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NON E' COLPA DELLA STATISTICA

Come acquistare il libro "Non è colpa della statistica"

La recensione di Gaetano Lisco

La recensione di Paride Iuso

La recensione di Antonella Amato

Indagine sui limiti della calcolabilità: intervista al Prof. Alfredo Garro

Un approccio non matematico alla statistica per le scienze mediche

Video su Tik Tok a cura di "Libriperdavvero" in cui viene presentato il libro "Non è colpa della statistica" e letta l'introduzione


Su Instagram, con il nome di "Statbunker", l'autore si occupa di debunking statistico e probabilistico


 
 
 
 
 
 
 

Messaggi di Aprile 2009

 

TUTTA LA SCIENZA OFFERTA DAL BLOG IN APRILE 2009

Post n°174 pubblicato il 25 Aprile 2009 da supergigia2000

Nel mese di aprile 2009 sono stati pubblicati sul BLOG i seguenti articoli di divulgazione scientifica, scritti da Walter Caputo (si elenca: data di pubblicazione, titolo, materia di appartenenza).
3-4-09: Si fa presto a dire probabilità (di vita extraterrestre) (Statistica)
10-4-09: All’inizio, si può dire, c’era solo la curiosità. Poi venne la scienza (Divulgazione della Scienza)
17-4-09: Estrarre informazioni dai dati: come ottenere un vantaggio competitivo o nuova produzione scientifica (Statistica)
24-4-09: L’effetto fotoelettrico di Albert Einstein (Fisica)

Walter Caputo vi dà, come di consueto, appuntamento alla prossima settimana, per un nuovo articolo.

 
 
 

L’EFFETTO FOTOELETTRICO DI ALBERT EINSTEIN di Walter Caputo – 22/4/2009

Post n°173 pubblicato il 24 Aprile 2009 da supergigia2000

Talvolta un evento si verifica, e non c’è alcun dubbio che si sia verificato. Tuttavia, non si sa perché. E perché qualcosa accade può essere una scoperta molto importante, se non addirittura rivoluzionaria. Questa è proprio la storia dell’effetto fotoelettrico, che attirò l’attenzione dei fisici per la prima volta alla fine dell’Ottocento.

In quell’epoca si osservò un fatto davvero inusuale: la luce può produrre elettricità. Infatti, quando la luce ultravioletta (ossia a frequenza molto alta) colpisce la superficie di determinati metalli, può causare l’espulsione dal metallo di alcuni elettroni, ovvero particelle con carica negativa localizzate all’interno degli atomi.

Ma, se la luce è un’onda con sufficiente energia, allora deve essere in grado di far saltar via dal metallo tutti gli elettroni. Se invece l’energia non supera una determinata soglia, allora l’onda non sarà in grado di smuovere neanche un elettrone. Questa era la teoria prevalente all’epoca, che – quindi – implicava l’espulsione degli elettroni in massa: o tutti o nessuno. Purtroppo gli esperimenti non erano coerenti con la teoria, in quanto nei laboratori si osservava l’espulsione soltanto di alcuni elettroni.

Nel 1900 Max Planck aveva condotto una serie di esperimenti sulla luce assorbita da un corpo nero (cioè un corpo che assorbe tutta la radiazione che incide su di esso). Da questi esperimenti risultò che l’energia posseduta dalla radiazione del corpo nero equivaleva al prodotto di tre fattori: "n", "h" ed "f". "n" è un numero naturale, cioè un intero positivo (0,1,2,3,…); "h" è la cosiddetta costante di Planck, che corrisponde ad un numero piccolissimo (6,63 · 10-34 ); "f" è la frequenza. Ciò implica che l’energia possa variare solo nel discreto, poiché è sempre un multiplo intero di h · f: in termini tecnici, l’energia si dice "quantizzata".

Einstein credeva all’equazione di Planck (E = n · h · f) molto più di quanto ci credesse lo stesso Planck, e quindi decise che la luce dovesse necessariamente avere un’energia quantizzata, dipendente solo da h e da f.  Tale energia non è nient’altro che un insieme di piccoli pacchetti di luce, chiamati fotoni. Possiamo dunque pensare ad un fascio di luce come ad un fascio di particelle: ciascuna particella, cioè ciascun fotone, trasporta l’energia h · f. È proprio questo il “modello di luce” che Einstein utilizzò per elaborare una nuova spiegazione dell’effetto fotoelettrico, che fosse coerente con i risultati sperimentali.

