Creato da paoloalbert il 20/12/2009

CHIMICA sperimentale

Esperienze in home-lab: considerazioni di chimica sperimentale e altro

 

 

Isotiocianato di allile... a Natale!

Post n°153 pubblicato il 20 Dicembre 2011 da paoloalbert

Vero che sono sempre complicate e aggrovigliate le associazioni di idee?
Ne cercavo una per il dodicesimo Carnevale della Chimica (che sarà ospitato dal 23 dicembre nel blog di Tania Scienceforpassion riguardo il tema della Chimica nel periodo natalizio e cosa mi è venuto in mente?

Nientemeno che l'isotiocianato di allile...

 

Allile isotiocianato

 

Che è successo? Improvvisa fusione neuronica nel mio brain? Intossicazione acutissima da composti cianosolforati? No, molto più semplice, adesso spiego il motivo di tale strana associazione mentale che di solito mi viene in questo periodo.

Il fatto è che poco prima delle feste di Natale è consuetudine che arrivi qui da me in famiglia un benedettissimo "pacco aziendale" (fin che dura... coi tempi che corrono, sarà l'ultimo?), che viene aperto da tutti con grande soddisfazione dato che contiene sempre cose gradite e altamente commestibili, oltre che in definitiva "regalate", il che non è per niente secondario.
In questo pacco ogni anno c'è fra l'altro... un vasetto di mostarda!

Ecco, ora tutto si spiega, vero?


MostardaTutti sanno che nella vera mostarda, quella da intenditori, (quest'anno era quella mantovana) ci va la senape e la senape contiene appunto l'isotiocianato di allile, CH2=CH-CH2-N=C=S per dare quel delizioso e caratteristico gusto piccante, assolutamente diverso dal peperonico piccante della capsaicina.

 

Mettere la senape nella mostarda non è semplice, come diceva la buon'anima di mia nonna: ce ne deve andare la giusta quantità, nè troppo, chè altrimenti il prodotto rischia di diventare una brace ardente che ti leva il fiato, nè troppo poco perchè ciò porta ad una massa fruttosa solo dolce e inconcludente.

Nei prodotti commerciali, pur buoni, (quelli del nostro pacco lo sono) trovo difficile riscontrare questo giusto equilibrio tra frutta e senape e noto ogni anno con stupore che talvolta si tende ad esagerare in maniera sciocca con l'isotiocianato, come se si volesse virtualmente assassinare l'ignaro consumatore togliendogli il respiro.

Ricordo che qualche anno fa, aprendo un bel vasetto di una fine mostarda cremonese, si faceva sentire in tavola adirittura l'azione lacrimogena del composto allilico... figurarsi l'assaggio orale del medesimo... costituiva un vero attentato Natal-terroristico.
Nemmeno nella battaglia della Somme del 1916 si trovava in giro una quantità così massiccia di "mustard gas" come c'era in quella confettura che si dava arie di eccellenza.

Il vasetto dovette rimanere aperto (ben protetto, ma aperto) fino a inverno inoltrato per poter essere consumato, sfruttando la nota volatilità dei tiocianati alchilici; inutile dire che il titolare dell'azienda produttrice, da me gentilmente invitato a casa mia a mangiarsi un pezzetto del suo mandarino candito, non si è mai presentato... sicuramente sapendo a cosa andava incontro.

[L'assorbimento della senape è molto selettivo da parte della frutta: i mandarini canditi sono quelli che in assoluto ne assorbono di più, la zucca quella che ne assorbe di meno]

Naturalmente non pretendevo sul serio che venisse da me a fare il diabolico assaggio, ma solo che rispondesse alle mie argomentazioni quantitative: lo sto ancora aspettando, con un bel cucchiaio di allile isotiocianato al 92%, più o meno come ce n'era nella sua spocchiosa e famigerata mostarda, marca...

Si dirà che forse sono io che sono troppo delicato!
Macchè delicato! I cibi piccanti sono da sempre la prassi nella mia famiglia; qui si è sempre grattato il cren (ancora la stessa sostanza!) e fatte mostarde, con quella bella bottiglietta spigolosa col contagocce che io annusavo cautamente da bambino, specialmente in ottobre al tempo delle mele cotogne, facendomi a volte mancare il respiro.
(Forse è da allora che ho imparato ad annusare come si deve le sostanze chimiche, con l'opportuna cautela e facendo vento con la mano).
Comunque se ne usava la giusta quantità, come logica e gusto esigevano ed esigono.

