Creato da: CarloCarlucci il 22/08/2004
"Pensieri oziosi di un ozioso"

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Post N° 29

Post n°29 pubblicato il 03 Ottobre 2004 da CarloCarlucci

Che cosa vuol dire “prendersi cura”, “mi prendo cura di te”, “abbi cura di te”?
La cura. Sorge, in tedesco.
“Aver cura di”. “Abbi cura di te stesso”.

Heidegger dedica pagine essenziali, e fondamentali, sull’argomento. Anzi, il concetto stesso di “cura” è uno dei concetti fondamentali di “Essere e tempo”. Le pagine dedicate alla Cura, che si coniuga poi in quelle dedicate all’angoscia, e al desiderio, sono pagine che rivelano una ricchezza, e una profondità persino straordinarie, nell’ottica dell’analitica dell’esistenza.
Pagine che fa sempre bene rileggere, che illuminano.

“La Cura come essere dell’esser-ci”. Già il titolo del capitolo sesto chiarisce la fondamentalità dell’argomento. Noi siamo-nel mondo. La nostra esistenza è fatta di partecipazione alle cose, al linguaggio, di situazioni emotive suscitate da ciò che incontriamo. Noi siamo il nostro incontro con le cose: noi siamo-nel mondo, “ci-siamo”; siamo un “esser-ci” appunto.

E come avviene questo essere-nel-mondo? Attraverso le parole.
“E’ una bella follia il parlare: con essa l’uomo danza su tutte le cose”, come recita lo Zarathustra di Nietzsche.
Certo, nello scorrere ordinario della vita quotidiana, si perde la cognizione della profondità delle parole: esse si incollano sulle cose, diventano cose esse stesse; la penna, il telefono, la casa, gli alberi. Parole, cose, parole-cose.
Le cose si rivelano in una opacità inespressiva, indifferenti; il mondo diventa banale, insignificante. E quando ci rendiamo conto di questo abissale vuoto di significato, proviamo il sentimento dell’angoscia, che per Heidegger è il sentimento fondante dell’esperienza umana, la consapevolezza, la presa d’atto e di coscienza della vacuità del tutto.

Ed è allora che dobbiamo ridare alle cose la capacità di risuonare nuove, di emozionarci ancora e profondamente. Ed è allora che dobbiamo cercare parole nuove, e le origini, e le implicazioni, e le risonanze, delle parole usate.
Dobbiamo prenderci cura delle cose, prendendoci cura del linguaggio che ci fa danzare sopra di esse. Noi SIAMO realmente, consapevolmente, noi ESISTIAMO nel senso proprio del termine, solo quando sappiamo prenderci cura. Delle cose, delle persone. Delle parole.

Ma non esiste un linguaggio privato. Il linguaggio ci precede, e ci chiama a parlare. Il linguaggio è la voce della madre che accoglie il bambino “al mondo”. Nel linguaggio siamo accolti e siamo resi partecipi. Condividere significati, crearne di nuovi, questo è esser parte del mondo.
Essere ascoltati, saper capire, condividere: questo è parlare.
E abbiamo bisogno che i nostri significati siano accettati, e compresi.
E abbiamo bisogno di trovare persone che sappiano parlarci in modo nuovo, e a cui le nostre parole suonino familiari prima ancora che siano pronunciate. Questo è esser parte del mondo.
Ciascuno di noi ha il diritto ad un suo posto nel mondo; di essere amato, per ciò che dice, per come lo dice, per come sa ascoltare.
Ciascuno di noi, per essere stesso, per “esser-ci” realmente, deve condividere i suoi significati, e sentire condivisi i propri.
Per questo ciascuno di noi porta il dovere di difendere le parole che condivide. Prendersi cura di qualcuno, degli altri, significa questo.

Il prendersi cura è la voce che pronuncia parole come queste:

Apprezzo ciò che dici, lo riconosco mio: continua a dirlo, ti ascolto amico caro, e capisco ciò che dici. Sii te stesso, continua ad esserlo, parlando le parole che sai; e nella comune condivisione entrambi continueremo ad esistere per ciò che siamo e ciò che desideriamo essere. Non ti smarrire nelle parole del mondo; non lasciare che la tua voce si perda inascoltata, o fraintesa, o incompresa, fino a tacere. E lo so, amico caro, che quanto più le parole sono rare, e preziose, tanto più è difficile condividerle, e trovare chi le condivida da sempre e per sempre. E’ un lavoro paziente, difficile; e faticoso, e penoso persino, talvolta.
Ma non è tacendo che possiamo essere noi stessi. E il prendersi cura di se stessi passa solo e soltanto attraverso il difendere le parole che ci significano, che ci fanno esistere, e difendendo le parole che ascoltiamo, e che ci parlano da sempre. E per sempre. Da soli non ci si può prendere cura di se stessi.

E’ buio, e fa freddo, lì fuori, nel silenzio della parola.

 
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Post N° 28

Post n°28 pubblicato il 30 Settembre 2004 da CarloCarlucci

« Non voglio che tu te ne vada,
dolore, ultima forma
di amare. Mi sento
vivere quando mi fai del male
non in te, né qui, più lontano:
nella terra, nell'anno
da dove vieni tu,
nell'amore con lei
e tutto ciò che fu.
In questa realtà
sprofondata, che si nega
a se stessa e si ostina
che mai è esistita,
che fu solo un mio pretesto
per vivere.
Se non mi rimanessi tu,
dolore, incontrastabile,
io lo crederei;
però mi rimani tu.
Che tu sia realtà mi dà la sicurezza
che niente fu menzogna.
E fin quando io ti sento,
tu sarai per me, dolore,
la prova di un'altra vita,
in cui non mi affliggevi.
La grande prova, a distanza,
che è esistita, che esiste,
che mi amò, sì,
che ancora la amo. »

Il dolore non è necessario. Il dolore non è utile. Questo dicevo. Questo insegna lo stupendo SEGRETI E BUGIE. Questo dice la psicologia analitica.

Ma questa poesia afferma il contrario. Che il dolore è utile, che il dolore insegna. Che il dolore non va rimosso, persino che il lutto non va elaborato.
Arriva ad affermare la pervicace volontà di restare ancorati al dolore come testimonianza del sé, della propria storia.

E dunque?
A ben vedere, le due istanze, i due atteggiamenti, sono meno antitetici di quanto possa a primo sguardo sembrare.
Il film di Leigh indubbiamente parla di un dolore diverso da quello descritto da Salinas. Esso parla della non necessità della menzogna, della dissimulazione, della negazione. Parla di rapporti umani, della necessità della condivisione, della accettazione della propria condizione.
Ed è su questa base, che i psicologi analisti postulano la inutilità del dolore, come frutto avvelenato della negazione della propria condizione, come primo passo necessario per la serena consapevolezza di sé, delle proprie pulsioni, della nostra reale dimensione.
Accettare la perdita, significa superare il dolore per diventare altro da prima, persona nuova, diversa.