Dobbiamo innanzitutto considerare che gli elettroni si trovano dentro gli atomi del metallo, quindi sono – in un certo senso – legati, un po’ come la noce è protetta dentro il suo guscio. Per estrarre una noce dal guscio occorre energia, così come ne occorre per estrarre un elettrone dal metallo. La minima quantità di energia necessaria per estrarre un elettrone da un determinato metallo, si chiama "lavoro di estrazione" (= W) di quel metallo. Il lavoro di estrazione varia da metallo a metallo, un po’ come varia il lavoro per estrarre noci da gusci più o meno robusti, ma esso è normalmente dell’ordine di pochi elettronvolt (= eV). L’elettronvolt è un’unità di misura dell’energia, così definita: 1 eV è l’energia cinetica acquistata da un elettrone accelerato da una differenza di potenziale pari ad 1 volt. Ogni corpo in movimento è caratterizzato da una ben precisa quantità di energia cinetica (= Ec ), proporzionale alla massa del corpo e al quadrato della sua velocità.

Ora, affinché un fascio di luce riesca ad estrarre elettroni, esso deve avere un’energia maggiore del lavoro di estrazione: in simboli matematici ciò equivale a richiedere una condizione del tipo h · f > W. Quella appena scritta non è nient’altro che una disuguaglianza, che però diventa una disequazione nel momento in cui poniamo "f" come incognita, posto che ci interessa conoscere la cosiddetta "frequenza di soglia" (= f0 ), vale a dire la frequenza al di sotto della quale non si osserverà mai fotoemissione di elettroni. Riprendiamo quindi la disuguaglianza h · f > W e spostiamo h a destra del segno di disuguaglianza (ciò implica un cambiamento di segno algebrico: dal prodotto al quoziente), ottenendo f > (W / h).

Se la frequenza del fascio di luce deve essere maggiore di W / h (affinché possa estrarre elettroni), allora la frequenza di soglia ( f0 ) sarà pari a W / h, cioè al rapporto fra il lavoro di estrazione e la costante di Planck.

L’interpretazione di Einstein dell’effetto fotoelettrico si accorda con i risultati sperimentali in quanto:

  • per espellere elettroni, il fascio di luce incidente deve avere una frequenza maggiore di un determinato valore minimo, chiamato frequenza di soglia ( f0 ). Se la frequenza della luce è minore di f0 , non vengono espulsi elettroni, indipendentemente dall’intensità del fascio;
  • nel modello di Einstein ogni fotone ha un’energia determinata unicamente dalla sua frequenza ( E = h · f , ma dato che h è una costante, possiamo sintetizzare matematicamente il legame con E = f (f), cioè l’energia è funzione solo della variabile frequenza. Mi perdoni il lettore l’uguaglianza fra simboli, ma credo che solo se il simbolo riproduce l’inizio della grandezza fisica a cui si riferisce, è facile da capire e ricordare), pertanto intensificare un fascio di una data frequenza significa soltanto aumentare il numero di fotoni che colpiscono il metallo in un dato tempo, e non incrementare l’energia trasportata da un fotone;
  • Se f > f0 , aumentando l’intensità non varia l’energia cinetica (=Ec ) in quanto essa dipende solo da f. Infatti Ec = (h · f) - W (poiché l’energia acquistata dagli elettroni espulsi e messi in movimento è pari all’energia del fascio di luce incidente meno il lavoro di estrazione necessario per espellere elettroni), che si può sintetizzare con Ec = f (f), cioè l’energia cinetica dipende solo dalla variabile frequenza (d’altronde h e W sono costanti, cioè numeri dati).

Grazie alla spiegazione dell’effetto fotoelettrico oggi abbiamo le fotocellule negli ascensori e le celle fotovoltaiche nei pannelli solari. Siamo debitori nei confronti di chi, come Einstein, credette fermamente nelle proprie idee. Fino al punto di vincere il Premio Nobel per la Fisica, proprio per la scoperta della legge relativa all’effetto fotoelettrico.