Ora la maggior parte delle persone (non tutti per fortuna) hanno paura del piccante e lo sfuggono.
Ecco perchè non mi spiego questo paradosso natalizio da cui sono nate queste estemporanee riflessioni: fare certe mostarde così gravide di CH2=CH-CH2-N=C=S da farmi fare, ogni volta che vien Natale, tali strambe associazioni di idee!


   B u o n   N a t a l e    a    t u t t i  !

 
 
 

Il saggio di Lassaigne completo

Post n°152 pubblicato il 16 Dicembre 2011 da paoloalbert

Ed eccoci finalmente al saggio completo del simpatico Sor Lasagna: dobbiamo trovare nel lab una sostanza che contenga tutti e tre insieme gli elementi "sensibili", cioè zolfo, azoto e alogeni, oltre naturalmente a carbonio, idrogeno e ossigeno tipici delle sostanze organiche.
Un po' faticosamente ne ho trovata una che fa proprio al caso nostro: il blù di metilene

Blù metilene


Facciamo finta di non saper niente e vediamo se siamo capaci di dimostrare che S, N, e Cl ci sono dentro veramente!

1- Preparare la soluzione madre di Lassigne; ormai la sappiamo fare bella limpida e pura, guardare i post precedenti.

2- Prima di tutto si verifica se c'è lo zolfo. Questo è facilissimo: dieci gocce di soluzione nel pozzetto di una piastrina di porcellana e qualche cristallino di nitroprussiato sodico... et voilà, una istantanea e bellissima colorazione fucsia, che nelle foto appare viola scurissimo.

Non ci sono incertezze, lo zolfo c'è, eccome! Nessun dubbio in proposito.

 

Lassaigne 7

La foto mostra le tre soluzioni che ho messo nei pozzetti per questa prova: a sinistra la prova in bianco con acqua e nitroprussiato, al centro la soluzione di Lassaigne da sola e a destra l'aggiunta alla medesima del nitroprussiato.

3- Ora, per la ricerca dell'azoto e degli alogeni dobbiamo eliminare lo ione solfuro dalla soluzione.
Prenderne un'aliquota, acidificarla senza esagerare con la bastante quantità di acido nitrico e far bollire (bastano pochi minuti) fino a eliminazione dello zolfo come H2S volatile, o parzialmente come H2SO4 fisso ma che non interferisce.
Dopo la bollitura, lasciando la soluzione acida per HNO3, si esegue il test per gli alogeni.

4- In una provetta mettere alcuni ml di soluzione e aggiungere una decina di gocce di soluzione 0,1 M di nitrato di argento.
Se gli alogeni sono presenti si forma immediatamente il precipitato di alogenuro (AgCl in questo caso), del colore detto in precedenza.

Lassaigne 8 Lassaigne 8

Le foto mostrano la soluzione prima e dopo l'aggiunta di AgNO3: mi pare che non ci siano dubbi nemmeno questa volta, anche il cloro c'è!

5- Andiamo adesso a scovare l'azoto, che è sempre quello (relativamente) più difficile.
Alcalinizziamo leggermente qualche ml di soluzione con la quantità bastante di NaOH diluita e aggiungiamo poi una decina di gocce di soluzione concentrata di solfato ferroso; subito si formerà un precipitato di idrossido ferroso Fe(OH)2 verde grigiastro, assieme a ferrocianuro sodico Na4[Fe(CN)6] invisibile.
Scaldare la soluzione qualche minuto, agitando bene per favorire l'ossidazione; la soluzione sarà di un brutto colore scuro indefinito.
Aggiungere qualche goccia di H2SO4 diluito e... ecco una bella soluzione blù azzurra, tipica del ferrocianuro ferrico quando è in piccola quantità e estremamente disperso.

 Lassaigne 9

Le foto sono esplicative.

Questa volta l'azoto si è palesato con moltissima minor evidenza del caso della idrazodicarbonamide (che aveva formato una patacca di blù di Prussia!) ma in ogni caso è saltato fuori anche lui, come volevasi dimostrare.

E se la sostanza incognita fosse liquida, o magari anche volatile?
Il saggio di Lassigne diventa in questo caso assai più delicato nella sua procedura iniziale, ma ci sono degli accorgimenti che ne permettono lo svolgimento in un vastissimo range di casi, fatte salve delle inevitabili eccezioni.