Ora, quello che la poesia di Salinas rifiuta è proprio questo accettare la perdita. Perché un atteggiamento apparentemente così irrazionale?
Cominciamo a notare che il dolore di cui parla Salinas è di grado ontologicamente superiore. Egli non parla del dolore causato dalla menzogna, ma del dolore cagionato dalla Verità.
Quello di cui si parla è non già il semplice distacco da una persona, ma dal mondo.
E come si realizza questo passaggio di grado? In che modo superare il dolore per la perdita di una persona implica la perdita del mondo? Attraverso il riconoscimento completo di sé in un'altra persona. L’Amore di cui Salinas parla è quell’Amore istitutivo, fondante, che ci accoglie nel mondo, l’Amore in cui riconosciamo e ritroviamo noi stessi.
L’Amore che istituisce è ciò che ci completa in quanto persone, quando ritroviamo in qualcuno – anticamente – la metà di cui sentiamo di mancare: ciò che ci completa, che ci dà il senso di appartenenza piena.
Il mancare, il cessare di questa situazione, fa mancare non soltanto qualcosa che siamo stati – e che vorremmo continuare ad essere – ma in un senso più profondo fa mancare quel senso di appartenenza, quell’essere accolti, quello che Heidegger chiamò, in “Essere e Tempo”, “avanti-a-sé-esser-già-in”.
Amore è, in questo senso, il “prendersi cura”, cioè il rivestire le parole di un significato meditato, fondativo, consapevole e riflettuto. Ma il linguaggio ci precede, ci accoglie e ci introduce al Mondo. E dunque, il ritrovare – anticamente, secondo la stupenda definizione di Salinas, cioè che ci precede da sempre – nell’altro il significato delle nostre parole, e ritrovare nell’altro le parole che ci significano, significa ritrovare il nostro posto nel mondo, il significato del nostro essere.
E la Verità è, dunque, originariamente, ciò che rende vero, possibile, il tutto.

“Avanti-a-sé”, che ci precede, “già-in”, essere già presenti in esso, necessari ad esso. Ritrovare e ritrovarsi. Ciò che non può essere perduto, ciò che non si può perdere, senza perdere se stessi.

« Parliamo, da quando?
Chi ha cominciato? Non so. ... »

 
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Post N° 27

Post n°27 pubblicato il 29 Settembre 2004 da CarloCarlucci

È solo nella poesia che incontriamo veramente le cose.
La poesia.
La poesia istituisce significati, ridona valore e vigore a parole consunte; le fa vibrare di nuovo. Perché ogni parola può essere compresa e spiegata solo con altre parole. La preziosità della parola poetica sta nel suo far risuonare, richiamare, evocare altre parole.
L’emozione che suscita la poesia – quando è vera poesia – sta nella sorpresa, e nella meraviglia, di essere investiti da una moltitudine di significati, di richiami, di evocazioni, di ricordi; a volte sopiti, altre volte dimenticati, più spesso inaspettati. Sta nella incapacità di formulare una spiegazione immediata: ascolti un verso e non sei in grado di pensare: “ecco, parla di questo e questo”.
La poesia, quando è poesia vera, ci lascia nella incapacità di formulare spiegazioni istantanee. Ci costringe a cercare parole adatte, ad interrogarci sulle implicazioni insospettate di termini altrimenti usuali, scontati.
Nel linguaggio comune, la parola si appiccica alla cosa, perde il suo traslucere, si fa opaca, monotona, indifferente. Le cose perdono così il loro interesse, il loro stimolare. Il mondo perde la sua meraviglia: tutto è scontato, banale, piatto, indifferente, indistinto nella sua unicità.
La parola poetica si stacca dalla cosa, la coglie da un altro lato, sorprendendola, rendendola nuovamente interessante, particolare, magica.
La magia della parola poetica sta nel suo non essere spiegabile in termini di pura denotazione: la parola poetica connota, sino a creare significati nuovi. E nell’interrogarci su di essi, incontriamo la cosa come se mai fosse accaduto prima: la poesia cambia le cose, cambia il modo in cui il mondo è mondo.
Nella poesia cogliamo il mondo nella sua differenza: le cose si staccano dal loro contesto, nascono nuovamente, brillano. La poesia è loro nuova epifania; crea nuove rivelazioni, nuovi rapporti tra le cose, e tra le cose e noi. E il mondo riacquista la magica capacità di rendere possibili le cose.
La poesia è il farsi dei significati possibili, inaspettati, sorprendenti, vitali. La poesia è creativa perché è lo slargo in cui illuminiamo di luci nuove le cose.
Nella parola poetica incontriamo il mondo nuovamente; e interrogandoci su di essa, incontriamo nuovamente noi stessi, il nostro modo di essere, perché siamo costretti ad interrogare le parole che noi siamo, e che lentamente, inavvertitamente, si fanno usuali, scontate, prive di interesse.
La poesia ci scuote dal sonno della banalità, ci rende vivi, attenti, partecipi; risveglia la nostra attenzione su ciò che siamo, che vogliamo, che speriamo.
La poesia ci scuote dal torpore piatto del presente, e ci proietta nel futuro: ci costringe a cercare, in un in-vista-di che appartiene al futuro. Ci proietta là dove la nostra vita ha da svolgersi: in ciò che ha da venire. La poesia è il futuro, ciò cui tendiamo. Noi siamo essere del desiderio, e il desiderio è possibilità, e la possibilità è futuro.
La poesia ci rende vivi.

 
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Post N° 26

Post n°26 pubblicato il 29 Settembre 2004 da CarloCarlucci

“Quid quid est, si quid est, est ens”
S.Tommaso

Questa semplice frase, « ciò che è, se è, è ente », racchiude il dramma della perdita del Divino nel mondo. Paradossale, visto chi fu a pronunciarla.
Ciò che è, è ente. Materia. Cosa.
E Dio? Inarrivabile, infinito, lontano, sempre più lontano. Il Dio della scolastica è il Dio che si ritrae dal mondo, e lascia le cose in balìa della scienza.

“Dio è il puro nulla: non lo tocca né l’ora né il qui” recitava Angelo Silesio.
Ciò che è di questo mondo, è cosa, materia, sostanza.
Tommaso e gli scolastici separano Dio dall’uomo, lo resero altro, e perdettero l’esperienza del Divino, del Mistero, del non-dicibile.
Così Dio si fece assente dal mondo, e andarono perse le parole per l’esperienza del Divino.
Nel mondo delle cose, cosa tra cose esso stesso, si perde l’esperienza del mondo come DIFFERENZA: il mondo non è cosa, è lo slargo, l’apeirion, che permette alle cose di collocarsi, di essere.