 
 
 

ESTRARRE INFORMAZIONI DAI DATI: COME OTTENERE UN VANTAGGIO COMPETITIVO O NUOVA PRODUZIONE SCIENTIFICA

Post n°172 pubblicato il 17 Aprile 2009 da supergigia2000

Sono pochissime le aziende che possono affermare di essere le uniche ad operare nel loro mercato: tutte le altre hanno il problema della concorrenza. Come si fa, allora, a rimanere sul mercato quando tanti altri producono i nostri stessi beni o servizi ? In parole povere, bisogna – in qualche modo – essere più bravi degli altri; in termini tecnici ciò equivale a dire che un’azienda resterà sul mercato soltanto se riesce ad ottenere un vantaggio competitivo, cioè una posizione privilegiata rispetto ai propri concorrenti. Esistono due strategie di base che possono condurre un’azienda ad ottenere un vantaggio competitivo: riuscire a produrre a costi inferiori rispetto ai propri concorrenti oppure differenziarsi dagli stessi rispetto al prodotto o servizio offerto.

Nel primo caso l’azienda, sostenendo costi minori rispetto ai concorrenti, potrà vendere a prezzi più bassi e in questo modo conquistare rilevanti quote di mercato. Nel secondo caso, l’azienda punta a comunicare al cliente che il proprio prodotto o servizio è diverso da quello offerto dai propri concorrenti. Di conseguenza non ha alcun senso confrontare i prezzi dei prodotti, in quanto i prodotti, essendo diversi, possono benissimo avere prezzi differenti. Posto che talvolta i costi non sono riducibili, questa è un’ottima strategia per spostare la battaglia con i concorrenti dal fronte dei prezzi alla differenziazione. Un’azienda potrà in questo modo conquistare un segmento di mercato, dopo che l’avrà sufficientemente studiato, proponendo proprio il bene o il servizio che soddisfa una determinata esigenza di quell’insieme di consumatori.

L’oggetto di questo articolo, che prende spunto dall’ottimo testo di Paolo Giudici ("Data mining – metodi statistici per le applicazioni aziendali" – McGraw-Hill, 2001), consiste proprio nell’evidenziare quanto sia utile – per una qualunque azienda – scavare nei dati per ottenere informazioni. Grazie alle informazioni ottenute sarà possibile prendere decisioni che condurranno ad ottenere un vantaggio competitivo.

In buona sostanza, si tratta di analizzare i dati a disposizione per prevedere l’evoluzione di determinate variabili di interesse. Il termine tecnico che indica questo processo è "data mining", dall’inglese "to mine" = "scavare per estrarre": ciò implica cercare in profondità, nella massa dei dati disponibili, informazioni non precedentemente note.

Il data mining, nella ricerca scientifica, è un campo di studi relativamente nuovo, nato dall’integrazione dell’apprendimento automatico con le tecniche di statistica multivariata e computazionale. Semplificando il discorso, possiamo dire che l’apprendimento automatico si occupa di ricavare, dai dati, relazioni e regolarità, che poi vengono inquadrate in una spiegazione generalizzata; le tecniche statistiche multivariate e computazionali sono metodi matematici che trattano numerose variabili in modo automatizzato. Così nasce, nel 1995, il data mining, ovvero quel "processo di selezione, esplorazione e modellazione di grandi masse di dati, al fine di scoprire regolarità o relazioni non note a priori, e allo scopo di ottenere un risultato chiaro e utile al proprietario del database" (definizione tratta dal testo sopra citato, come anche le successive parti, di questo articolo, poste tra virgolette).

Il data mining riveste dunque un’importanza fondamentale, non solo per le aziende che intendono ottenere un vantaggio competitivo, ma per chiunque si occupi di ricerca scientifica. Infatti, la scienza nasce proprio nel momento in cui ci si accorge che determinati fenomeni seguono un percorso regolare: da qui si parte per elaborare una legge, in termini matematici, che descriva e sintetizzi il fenomeno preso in esame. D’altronde i ricercatori hanno come obiettivo quello di scoprire e produrre nuova conoscenza, e il data mining non è altro che un "processo di estrazione della conoscenza".

In pratica , all’interno di un’azienda, il data mining risulta essere un "processo metodologico integrato", vale a dire qualcosa che non è limitato ad un’unica azione, ma consiste in più fasi che portano ad un risultato finale, molto utile in termini economici. Infatti si parte da un determinato problema di business da risolvere, che può essere ad esempio come incrementare le vendite del prodotto A. Poi si cerca un database adeguato cioè un insieme di dati coerente con il problema da risolvere: nel nostro esempio potrebbe trattarsi di dati che esprimono la soddisfazione dei clienti per il prodotto A. Successivamente si applica un’opportuna tecnica statistica che viene automatizzata in un algoritmo informatico: in sostanza tale algoritmo viene applicato ai dati per ottenere il risultato finale. Nel nostro esempio, la tecnica statistica scelta dovrebbe essere in grado di fornirci una formula che, applicata al database che comprende la soddisfazione dei clienti, fornisca come risultato un modo, efficace ed efficiente, per incrementare le vendite del prodotto A.