Direi che con Lassaigne ho finito: adesso lascio definitivamente riposare in pace il bravo Jean Louis.

 
 
 

Ricerca dell'azoto col saggio di Lassaigne

Post n°151 pubblicato il 12 Dicembre 2011 da paoloalbert

Questa prima "lasagnata" (ved. post precedente) l'ho fatta come prova dimostrativa per la rilevazione dell'azoto, pertanto non sarà una vera ricerca ma una conferma, dato che sono partito volutamente da una sostanza ben ricca in azoto (circa il 47%!) per rendere sicuramente evidenti i risultati.
Come sostanza test ho usato la
idrazodicarbonamide H2N-CO-NH-NH-CO-NH2


Perchè proprio questa sostanza? Per quattro semplici ragioni: contiene azoto, ne contiene tanto e non è volatile.
Infine perchè questa sostanza è una di quelle che non serviranno mai nel lab e allora... perchè non regalarle il suo unico momento di gloria?.

Prepariamo sul banco tutto ciò che serve, ovvero una puntina di spatola di idrazodicarbonamide, un paio di frammentini di sodio metallico, un tubetto da saggio, la solita vetreria, qualche accessorio e naturalmente il fedele bunsen.

Lassaigne 3  Lassaigne 4

La sostanza azotata e il sod io      Il tubetto pronto per la pirolisi

Le foto mostrano questi preparativi "statici", mentre lascio alla fantasia di chi legge immaginare le fasi "dinamiche", ovvero l'arroventamento del tubetto sul bunsen e la sua "decisa" reazione quando lo si butta in acqua.
Le operazioni da fare sono esattamente quelle descritte la volta scorsa, ottenendo alla fine una soluzione limpida che dovrebbe contenere, oltre a idrossido di sodio e residui della pirolisi, anche cianuro di sodio NaCN.

Andiamo a verificare.

Lassaigne 5

Aggiunta di solfato ferroso

Messi in una beutina circa 15 ml (ne basterebbero molti meno) della soluzione prima ottenuta, aggiungere una puntina di spatola di FeSO4 e mescolare; nell'ambiente così basico si forma subito un precipitato gelatinoso grigio verdastro di composti ferrosi, ma si forma anche il complesso ferrocianuro sodico Na4[Fe(CN)6] solubile e incolore, quindi non visibile.

 

Aggiungere una goccia di acqua ossigenata (o anche insufflare dell'aria per un po' di tempo) per ossidare parzialmente a ferrico il solfato ferroso, in modo da avere in soluzione anche ioni -Fe3+.
La soluzione si colora immediatamente in blù per la formazione di blù di Prussia, dal fortissimo potere colorante.

 

Lassaigne 6 Lassaigne 7

Formazione di Fe4[Fe(CN)6]3            Il residuo di Blù di Prussia

Le foto mostrano la filtrazione e l'abbondantissimo residuo di ferrocianuro ferrico rimasto sulla carta da filtro, conferma assai evidente (lo sapevamo già!) che il campione in oggetto conteneva azoto e quindi aveva generato NaCN.
Naturalmente il test non porta sempre a risultati così appariscenti, che dipendono da molte variabili; a volte il blù è appena percettibile, ma in questo caso ho voluto rendere l'idea in maniera eclatante.
 
Lo zolfo e gli alogeni da soli sono troppo facili da scovare con la reazione di Lassaigne e quindi non farò queste due prove; molto più impegnativa è la ricerca di tutti e tre gli elementi CONTEMPORANEAMENTE!

Prossimamente presenterò quindi l'ultima esperienza con una sostanza (ho faticato un po' a trovarla) che ha nella molecola, oltre a carbonio, idrogeno e ossigeno, anche azoto, zolfo e cloro... ci sarà da divertirsi!