E’ in questo slargo che può darsi l’aletheia, il disvelamento, l’illuminazione data dal linguaggio.
E il linguaggio illumina in quanto oscura: la folgore eraclitea in tanto illumina, in quanto proietta ombre: le cose che vediamo nella luce abbagliante del linguaggio, lasciano dietro a loro un’ombra che non possiamo vedere in quanto è ombra del linguaggio, ciò che il linguaggio non può esprimere. O non può esprimere ancora.

Ed è nel darsi di quell’ombra che si rivela il Divino.
La natura del linguaggio è quello di essere incessante produttore di significati. Il linguaggio per darsi ha da essere produzione continua di significati, di parole da caricare di sensi sempre nuovi.
Nel silenzio del linguaggio, si dà il nulla. L’ombra del silenzio, il luogo donde cui provengono tutti i significati possibili, mai esprimibili tutti insieme, e una volta per tutte.
Noi esistiamo NEL linguaggio, abbiamo da parlare per esistere. E perciò abbiamo da produrre significati sempre nuovi.
Il linguaggio rinnova, e il linguaggio perde ciò che tace. Il linguaggio illumina dall’ombra e all’ombra restituisce. Ciò che è taciuto, ciò che non può esser detto, appartiene al Mistero.

Proveniamo dall’ombra, e all’ombra dobbiamo ritornare. Il Mistero di questo provenire, e di questo ritornare, è tutto ciò che sappiamo del Divino.

“Stat rosa pristina nomine. Nomina nuda tenemus”. Settecento anni dopo, ancora ci interroghiamo su questa frase.
L’inafferrabilità del referente, ci spiega forse più di ogni altro dire l’assenza del Divino dal mondo.

 
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Post N° 25

Post n°25 pubblicato il 21 Settembre 2004 da CarloCarlucci

No, Soul: niente parole, niente cose...
Terra, acqua, fuoco, sono tutte parole, ci hai mai pensato?
E i concetti che esse esprimono, sono comprensibili solo attraverso altre parole.
Zoòn logon echòn: l'uomo è l'animale che parla, dicevano i Greci. E' sono nel linguaggio che possiamo creare significati, dare forma compiuta, intelligibile, alle sensazioni, ai sentimenti, alle impressioni.
"Nessuna cosa è dove la parola manca" recitava Georg Trakl, perché senza la parola siamo per l'appunto muti, sgomenti, disarmati, e il mondo stesso svanisce.

Il mondo. Una costruzione linguistica. Il mondo non è un insieme di oggetti inanimati e materia bruta. Il mondo è l'insieme dei significati, e il significato si ha solo nel linguaggio.
"Il linguaggio è la casa dell'essere. Nella sua dimora abita l'uomo" disse Heidegger, in quello che è forse il suo passo più famoso.

"E tutto governa la folgore" come recita uno dei più celebri frammenti eraclitei.
Il linguaggio è la folgore, che illumina, che APRE, DISVELA il mondo. Che lo illumina come tale. La folgore non crea le cose, ma le illumina, le rende visibili, subitaneamente, nella somma delle loro singolarità e nel loro essere contesto. In questo senso Heidegger parla della verità come aletheia, disvelamento. La verità, l'essere, non è ciò che preesiste, ma il modo in cui esso si rende visibile a noi.
Noi non creiamo il linguaggio. Noi siamo NEL linguaggio. La voce della madre che ci chiama all'esistenza ci preesiste, ci chiama al mondo degli uomini.
E tuttavia, non c'è linguaggio senza uomini. Noi rechiamo il dovere del discorso, del parlare, del continuare a dire, del creare significato, ancora ed ancora.

"Nessuna cosa è dove la parola manca".
Parlare è parlare con qualcuno. Condividere significato.
L'assenza di parola è solitudine. L'assenza di significati è la morte, e genera angoscia.

Abbiamo tutti bisogno di condividere significati. Per sfuggire alla paura, al silenzio, alla morte.
Abbiamo bisogno di qualcuno con cui parlare.
Parlare. La più alta e originaria delle azioni dell'uomo.
E chi parla con noi, chi colloquia con noi, è la fonte della nostra stessa vita.

Parla ancora con me, ti prego. Ancora, e per sempre.

 
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Post N° 24

Post n°24 pubblicato il 20 Settembre 2004 da CarloCarlucci

L’Occidente, la terra della sera.
La terra del declinare, del dimenticare, dell’abbandono.
Il Divino ha abbandonato il Mondo, e non sappiamo più il senso del Mistero; persi nella nostra ragione raziocinante non sappiamo più incontrare le cose.

Abbiamo perso la cognizione del valore delle parole.
Parole come strumenti, parole come potere.
Parole come dominio del mondo.
Parole come COSE.

“La parola mitica ci ha abbandonato, ma quello che i miti raccontavano continua ad abitare, senza parola, dentro di noi. Abbiamo perso i nomi delle nostre passioni, delle nostre angosce, delle nostre paure. Non possiamo riconoscerle, non possiamo chiamarle. Questa è solitudine”
(Umberto Galimberti)

Sappiamo misurare tutto. Conosciamo tutto. Possediamo tutto. Prevediamo tutto.
Ma non sappiamo più incontrare le cose, con le nostre parole.
Non sappiamo più stupirci, e non sappiamo più meravigliarci.
Non sappiamo più creare mondi nuovi, e nuovi modi di essere.

Abbiamo perso le parole. Aiutami a ritrovarle.

 
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Post N° 23

Post n°23 pubblicato il 16 Settembre 2004 da CarloCarlucci

Elaborare il lutto. Mi sto facendo una cultura psicanalitica, in merito.
Per necessità, chiaro. Ma anche per interesse. Ha delle implicazioni filosofiche mica da poco, la questione. Significa fare i conti col proprio sé, col passato, con l’elaborazione di un futuro.

Ora, l’elaborazione del lutto innanzitutto e perlopiù è una tecnica. Una tecnica del sé, ma pur sempre una tecnica. E la tecnica prevedere delle procedure. Di analisi, ma procedure. Di oggettivazione del sé.
Elaborare il lutto significa in prima battuta accettare la perdita. Nell’ultimo numero di Rivista di Psicologia Analitica leggevo un articolo sull’allenarsi a perdere.
Interessante questione. Da buon heideggeriano, ho notato subito la doppia possibile antinomia: perdere/vincere (e non è di questo che si parla); perdere/acquisire. Acquisire la presenza di una persona / allenarsi a perderla. Tutt’altro che una sciocchezza stoica, devo dire. Piuttosto un allenamento (brutto termine però) al sé, alla sua conoscenza, alla sua misurazione.