In maniera analoga il data mining potrebbe essere applicato con successo ai dati provenienti da un esperimento scientifico. Infatti, utilizzando un’opportuna tecnica statistica è possibile scoprire una determinata regolarità nei dati, che non era visibile a priori. Una volta scoperta tale regolarità, i ricercatori dovranno elaborare una legge matematica che la descriva e successivamente una teoria che giustifichi, spieghi e sintetizzi la regolarità ottenuta. In questo modo si chiude il processo: alla partenza c’erano solo dati, all’arrivo c’è nuova conoscenza.

Walter Caputo – 17-4-2009

 
 
 

È finito il corso di amministrazione del personale sul blog: un piccolo bilancio

Post n°171 pubblicato il 17 Aprile 2009 da supergigia2000

Il corso di amministrazione del personale è stato pubblicato sul blog dal 19-11-2008 al 27-3-2009. Durante questo periodo sono stati offerti gratuitamente ai visitatori 49 contributi, consistenti in:

  • lezioni teoriche;
  • esercizi svolti;
  • verifiche di apprendimento;
  • casi aziendali;
  • simulazioni d’impresa.

Ho elaborato questo materiale anche grazie alla collaborazione dei miei studenti del corso di amministrazione del personale che ho tenuto presso l’agenzia formativa CONSAF di Torino. Ringrazio quindi gli studenti e lo staff dell’agenzia.

Spero che abbiano approfittato del corso sul blog tutti coloro che intendono lavorare come operatori paghe, ma anche semplicemente i lavoratori che intendono capire qualcosa di più della propria busta paga.

È possibile che questo materiale, insieme ad altro, diventi – in forma naturalmente organizzata e strutturata - un nuovo libro, che potrebbe essere pubblicato nel mese di giugno o luglio 2009. Non mancherò di avvisare, tramite il blog, dell’uscita di questo nuovo testo, in modo che tutti gli interessati possano reperirlo.

Walter Caputo – 17 aprile 2009

 
 
 

ALL’INIZIO, SI PUO’ DIRE, C’ERA SOLO LA CURIOSITA’. POI VENNE LA SCIENZA

Post n°170 pubblicato il 10 Aprile 2009 da supergigia2000

 La curiosità è un intenso desiderio di sapere. Non tutti gli elementi presenti in natura sono curiosi. Alle pietre non interessa sapere come sia possibile costruire un motore più efficiente, che consumi quindi meno carburante. E una pietra, una volta colpita da una ruota di un'automobile, finirà chissà dove, senza poter fare assolutamente nulla.
Nemmeno gli organismi viventi sono tutti curiosi, per lo meno non nel senso abituale che noi attribuiamo a tale termine. Un albero, ad esempio, non può muoversi, non può esplorare l'ambiente oltre la zona circoscritta in cui si trova, non può inventare un sistema per proteggersi dai fulmini, dai funghi o dalle motoseghe.

La curiosità è una caratteristica degli organismi viventi che possono muoversi, che hanno quindi superato lo stadio di immobilità. Essi non devono più aspettare che il cibo li raggiunga: sono loro ad andare alla ricerca del cibo. E quando il cibo scarseggia e sono in tanti a desiderarlo, occorre inventare qualcosa per poterne ottenere a sufficienza. "Assai presto la curiosità per l'ambiente fu imposta come condizione per la sopravvivenza" scrive Isaac Asimov - non solo scrittore di fantascienza, ma anche biologo e docente di biochimica - nel suo "Il libro di fisica" (Mondadori 1986, edizione originale "Asimov's New Guide to Science, 1984).

Via via che gli organismi divennero più complessi, svilupparono un sistema nervoso in grado di ricevere, immagazzinare ed interpretare una quantità sempre maggiore di informazioni provenienti dall'ambiente esterno. Di pari passo si sviluppò il cervello e crebbe l'impulso ad esplorare: una volta che l'organismo riuscì a soddisfare i suoi bisogni fondamentali, venne colpito dalla noia e cercò quindi di utilizzare il cervello oltre il livello minimo di sopravvivenza, al fine di evitare le spiacevoli conseguenze della noia stessa.
Il desiderio di sapere quindi viene innanzitutto dirottato verso alcuni bisogni primari: "come seminare nel modo migliore e ottenere i più abbondanti raccolti, come fabbricare nel modo migliore archi e frecce, come meglio tessere abiti" (testuali parole di Asimov). Il passo successivo, per occupare le immense capacità di elaborazione del cervello, è dedicarsi alla ricerca della conoscenza pura. Non si tratta più di studiare qualcosa a fini applicativi, ma di studiare per il solo gusto di studiare, perché solo in questo modo il cervello viene efficacemente impegnato.