 
 
 

Il saggio di Lassaigne

Post n°150 pubblicato il 08 Dicembre 2011 da paoloalbert

In chimica organica analitica (classica) il saggio di Lassaigne è una pietra miliare: con una procedura semplicissima permette di determinare se una sostanza ignota contiene zolfo, azoto o alogeni, singolarmente o anche tutti insieme.
Questo bel metodo, ideato nella prima metà del XIX secolo da Jean Louis Lassaigne (che io chiamo amichevolmente Sor Lasagna... spero che mi perdoni!) si basa sulla pirolisi della sostanza incognita con sodio metallico; in tal modo in presenza di zolfo, azoto o alogeni si vengono a formare rispettivamente solfuro, cianuro e alogenuro di sodio, i quali possono essere riconosciuti con opportune prove specifiche.
(Il saggio presenta delle difficoltà in caso di sostanze liquide volatili, ma tralascio questi e altri particolari).
La verifica dello zolfo va fatta come prima prova, perchè in caso positivo esso va eliminato dalla soluzione (con opportuna procedura) prima della ricerca dell'azoto e degli alogeni.

Procedura preliminare per preparare la soluzione madre di Lassaigne

In un tubicino da saggio ben secco si introduce un piccolo pezzettino di sodio metallico (circa 100-200 mg), vi si aggiunge poi il campione della sostanza solida da analizzare in altrettanta quantità e si copre il tutto con un ulteriore frammentino di sodio.

 

Lassaigne 1


Si scalda lentamente a piccola fiamma il tubicino, tenendolo inclinato, in modo che il sodio fonda, si amalgami bene con la sostanza e sia emessa la minima quantità possibile di vapori volatili (anche sui volatili si possono condurre delle prove indicative); si aumenta a questo punto il calore fino ad arroventare bene la miscela e dar inizio alla pirolisi, che si mantiene al rosso almeno per un minuto.
Ora, con la massima cautela (guanti, occhiali, braccio teso e guardare altrove!) si lascia cadere il tubicino ancora rovente in circa 30 ml di acqua distillata contenuta in un becker abbastanza alto.
Naturalmente il tubicino si frantuma e avviene una istantanea e violenta reazione con l'acqua; se si fanno le cose come si deve non c'è però alcun pericolo reale.
Finito lo sfrigolio, rompere tutti i frammenti di vetro e mescolare affinchè tutto ciò che è solubile in acqua si sciolga; filtrare e tenere la cosiddetta soluzione madre di Lassaigne (deve essere bella limpida) per i successivi tre saggi specifici.

 

Lassaigne 2

 

- il solfuro di sodio viene riconosciuto ponendo nel pozzetto di una piastrina in porcellana una decina di gocce di soluzione e aggiungendo, senza mescolare, qualche cristallino di sodio nitroprussiato Na3[Fe(NO)(CN)5].
In presenza di ioni solfuro si viene a formare attorno ai cristallini un nuovo complesso solubile di intenso color viola-magenta; la colorazione è molto labile e di durata limitata pertanto l'osservazione va fatta sul momento.
Una alternativa meno elegante ma efficace è mettere un paio di ml di soluzione in una provettina, acidificare con HCl e porre all'imboccatura della stessa una cartina imbevuta di soluzione di nitrato di piombo Pb(NO3)2; in presenza di acido solfidrico H2S si ha annerimento della cartina.
Entrambe le prove sono molto sensibili e confermano o meno la presenza di zolfo nel campione originale.

- il cianuro di sodio va evidenziato (previa eliminazione preliminare dello zolfo se era presente) in questo modo:
a qualche ml di soluzione si aggiunge una puntina di spatola di solfato ferroso FeSO4 e si mescola; si viene a formare un precipitato gelatinoso grigio verdastro di composti ferrosi in ambiente basico, che facilmente si ossidano a ferrici con colore più rossastro.
Nel contempo però si forma anche il complesso sodico ferrocianuro Na4[Fe(CN)6] molto stabile, il quale in presenza di ioni ferrici (aggiungere a tal scopo una goccia di acqua ossigenata) forma il ferrocianuro ferrico Fe4[Fe(CN)6]3 insolubile e colorato in blù intenso (Blù di Prussia).
Aggiungere a questo punto alla soluzione H2SO4 diluito fino a reazione sicuramente acida: la persistenza del colore blù conferma la presenza di cianuro (e quindi di azoto) mentre in sua assenza gli idrossidi di ferro si sciolgono e la soluzione appare quasi incolore o solo giallina.

- gli alogenuri di sodio (-Cl, -Br, I) vengono ricercati (anche qui previa eliminazione dello zolfo) acidificando qualche ml di soluzione con acido nitrico non in eccesso e aggiungendo una decina di gocce di nitrato d'argento AgNO3 0,1 M.
In presenza di alogenuri di sodio si vengono a formare i corrispondenti di argento sotto forma di precipitati densi e inconfondibili; bianco il cloruro, color crema il bromuro e giallo lo ioduro.
In caso di dubbio si possono discernere uno dall'altro per la diversa solubilità in ammoniaca.