Ma ormai è troppo tardi per questo. Fuori tempo massimo.
E allora, cos’è “accettare la perdita”? Significa non negarla.
Nel duplice senso di non negare l’importanza di ciò che ho perduto, e di non negarne soprattutto l’esistenza. L’errore più comune, grossolano e dannatamente dannoso, è il “dimentica!”
Seppellire il legame reciso, lasciandolo incompiuto, significa seppellirlo dentro di noi, lasciandolo sanguinare. Al contrario la parola deve essere “ricorda!”
Ricorda ciò che eri e non sei più; abbine piena consapevolezza, profonda cognizione: misura la differenza tra ciò che eri, che non puoi più essere, e ciò che sei ora.
Questo implica naturalmente l’accettazione dello stato attuale, già con la consapevole e meditata rassegnazione alla perdita. Occorre accettare il fatto che non potremo più essere ciò che eravamo, e che è dannoso cercare di esserlo a tutti i costi, con altre persone, allo stesso modo.

Nel momento del lutto, prevale naturalmente uno stato depressivo indotto. E qui è essenziale una procedura di accettazione positiva di sé: occorre volersi bene, voler bene alla persona nuova che sono, in conseguenza dell’assenza, della fine, del rapporto che prima ero.
Nel momento del lutto, è naturale caricarsi di responsabilità per quanto accaduto; e soprattutto, è normale considerarsi persone meno felici, meno realizzate, meno complete di quanto si era in precedenza. Il lutto consiste di questo, ovviamente.
Eppure è essenziale apprezzare la persona nuova che siamo, riconoscersi delle qualità, delle possibilità. Doloroso, difficile. Certo in questo, amici e affetti possono essere di enorme aiuto. Ma non già nell’allontanarci, nel distrarci dal lutto che stiamo elaborando. Al contrario, facendoci vivere l’ora e il qui nel modo più positivo, facendoci sentire amati, e apprezzati proprio in ciò che di nuovo siamo.
Questo è essenziale.

E soprattutto, non negare il dolore, ma riconoscerne la sensatezza. Non c’è nulla di più dolorosamente inutile che il dire, o il sentirsi dire “ma non è importante, era un falso affetto, una illusione, non meritava la tua attenzione”. E’ dannoso e stupido. Perché la domanda diviene immediatamente “perché soffro tanto allora?”
E’ lecito, anzi è opportuno soffrire il meno che si può: soffrire non fa bene, non serve. Ma peggio ancora è negare l’esistenza del dolore.
Occorre al contrario renderlo significativo, riconoscere che si soffre per qualcosa di importante. Solo in questo modo sarà possibile misurare la reale dimensione del nostro lutto, comprenderlo fino in fondo.
Quando l’avrò compreso sino in fondo, potrò porlo dinanzi a me, staccandomi per la prima volta da esso, facendoci i conti.
Col tempo – e ci vorrà tanto più tempo quanto maggiore è il lutto subito – la mancanza, il legame reciso, si trasformerà in ricordo, in rimembranza. Le ferite pian piano si saneranno, lasciando cicatrici certo, ma saranno ben richiuse, non infette, forse non dolorose persino.

Ed ancora, il lutto va ricordato, rivissuto col ricordo, per salvare quella parte di noi che non siamo più, ma che vive tuttavia dentro di noi, per impedirle di nuocere, di ferirci ancora, di trasformarsi in qualcosa di più pericoloso, e dannoso…

Ok. A parole non sembra difficilissimo…

 
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Post N° 22

Post n°22 pubblicato il 14 Settembre 2004 da CarloCarlucci

Una delle sottochiavi de STREGATA DALLA LUNA è la domanda che Rose – la madre di Loretta – pone insistentemente: perché l’uomo tradisce?
In un film curato (e furbo) come quello, non è una domanda posta a caso, e sono certo che ha anche dei riferimenti precisi; Johnny Cammareri arriva alla risposta attraverso la Bibbia…
Ma il punto non sono i riferimenti, ma la domanda in sé, e ciò che implica la risposta.
Perché la risposta è tutt’altro che banale, scontata, e neanche così semplice.
L’uomo tradisce perché ha paura di morire.
E non tanto nel senso filogenetico della conservazione della specie (in sé, sarebbe una banalità), e forse nemmeno in quello ontogenetico della morte biologica.
No, si tratta di una risposta più acuta, che ha a che fare con la struttura ontologica del desiderio.

Ma è interessante anche scavare nelle implicazioni della risposta. Ad esempio: cosa resta all’uomo (o DELL’uomo) alla fine del tradimento – visto naturalmente non come atto morale?
E’ una domanda che dà una luce diversa, che apre una prospettiva inusuale ad uno scenario del tutto abituale, studiato, osservato ed esplorato come quello della fine di un rapporto.
Cosa resta quando una relazione finisce, se la relazione stessa è la ricerca di vita?
Forse questa domanda, e la risposta iniziale che la propone, aiuta a capire il senso di paura che accompagna la fine di una relazione.
Quello smarrimento che coglie in ogni momento della giornata, soprattutto nei gesti, nelle azioni più abituali e apparentemente più prive di grandi significati, è paura. Una paura che è molto più che semplice paura della solitudine, e che trascende persino la perdita del complesso di significati che la relazione stessa ha istituito.
Incontrarsi con l’altro è comunicare, cioè dare significato nuovo al mondo, interpretare tutto e ogni sua parte alla luce del rapporto nuovo che siamo: io non sono io, ma sono un rapporto con te.
La paura che coglie è il frutto della fine di quei significati: tutto appare inutile, privo di significato e di senso, e tutto appare come impossibile da raccogliere in un senso nuovo.

Poi, occorre andare avanti, “elaborare il lutto”; raccogliere pazientemente ogni singolo tassello, dimenticando, oltrepassando il significato che esso aveva precedentemente, e usarlo per costruire un nuovo quadro di senso. Oprazione dolorosa – e quanto! – che richiede un grande coraggio, una grande forza d’animo. E benevolenza e assenza di odio. E volontà di andare avanti.
“Non guardarti indietro, o diventerai di sale”.

