre un anno. Sono quelli che fanno più pena: si sentono abbandonati, ma non ancora traditi: Il tradimento in realtà è consumato, e lo urlano in molti, aggiungendo il nome additato al pubblico vituperio: Alfano (che intanto l’esimio Minzolini, quello dell’uso disinvolto di carte di credito aziendali, chiama “Ponzio Pilato”, mentre Napolitano si becca un semplice “boia”). Alfano, dunque: il Giuda. Il traditore. Un ingrato (sentenzia la Carfagna, con gli occhi più spiritati di sempre). Il nuovo Fini. Ma destinato alla catastrofe politica proprio come il suo predecessore. Siamo più forti di prima: “guardate i sondaggi”, sibila la signora Gelmini, quella dei neutrini che attraversano il Gran Sasso. Il tutto, intanto, alternato da urla agghiaccianti, tra le quali decifro un classico “comunisti bastardi”.

Ora posso dirmi soddisfatto. Mi allontano, un po’ per timore di essere individuato come figlio di padre incerto, un po’ perché avverto un bisogno fisico di respirare un’altra aria. E medito. Medito che anche questa vicenda, trascinatasi per troppo, troppo tempo, ci mostra una verità sulla quale rifletto da anni e che ho cercato di argomentare sul piano storico in qualche mio saggio: esistono due Italie, e sono inconciliabili, e che si ripropongono ineluttabilmente nel succedersi delle epoche. Smettiamola di parlare e di auspicare una conciliazione impossibile. Io e qualche altro milione di connazionali che cosa abbiamo in comune con gli esagitati che urlano sotto il grande schermo, Silvio, Silvio, Silvio…? “Che cosa ho da spartire con gli schiavi?”, recitava il logo impresso da Piero Gobetti sule copertine dei libri che stampava. Ecco: proprio nulla. 

Leggo stamani sul Corriere della Sera l’intervista all’ultima fidanzata (ufficiale) del sullodato: “Lancio un appello a papa Francesco, affinché mi riceva e ascolti la tragedia di Silvio”. “La tragedia di un uomo ridicolo”: avevo giù usato questa espressione (che richiama il titolo del bel film di Bertolucci), in occasione di un altro novembre quello di due anni fa quando fu cacciato da Palazzo Chigi. Ora è cacciato dal Parlamento. E rischia di essere cacciato dal consesso delle persone libere, finendo dietro le sbarre: che sarebbe il solo posto giusto per un uomo che si è macchiato di ogni sorta di crimine, che sia stato condannato o meno ( grazie a leggi che lo hanno preventivamente sottratto alla giustizia, o a prescrizioni dei reati). Ora ci chiederemo, in Italia e all’estero, se davvero l’età berlusconiana sia finita, archiviata per sempre dopo un lunghissimo estenuante tramonto. Qualcuno già ricorre al termine “parentesi”, evocando più o meno consciamente la tesi di Benedetto Croce che ne aveva parlato, alla prima caduta di Mussolini, come di una parentesi della storia d’Italia: le camice nere come un’orda selvaggia che aveva attraversato il paese, devastandolo, per poi scomparire, come l’antica popolazione degli Hyksos,secondo il racconto dell’Antico Testamento. 

Temo invece che non si sia trattata di una parentesi. E non soltanto per la presenza di quei milioni di italiani e italiane, di ogni età, che si riconoscono in Berlusconi, lo invidiano e cercano di imitarlo, o lo imitano invidiandolo. Non è stata una parentesi, come che finisca la vicenda personale del signor Berlusconi: il berlusconismo rimane, e non ce ne libereremo facilmente. È entrato sottopelle. Troppi italiani ne sono diventati portatori sani, ossia sono stati contaminati, e diffondono a loro volta quel virus. Basta guardare nel PD, nella sua nomenclatura, nei nuovi quadri intermedi, i T-Q ascesi a cariche interne, o pseudo-elettive, sgomitando dopo essersi collocati nelle caselle degli aspiranti alla Segreteria, tifando per il proprio leader di riferimento che, ove vinca, saprà poi ricompensare i sostenitori.

Berlusconi è finito, e non rimetterà i piedi a Palazzo Chigi, questo è certo, anche se dovesse continuare a esercitare un ruolo politico, di catalizzatore della eterna destra italiana, quella più becera e volgare. Ma il berlusconismo, ahinoi, è ancora tra noi. E per ora, ammettiamolo, ha vinto. Basta guardare la serafica espressione di Enrico Letta, mentre la casa brucia, e lui dispensa uno stolto ottimismo, parlando della durata del suo improbabile governo,della necessaria stabilità, della governabilità, come requisito della credibilità (“dell’Italia”, naturalmente, mica della sua e dei suoi ministri) e via seguitando. E il suo probabile successore, il Renzi, berluschino rottamatore, che briga con disinvoltura dichiaratamente ideologica (ah, le ideologie! Ma non erano morte!?), per arrivare a guidare non il partito di cui palesemente non gli importa un fico secco, ma, per l’appunto, il prossimo governo. Sarà così diverso da questo e dai precedenti?

Ma la lettura delle gazzette mattutine, in qualsiasi forma, e quale che sia la nostra propensione politica, mostra un panorama desolato: corruzione politica, scomparsa dell’etica pubblica, devastazione morale complessiva, arroganza dei ricchi e dei potenti, con la conseguente loro sicurezza di cavarsela comunque. Stavolta non è andata così, malgrado la potenza di fuoco dispiegata dai mezzi di comunicazione berlusconiani. Ma l’ingloriosissima fine del cavaliere di Arcore (a quando la cancellazione del titolo?), pur segnando un momento importante della storia recente, ben difficilmente potrà avviare il cambiamento di cui l’Italia avrebbe necessità. A meno che, dal basso, con un lungo lavorio tenace, tenteremo di avviare un’azione a carattere culturale prima che politica in senso stretto, per ridare a tutti noi il gusto e il senso della partecipazione, ossia, il piacere della politica, quella nobile, che nasce nell’agorà, e seleziona dal basso le sue dirigenze; e, così, far rinascere, faticosamente, dalle sue ceneri la democrazia italiana. Ma ne saremo capaci? 

(28 novembre 2013)


 
 
 
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Un blog di: antonello.mureddu
Data di creazione: 19/07/2012
 

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