La prossima volta, come il solito, accenderemo il bunsen e terremo provette e reagenti a portata di mano e andremo a ricercare l'azoto.

 
 
 

La mia radio a galena e altre considerazioni

Post n°149 pubblicato il 06 Dicembre 2011 da paoloalbert

Non è vero che ho proprio distrutto totalmente la storica radio a galena di mio padre fatta negli anni di guerra: ne ho ancora i pezzi fondamentali e volendo la potrei addirittura ricostruire quasi come in origine.
Può darsi che lo faccia, prima o poi, chissà.
Alcuni anni fa ho ne fatto un'altra, di forme e circuito classici, sfruttando gli antichi stampi VAAM in bakelite che una ditta aveva riproposto secondo il modello originale del tempo di guerra; in Internet se ne vedono di quasi identiche, mentre mio padre aveva proprio gli originali.

Eccola in tutta la sua semplicità, fuori e dentro.


Radio galena 1

 

Radio galena 2

 

Non mi addentro volutamente in nessun particolare tecnico, ne ho già discusso anche troppo nella scorsa presentazione.

Radio galena 3L'elemento chiave di questa radio è il detector a galena, che si vede nella foto; il cristallo di PbS sta a sinistra, nel tubetto di vetro, ed è sfiorato da un filetto di acciaio detto "baffo di gatto", col quale si cerca difficoltosamente, manovrando la manopolina a destra, di individuare il punto più sensibile del cristallo, dove esso si comporta da semiconduttore.

Radio galena 4Dagli anni '50 in poi la galena è stata sostituita da un diodo al germanio, molto più sensibile e stabile e che non abbisogna di regolazioni; la foto mostra anche uno di questi vecchissimi diodi inserito su uno spinotto che può prendere il posto della galena.
La cuffia deve essere ad alta impedenza, nel mio caso è anch'essa vintage e da 4000 ohm.

 

Cosa si sente con questa radio?
Mi arrabbio solo a pensarlo... ma ormai da un po' di anni una dissennata politica di gestione del servizio radiofonico pubblico ha praticamente distrutto o gravemente ridimensionato tutto il patrimonio dei numerosi trasmettitori in ampiezza modulata (la vecchia AM) che l'azienda aveva da sempre in Italia e che consentiva l'agevole ascolto dei programmi in onde medie praticamente in tutto il territorio nazionale e di sera/notte in tutta Europa.
Sono stati disattivati anche tutti i trasmettitori in onde corte, che portavano la voce dell'Italia in tutto il mondo.
Con le vecchie onde medie ed i ripetitori locali si potevano ascoltare tutti i tre canali del servizio pubblico (!) anche nella località più sperduta di tutto il territorio nazionale e ben oltre.

E' vero che i servizi radio (in OM e OC) sono stati fortemente ridimensionati per motivi economici da quasi tutti i principali paesi, ma tra ridimensionare un servizio pubblico e distruggerlo la differenza è abissale.

Ecco perchè ora non si ascolta praticamente niente con un ricevitore AM come la radio a galena (ma nemmeno con una radio normale in questa gamma, a meno di non essere vicino a uno dei pochi trasmettitori sopravvissuti all'ecatombe); di sera, quando la propagazione radio aumenta, si ascoltano stazioni estere anche lontane.
La selettività (capacità di separare le stazioni una dall'altra) è comunque molto scarsa e altrettanto dicasi per la sensibilità: ma ricordiamo che questo ricevitore funziona con i componenti che ci stanno nelle dita di una mano, e ciascun componente è a bassissima tecnologia!

Tutto sufficiente, nel 1944, per sentire ogni sera le famose quattro note della quinta sinfonia di Beethoven, che suonano esattamente come la lettera V telegrafica del Morse, DI-DI-DI-DAAA... la famosa V di Victory.

 
 
 

Intervallo

Post n°148 pubblicato il 04 Dicembre 2011 da paoloalbert

Orfeo ed Euridice di Gluck... che opera deliziosa e rilassante!

Un breve, dolcissimo frammentino nell'attesa:
la Danza degli Spiriti Beati.