Quando finisce una relazione – una relazione importante – l’uomo ha qualcosa di più che paura di morire. Sperimenta la fine del significato, ed è davvero morire un po’.
Oh, come aveva ragione Rose Castorini…

 
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Post N° 21

Post n°21 pubblicato il 04 Settembre 2004 da CarloCarlucci

Le case, come i luoghi, hanno invece una personalità più solida, che magari cambia nel tempo, e magari ciclicamente – di notte, di giorno, nelle stagioni – ma che resta più riconoscibile, meno sfuggente.
Perché non c’è dubbio che i luoghi hanno una personalità. Il “senso del luogo” esiste, ed è una cosa sempre affascinante da scoprire.

Le case, ad esempio, hanno una personalità. Non sempre corrisponde a quella dei proprietari, o a quella che i proprietari vorrebbero. Ma questo non ha una grande importanza.
E ci sono case, come ci sono luoghi, che ti porti dentro per sempre. Anche perché le case molto difficilmente cambiano aspetto, e personalità, e significati.
Sono case che all’apparenza non hanno niente di diverso da tante altre: non l’architettura, la disposizione, l’uso delle stanze, la dimensione. Non l’arredamento - qualcosa di nuovo, qualcosa di riutilizzato, qualcosa di recuperato e valorizzato.
Sono case che sembrano vivere di una loro vita autonoma, capaci di far vivere a loro modo, capaci di darti un qualcosa – serenità, tranquillità, e uno sguardo unico su ciò che le circonda, come se il paesaggio dal loro interno fosse ancora più bello e ancora più bello il guardarlo.
Ci sono case che hai visto nella luce abbagliante e freddissima di un mattino di gennaio; nel grigio umido e tiepido di piovosi pomeriggi primaverili; nel caldo mai soffocante di dolci e rilassate e lunghe giornate estive. Sono case che senti tue anche se vi entri in punta di piedi; case che ti accolgono come se tu appartenessi loro, senza che loro ti appartengano. E lo senti, e lo vivi, e la gratitudine che provi per questo accoglierti non sarà mai abbastanza e abbastanza non lo saprai manifestare mai.
Ci sono case che hai sempre negli occhi, che immagini in mille momenti mentre pensi a mille altre cose, quasi fossero il fondale del teatro di tutti i giorni.
Sono case che ti porti dentro per sempre, come il sorriso bianchissimo e luminoso di chi le vive.

 
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Post N° 20

Post n°20 pubblicato il 03 Settembre 2004 da CarloCarlucci

Che poi chissà quali istantanee hanno di noi gli altri. Perché infatti è così che funziona. Noi non siamo una istantanea, ma per gli altri sì, e alla fine il fatto di conoscere più o meno bene gli altri consiste nel numero di istantanee che si hanno di loro.
E' una esperienza strana, conoscere gli altri, che non perde nulla della sua stranezza per il fatto che la ripetiamo di continuo.
E' esattamente come conoscere qualcuno da distante, e vederlo nelle foto che ti manda. La prima ti crea subito la prima immagine definitiva. Poi ne vedi una seconda, e hai di fronte una persona diversissima, proprio un'altra persona. La terza, poi la quarta la quinta, somigliano più o meno ad una delle prime due, e talvolta hai fronte un'altra persona ancora, e sommandole tutte cominci a farti una immagine più completa. Ma sempre di UNA immagine si tratta, come se poi il volto di una persona non cambiasse con l'espressione, gli stati d'animo, le circostanze, e la luce persino. E per l'animo è la stessa cosa.
Alla fine la incontri e... trovi una persona diversa ancora, e in un movimento, un lampo degli occhi, uno scarto del volto, una espressione di un attimo, ritrovi il volto conosciuto in una delle foto, e ti sforzi ti fissarti in quella, di fermare in una immagine la persona che hai davanti.

Ora, io non sono questo granché di persona, ma è chiaro che mi scoccia venir male nelle foto. Capita, ovviamente, ma l'amor proprio è una faccenda seria, e come tale va presa. Anche chi fa mostra di non farlo è solo perché è sicuro di aver nascosto bene il lato più debole di sé. Ma insomma questo è un altro discorso. E i miei lati deboli immagino siano abbastanza scoperti, ma non so nemmeno dire quanto faccia per nasconderli.
Non credo però sia questo a fare di me una persona non troppo affidabile, o da prendere in ogni caso con le molle e con beneficio di inventario.
In apertura de L'ISPETTORE, Gogol' pose un proverbio russo particolarmente calzante, anche in questo caso, "E' inutile lagnarsi dello specchio, se il muso è storto".
Già, inutile lagnarsi se gli altri non hanno questa gran immagine di me. Magari non dipende dallo scatto. E una qualche ragione ce l'avranno, per vedermi così.
Certo, non credo di arrivare a far vomitare la gente, e se qualcuno lo fa, sono propenso a credere che abbia un imbarazzo di stomaco già di suo, che prescinde dalla mia modesta persona o da quel che posso mai dire o fare, e non lo credo per il mio solo amor proprio.
Ma insomma non sono questo granché, e me ne rendo conto benissimo.
Solo che, sì, hanno ragione Gogol' e il proverbio russo, ma c'è proprio bisogno di vedere sempre tutte le foto?

 
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Post N° 19

Post n°19 pubblicato il 02 Settembre 2004 da CarloCarlucci

Ho costruito un posto silenzioso. Mi piace. E' esattamente quel che volevo.
Io non ho niente contro i posti animati, popolati, chiassosi, magari anche un po' rissosi. Mi piace frequentarli, i posti non devono e per fortuna non sono mica tutti uguali.
E non è nemmeno vero che le case sono sempre necessariamente lo specchio dei loro proprietari. Un po' i posti vivono poi sempre di vita propria, non foss'altro per il fatto che uno alla fine si deve anche adattare a ciò che trova: all'architettura della casa, alle sue dimensioni, alla posizione, ai vicini, e alla vita sociale che ha, che magari non è quella che sognerebbe esattamente.

Del resto, allo stesso modo, non è che uno sia una immagine ferma statica, una istantanea improvvisa o un quadro dalla posa lungamente studiata.
Beh ok, questa mi viene da Nick Hornby: "Sono bloccato in questa posa, questa posa da proprietario di negozio, a causa di di alcune brevi settimane del 1979, in cui diedi un po' fuori di matto. Poteva andarmi peggio, immagino: avrei potuto infilarmi nel primo ufficio di reclutamento dell'esercito, o andare a lavorare nel più vicino mattatoio. Ciò nonostante, mi sento come se fosse cambiato il vento mentre facevo una boccaccia, e adesso fossi costretto a passare il resto della vita sempre con questa orribile smorfia stampata in faccia".
Insomma, nessuno è DAVVERO così, voglio dire. Io no, almeno. E dopotutto è anche facile capire che uno po' modifica il proprio atteggiamento a seconda di dove si trova - anche in casa propria, sicuro - e un po' cambia i posti in cui sta, vuoi perché CI STA, col suo modo di essere; e un po' per come gli fa comodo che siano.