L'uomo comincia quindi a porsi domande, le cui risposte non hanno un'immediata ripercussione sulla sua vita. È naturale cercare le risposte a partire da ciò che già si conosce. È così che in Grecia nasce e si sviluppa la filosofia naturale: i filosofi greci sono persone che si dedicano a scoprire le leggi di natura. Dopo che i miti non vennero più accettati come spiegazione del mondo, se l'universo non era più controllato da divinità arbitrarie e imprevedibili, allora - come giustamente afferma Asimov - l'universo poteva essere immaginato come "una macchina governata da leggi inflessibili". Dunque, occorreva scoprire tali leggi. Ma in che modo era opportuno procedere ?

Prima di tutto è necessario osservare un determinato fenomeno naturale, poi si cerca di dare a queste osservazioni un ordinamento e infine si cerca di dedurre dall'ordinamento un principio che riassuma le osservazioni stesse. A tal proposito, una tecnica molto utilizzata dai greci fu l'astrazione e la generalizzazione. Essi si sforzarono di non cercare di risolvere un singolo problema, ma di astrarre da esso per immaginare quali caratteristiche fondamentali avessero i problemi simili a quello da risolvere. Una volta individuata un'ampia classe di problemi di cui vengono considerate solo le proprietà più importanti, i greci cercarono soluzioni il più possibile generali.

L'astrazione e la generalizzazione vennero applicate (con successo) inizialmente ai problemi di geometria. Ma poi i greci videro che il metodo funzionava e si innamorarono della tecnica deduttiva, cioè dell' "elaborazione di un corpo di conoscenze come conseguenza invitabile di un insieme di assiomi" (le frasi poste fra virgolette in questo articolo sono tutte di Asimov e sono tratte dal suo testo citato in principio).

Come si sa, a volte l'amore gioca brutti scherzi, e i greci credettero a tal punto nel metodo deduttivo da applicarlo anche a sproposito. Addirittura giunsero a considerare la deduzione "come l'unico mezzo rispettabile per raggiungere la conoscenza". Inoltre diedero un'eccessiva importanza agli assiomi da cui si partiva per elaborare la conoscenza: ritennero che tali assiomi fossero verità assolute. Di conseguenza pensarono che anche altri rami della conoscenza (al di là della geometria) "andassero costruiti a partire da analoghe verità assolute".

Per rimediare agli errori metodologici dei greci, dei quali via via alcuni pensatori cominciavano ad accorgersi, l'umanità ha dovuto attendere la fine del secolo XVI, cioè la rivoluzione galileiana. È stato proprio Galileo Galilei a fondare il metodo scientifico e a stabilire che innanzitutto occorre sperimentare e poi bisogna indurre dagli esperimenti e non dedurre da verità assolute. Il mezzo principale per raggiungere la conoscenza diventa l'induzione. Si può indurre dagli esperimenti e dalle osservazioni e in questo modo si ottengono generalizzazioni, che però non sono né verità assolute, né verità ultime. Durano finché non viene provato che sono false.

Walter Caputo – 10 aprile 2009

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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L'AUTORE DEL BLOG: CHI E' WALTER CAPUTO ?

Ha un diploma universitario in Amministrazione Aziendale, con specializzazione in Finanza. E’ laureato in Economia e Commercio e in Scienze Statistiche. Insegna sia materie matematico - fisico – statistiche che economico - giuridico - fiscali. Su questi temi: contabilità, controllo di gestione, paghe e contributi, divulgazione scientifica ha scritto decine di libri. Inoltre ha pubblicato più di 300 articoli di divulgazione scientifica. Da giugno 2016 è coautore del blog Cibo al microscopio. Da novembre 2012 è cofondatore di Risparmiare Fare Guadagnare. Da novembre 2008 è science writer per Gravità Zero, corporate blog di divulgazione scientifica. Da giugno 2007 è autore di un Blog di Scienze naturali ed economiche.

I suoi articoli si leggono qui.

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