E insomma, a me piace come sto qui, ecco. Mica ci passo la vita dopotutto. Ci vengo quando ho bisogno di oziare, che vuol poi dire di pensare, di riflettere, di lasciar andare i pensieri, o di ritrovarli.
E vedo che qualcuno ogni tanto passa - poche persone che entrano in silenzio, o sussurrando, col massimo rispetto. Di sicuro gente che apprezza il silenzio. Sorrido.
Non saprei dire se, stante la diversità di pose di cui dicevo, io sia SOPRATTUTTO così. Credo sia un falso problema, stabilirlo. Probabilmente la cosa è più semplice: mi piace essere così, e ho costruito questo posto - e mi piace questo posto perché posso essere così.
E poi ne ho abbastanza del casino, per il momento, veramente abbastanza. Mi faccio vedere sempre meno in giro; e meno lo faccio, meno sento la voglia di farlo. La gente è una bella cosa, non voglio certo dir di no, ma non è obbligatoria, ecco. Non sempre almeno.
Mi piace chi viene, questo sì. Viene, osserva, rimette a posto i bicchieri, socchiude la porta. E lascia impercettibilmente qualcosa, o qualcosa di impercettibile.
Un po' come il gatto del Cheshire, che quando sparisce, non ne resta che il sorriso.

 
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Post N° 18

Post n°18 pubblicato il 02 Settembre 2004 da CarloCarlucci

Ci sono film - come del resto racconti, dischi… - che hanno il dono della Grazia. Quella capacità di colpire nel profondo, di affascinare, di emozionare piano, senza per questo avere la pretesa di essere capolavori, opere immortali. Senza avere la pretesa di dire nulla di definitivo, e persino nulla di importante.
Sono film che commuovono piano, inducendo al sorriso per il loro modo garbato di narrare fatti piccoli, poco importanti, buffi e ridicoli persino. Film che sanno portarti piano piano lontano lontano, in un mondo che è sempre il nostro, ma in cui le miserie, i contrasti, le liti, le offese e le vendette, le sofferenze di cui si nutre, semplicemente scolorano pian piano, si fanno impercettibilmente lontani, e infine evaporano.

E la Grazia sta in quel modo garbato di porre le immagini: riprese che sfiorano gli attori e i loro sorrisi; quel modo dolce e rispettoso di sorridere delle banalità, della pacchianeria, che li rende beni persino preziosi nella loro dolce ingenuità, e restituendo loro una freschezza di cui ci rendiamo conto d’avere tanto bisogno.
Film in cui la Luna sa farla da padrone: una luna magica, irreale ed impossibile, che illumina e irradia e diffonde armonia. E più che amore, in realtà suscita affetto, desiderio di serenità; di dolcezza finalmente. Di pace. Una Luna che conforta, e scalda il cuore, se in qualche modo sa consolare, e far sorridere in questo modo.
Non sono film ruffiani, no. Sono film che consolano, e Dio sa quanto ne abbiamo bisogno. Non c’è niente di male, in questo.

E sì, anche stavolta Loretta e Ronny coronano il loro amore. E il mondo, almeno per un pochino, è un posto migliore dove stare.

 
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Post N° 17

Post n°17 pubblicato il 01 Settembre 2004 da CarloCarlucci

« Ero in una città di luci, una città di fantasmi scintillanti. Ma Miss Privet non era persona che mantenesse i suoi piaceri oltre un limite ragionevole di tempo. Mi fu permesso di restare lì per dieci minuti mentre la luce cambiava e le sottili nuvole al di sopra filtravano una soffice, inzuppata, atmosfera dorata.
Poi mi disse: “Dobbiamo andare. Tutto si spegnerà in un attimo, saranno solo strade” ».

Doris Lessing

 
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Post N° 16

Post n°16 pubblicato il 31 Agosto 2004 da CarloCarlucci

Llanfairpwllgwyngyllgogerychwyrndrobwyllllantysiliogogogoch.
La chiesa di S.Maria in una depressione presso il bianco nocciolo accanto al rapido gorgo presso la rossa caverna di S.Tysilio. Galles.

In sé, uno sputo di paese, proprio niente di niente di interessante. A parte il fatto di avere il nome più lungo del mondo – 59 lettere – e forse di stare lungo la strada per un’isolotto battuto dal vento e dalla pioggia che viene spacciato per meta turistica.
59 lettere di umido e pioggia grigia tutto l’anno. La massima attrazione del posto è costituita dalla scritta che campeggia in fronte alla stazione ferroviaria, e han dovuto stringere le lettere per farcela stare. Difficile dire se perché il nome è troppo lungo, o la stazione troppo stretta.
All’arrivo nel piazzale trovammo i ragazzini che rendevano proficue le loro vacanze estive (se ‘estive’ non è una iperbole) leggendo per mezza sterlina il nome ai turisti, con l’aria ilare e sfrontata che solo i ragazzini sanno avere. Fummo così stupidi da declinare l’offerta, e ogni volta che leggo un gruppo di lettere messe a casaccio, ripenso alla mia stupidità.
Non ho mai smesso di pensare a questo fatto, come stamattina, quando mio figlio giocando con le letterine di legno si gloriava ‘guarda che nome lungo che ho scritto’. Sì, un bambino che si diverte coi nomi lunghi, impronunciabili e apparentemente senza senso… Ho sorriso, e sono uscito dalla stanza…

Certo, so che tornerò alla Chiesa di S.Maria in una depressione presso il bianco nocciolo, e spero da allora di ritrovare dei ragazzini che mi leggano a pagamento il nome del loro paese; magari i figlioletti di quegli stessi ragazzini che respinsi allora.
Ma so anche che sarà per rimediare alla mia stupidità, e alla mia sciocca prevenzione. E non ci sono seconde occasioni per certe circostanze.
Spesi naturalmente parecchio per quel viaggio, ma la prima cosa che mi viene in mente è la mezza sterlina che non volli spendere. Come se poi ci fossero soldi abbastanza per pagare queste cose. E come se ci fossero posti che possano lavare, mondare, redimere le nostre piccole miserie, le nostre incertezze e insicurezze, e i nostri rimpianti.

Dopotutto, è solo un posto come un altro, ma dal nome esageratamente lungo, che sta in un altro posto che si scrive Cymru, ma si pronuncia Kommri.

 
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Post N° 15

Post n°15 pubblicato il 30 Agosto 2004 da CarloCarlucci

Ci sono momenti nei quali l'ozio trascolora piano in qualcos'altro, di più strettamente esistenziale.
Momenti in cui l'ozio diventa sostare, fermarsi, ma un fermarsi affatto volontario, e ancor più che dovuto, inevitabile. Un fermarsi faticoso, stanco, e diventa difficile anche il solo pensare.
E pensi - o realizzi, o credi - che anche il pensare sia inutile, una lotta impari con la realtà, non fosse che la realtà stessa è ciò che ti dipingi, e ti racconti.
Ma tacendo le cose sembrano restare lì, forse avanzano pigramente, come aspettandoti; forse stanno in attesa di qualcuno che dia loro senso; forse semplicemente indifferenti.
E non sai più chi osserva chi; cosa osservi cosa: tu, le cose, gli altri, ciò che è stato, ciò che potrebbe essere, ciò che non potrà essere più - qualunque cosa questo voglia dire, che nemmeno questo è importante.

Importante. Cosa è importante? Cosa vuol dire 'importante'?
Dovremmo desiderare la felicità, secondo Aristotele, e importante dovrebbe essere tutto ciò che ci porta o ci allontana da essa. E dunque ciò che facciamo, il nostro lottare per affermare il nostro volere, per aprire la nostra strada.
Ma a volte la strada che abbiam costruito si rivela cieca, impossibile da proseguire; e (altre volte?) ci scopriamo confusi, incerti, indecisi, se siò che abbiam perseguito, e costruito, sia stata una strada proficua; se il nostro volere sia stato lungimirante.
E allora occorrerebbe davvero sedere, e riprender fiato, sì che le idee siano più lucide e meno affannose, affannate. E concludere così che la felicità è consistita non tanto nella mèta della strada, ma nel costruirla, nell'ammirare quel a cui ci portava; e persino nella fatica del costruirla.

Ma forse non è giusto nemmeno questo, e quel di cui abbiamo bisogno è solo un po' di riposo, di un po' di nuove forze, che altre verranno, e di un po' di serenità.
Di un po' di fiducia, e di voglia di alzare la testa, guardare intorno, e dire 'sì, non è un brutto mondo dopotutto'. Anche se al momento ti sembra impossibile, o al più inutile...

Poi, riprendi fiato, ti guardi intorno, pensieri e ricordi e desideri tornano a fluire.
Accanto a te intanto non c'è più nessuno.

 
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Post N° 14

Post n°14 pubblicato il 29 Agosto 2004 da CarloCarlucci

« … Frutti porterà
questo ampio melo
frutti verdi e rossi
che non coglierò…
Per un’altra serra
io camminerò, là l’autunno
mi ritroverà… »

Canzone del rimpianto, già.
Spesso mi sono chiesto cosa voglia poi dire “perdere una persona”, ed è una domanda alla quale – forse per fortuna – non ho mai saputo rispondere.
A volte le persone le si perdono perché esse desiderano andarsene, e quel che devi fare è capire se la forza che hai per trattenerle è superiore al loro reale desiderio.
Desiderio, e non forza di andarsene, perché una persona che realmente decide di farlo non puoi trattenerla in nessuna maniera, meno che mai nel tempo.
E ci sono invece circostanze in cui la forza per andarsene non c’è, e sei tu a dover dire “vai”.

Ma cosa voglia dire “perdere una persona” non lo so.
La filosofia più consolatoria dice che una persona non la si perde sino a che resta dentro di noi. Ma non è così.
Una persona è prima di tutto cambiamento: le persone cambiano, e stare con una persona significa vederla cambiare con noi, e per noi, e noi cambiare con lei.
La vita, dopotutto non è qualcosa di stabile, immutabile; e un rapporto è una cosa viva, oppure non è.

Così che quel che ti manca è prima di tutto il cambiamento che sei stato, le scoperte che hai compiuto con e per la persona che avevi accanto.
E allora il rimpianto non è per ciò che sei stato, e non sei più, ma ciò che avresti potuto essere, e non sarai mai.
Questo spiega poi forse l’odio sotterraneo, inespresso, che si prova per le persone che se ne vanno: non già per ciò che si portano di noi, ma per la possibilità di essere che ci negano.

Perché è difficile, e quanto!, rivedere le cose alla luce dell’assenza: le parole che hai detto per lei, e che non hanno più senso per alcuno, il colloquio che sei stato che si ammutolisce, perde di senso, si fa muto.
E al tempo stesso, è difficile vedere la persona che ti completava, che in un certo senso ti rappresentava come uno specchio, allontanarsi, farsi colloquio con altri, diventare non solo altra da te, ma altra da ciò che era ed era per te.
Ed è per questo che le persone si perdono quando si allontanano, perché non saranno più le stesse, e dimenticheranno persino ciò che sono state con te.
Le persone che se vanno, non torneranno, e se sarà saranno altre persone, persone altre.

Le persone che se ne vanno non ritornano. Se se ne vanno davvero, non torneranno mai.

 
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Post N° 13

Post n°13 pubblicato il 28 Agosto 2004 da CarloCarlucci

C'è sempre qualche canzone che ti ricorda qualcosa, o qualcuno.
A volte, per quel che dice, altre volte per qualche ragione obliqua, occasionale; e altre volte ancora per tutt'e due le cose.
Stasera, chissà perché, mi risuona nelle orecchie una delle mie preferite di Bob Dylan.
Come se poi fossero poche, le preferite. Ma forse questa lo è ANCHE per quel che mi ricorda, oltre che per quel che dice.

« Triste la vita
La vita è un macello
Quel che devi fare è meglio che fai quello.
Fa' quel che devi fare e bada a come lo fai,
Per te lo faccio io, bimba tesoro,
Non lo sai? »

E anche volendo, non potrei cantare altro, stasera.
Sì, ci sono momenti in cui anche l'ozio si colora di immensa malinconia, e di infinita tristezza.

« Buckets of rain
Buckets of tears... »

 
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Post N° 12

Post n°12 pubblicato il 27 Agosto 2004 da CarloCarlucci

Una parola che mi affascina, che mi piace pronunciare, ripetere, rigirarmi davanti come un piccolo oggetto prezioso. Colloquio.

Cosa sia un colloquio, lo sappiamo tutti. Nel senso più semplice sono due persone, o più, che parlano tra loro, che conversano.
Ma volendo analizzare la parola, da subito è chiaro che essa ha una connotazione più profonda del semplice "parlare insieme, parlare con".
Un colloquio è un conversare che sottintende una intesa, un interesse o degli interessi comuni, più profondi, più saldi, in qualunque senso.
Il colloquio non è un conversare casuale, distratto, o errante. E' una intesa, un incontro tra persone che hanno interessi comuni, l'una attenta alle parole dell'altro; e in un colloquio le parole non sono mai scelte a caso, ma con cura, soppesandone la connotazione, visto che la denotazione, quel che esse significano in prima istanza, è già assodato, è già patrimonio comune.
E' fatto di sfumature, di intese profonde, un colloquio.

Per questo il termine è così affasciante, ed è importante: "essere un colloquio", "il colloquio che noi siamo", sono locuzioni che illustrano la profondità dei rapporti umani, la saldezza dei loro legami.
Diventare un colloquio non è facile, non è comune. Questo avviene solo quando l'insieme di interessi comuni, di interesse reciproco, di comunanza di intenti, riescono a sciogliere la barriera di diffidenza, di riserbo di cui ciascuno di dota negli incontri con gli altri. E soprattutto quando il tempo trascorso insieme - in termini di qualità, non di mera quantità - si trasforma in un terreno comune, tanto che le due persone diventano una, nel senso che in tanto l'una parla e significa, in quanto l'altra ascolta. Sino al punto che l'una persona parla solo per l'altra, e le parole dette, per l'appunto, diventano quei fili invisibili - ma visibilissimi in un altro senso - per cui non può darsi parola senza ascolto, e la parola stessa ha significato solo in relazione a chi la ascolta. Ci sono parole che non sono per tutti.

Colloquio diventa così un termine esistenziale: non già un modo di relazione, ma un modo di esistenza, e l'esistenza stessa di chi ne è parte.
Probabilmente, non siamo fatti per stare da soli, e nell'incontro con gli altri, costitutivo del nostro essere uomini, c'è proprio la ricerca di essere colloquio.
Perché come i Greci sapevano benissimo, "zòon logon echòn", l'uomo è l'animale che parla, e quando parliamo, nominando cose, in realtà diamo significato al mondo. E la somma delle nostre ricerche non può essere che condividere i nostri significati, e nutrirsi di quelli degli altri. Ciò che accade, forse solamente, in un colloquio.

Io so riconoscere i colloqui, quando li vedo. Sarà perché ne sono stato parte, e perché so quanto un colloquio sia una esperienza completa, e ricca, e soddisfacente.
E so anche quale perdita sia, anche dopo molto tempo, perderne uno.

 
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Post N° 11

Post n°11 pubblicato il 26 Agosto 2004 da CarloCarlucci

Anche Hitler dipingeva acquerelli.
Ora, la domanda è: come bisogna osservare quegli acquerelli?
Supponiamo che bin Laden, o Saddam, o chiunque altro vogliamo assumere come espressione del Male Assoluto (ché poi fin che trova qualcuno che gli va dietro, assoluto non sarà, ma insomma il concetto il chiaro), insomma, che Hitler un giorno abbia detto "il Sole sorge ad Est": come vanno intese quelle parole?
Le possibilità di reazioni sono evidentemente diverse.
1) Essendo Hitler per l'appunto Hitler, la sua affermazione va confutata.
2) Hitler ha sempre torto, anche quando ha ragione, perciò la sua affermazione va presa con le molle per vedere cosa nasconde.
3) Siccome Hitler nello specifico ha ragione, magari è il caso di rivedere altre sue posizioni.
4) Non importa chi ha detto la frase, dobbiamo giudicarla solo per ciò che dice, dimenticando il contesto.
Ora, la frase è banale, e gli acquerelli un po' stucchevoli. Ma si dà anche il caso di molte altre affermazioni che potrebbero richiedere più impegno per essere affrontate.

Ma dunque. La 1) è una evidente sciocchezza. La 2) sembra di puro buon senso, ma potrebbe nascondere delle insidie. Se non nasconde niente, che facciamo? La 3) poi è quanto di più rischioso: partire con simili intenti in una revisione storica delle sue posizioni, beh... La 4) pare di puro buon senso, ma se il contesto è di sei milioni di vittime, un po' difficile dimenticarlo...
Che fare? Posso guardare gli acquerelli di Hitler senza correre rischi? E con quali occhi?

Ci ho messo anni, ma sono arrivato ad una risposta. Pragmatica come mio solito.
Sino a che guardando gli acquerelli di Hitler non mi viene voglia di gassare un popolo a scelta, tutto è sotto controllo.

 
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Post N° 10

Post n°10 pubblicato il 26 Agosto 2004 da CarloCarlucci

Nella marea di ripubblicazioni, rimasterizzazioni, arricchimenti, inediti che popolano il mercato del cd, succede che ci siano anche cose che vanno perdute.
E non è tanto il caso di dischi mai ripubblicati (e se hanno ripubblicato SOLOMON'S SEAL dei Pentangle, di cui si dicevano perduti i masters, vuol dire che c'è una speranza per tutto. Vabbé che secondo me han tirato giù le piste da un vinile, ma fa uguale).

No, è proprio che certi dischi non sono più gli stessi.
LA LUNA, di Branduardi, ad esempio. La versione che gira in cd è la ripubblicazione del 1980, con le parti cantate reincise, perché i diritti erano rimasti alla vecchia casa discografica.
Sicché se si vogliono ascoltare le versioni originali de GLI ALBERI SONO ALTI, CONFESSIONI DI UN MALANDRINO e tutto il resto, o il vecchio vinile, o niente. Ma questo non lo sa quasi nessuno, posto che la cosa sia poi importante.

Ed HERGEST RIDGE, di Mike Oldfield? Un bel dì, nella sua follia vagamente paranoica, decide che la versione originale del 1974 non va bene: rimissa il tutto e dichiara omnia mundi che trattasi della VERSIONE DEFINITIVA dell'opera.
Il mondo è andato avanti lo stesso, ma se vuoi rivivere le emozioni del tempo, e ascoltare quello che PER TE è Hergest Ridge, anche qui vinile o ti attacchi. E vagli a spiegare che non si cancella la storia (sia pur nella versione ridotta delle piccole storie personali) con una decisione o un tratto di penna.

E poi ci sono le cose buffe, che fanno capire come l'industria discografica sia guidata da manager provenienti dal mercato degli spagnoletti e destinati al più luminoso mercato delle lampade alogene.
FOTHERINGAY, un disco, un mito.
Ok, 1989, Rykodysk ripubblica il disco in cd, con due brani aggiunti (molto belli tra l'altro).
Poi il cd sparisce, va fuori catalogo. Capita. Chi ce l'ha lo tiene, gli altri pagano anche 35 euro al mercato del collezionismo.
2004, un'altra casa discografica ripubblica il cd, rimasterizzato. Arricchisce il cd con quattro brani inediti in più, registrati dal vivo, ma... senza i due brani aggiunti nella precedente edizione!

Ci sono parole abbastanza, per dirla con Forrest Gump?

 
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