 

 

 
 
 

Cara vecchia radio a galena

Post n°147 pubblicato il 29 Novembre 2011 da paoloalbert

L'antefatto

La mia passione per l'elettronica  ha origine in tempi remoti della mia infanzia (quella per la chimica va in parallelo, ma forse ne ho già parlato) e deve la sua causa probabilmente alla radio a galena costruita da mio padre.
Mio padre, trovatosi fortunosamente "ritirato nei boschi" assieme ad un gruppo di altri amici e compagni di sorte dopo l'otto settembre '43, viveva in quel periodo praticamente alla macchia in una zona montuosa e difficilmente accessibile ai raid tedeschi; in pratica faceva il partigiano (uso questo termine in modo assolutamente alieno da ogni connotazione politica).

L'ascolto di Radio Londra (quella originale del colonnello Stevens naturalmente!) era in quei tempi di guerra civile di notevole importanza, non tanto per i famosi messaggi speciali destinati a gruppi combattenti ben più numerosi ed organizzati, ma per avere un'idea reale e non di propaganda della situazione bellica e politica: c'era finalmente speranza che i tedeschi risalissero la valle dell'Adige diretti a Nord?
Da Radio Londra lo si poteva sapere... anche senza avere una radio vera e anche nelle case di montagna senza elettricità!

Per questo mio padre costruì la radio a galena, quella che poi io trovai un paio di decenni più tardi da bambino fra le cose residue di quei tempi tragicissimi.

Oggi questo magico ricevitore è diventato un simbolo (spesso incompreso!) proprio del periodo che ho appena citato; in qualche fiera se ne trovano addirittura delle pessime riproduzioni moderne dal sapore "vintage" alquanto artefatto.
Perchè ricevitore magico? Mi pare proprio il termine più significativo per definire un ricevitore del tutto privo di alimentazione: non ha batterie e non viene collegato a nessuna fonte di energia!
Ma da dove la prende allora per funzionare, visto che senza energia nulla si muove nell'universo?

Come funziona?

Anche se si trovano in rete infinite notizie su questo argomento (non c'è che l'imbarazzo della scelta!), dirò due parole alla mia maniera sul suo funzionamento.
Vediamo lo schema elettrico, nella sua versione più semplice possibile:

 

Radio galena

 

Dove si legge "diodo al germanio" si sostituisca il componente (che allora non esisteva) con l'originale "cristallo di galena" (PbS).

Quella minimissima energia elettromagnetica che arriva... diciamo da Londra, entra nell'antenna (un filo lungo almeno una ventina di metri teso più in alto possibile), percorre la bobina L e si scarica a terra (un paletto conficcato in zona umida).
Pertanto se la bobina L è percorsa da una certa corrente, ai suoi capi si instaurerà una certa tensione.

Il circuito formato dalla bobina L e dal condensatore C in parallelo, diventa "risonante" su una determinata frequenza (quella della stazione che si intende ascoltare) quando il valori di L e di C sono opportunamente dimensionati, e per questo la capacità del condensatore è variabile con una manopola.
In queste condizioni il valore di tensione ai sui capi aumenta enormemente, pur trattandosi di piccolissime frazioni di volt.

Questa piccolissima tensione in alta frequenza captata dall'antenna e per così dire "amplificata" per risonanza da L e C viene ora raddrizzata" dal diodo, ovvero la corrente alternata viene trasformata in corrente continua.

In questo modo la componente in alta frequenza del segnale viene eliminata e rimane dopo il diodo solo la bassa frequenza audio derivata dalla modulazione del segnale (qui devo fare un piccolo ma doveroso omissis, altrimenti non ce la caviamo più!).
Passato il diodo, il segnale ormai a frequenza acustica viene mandato alla cuffia (di tipo particolare ad alta impedenza, non come quelle moderne), dove riesce, nonostante la minima potenza, a far vibrare una sottile lamina metallica trasducendo in tal modo l'energia elettrica in energia vibrazionale meccanica, e quindi in suono udibile.
Attenzione, tutto questo con solo quattro componenti e un po' di filo!

Ma non ho ancora detto perchè si chiama radio a galena.

Si chiama così perchè un cristallo naturale di solfuro di piombo (galena, appunto) può comportarsi da "raddrizzatore" in alta frequenza e questo effetto "raddrizzante" viene detto "rivelazione" del segnale e ne permette il suo ascolto in cuffia, come abbiamo visto sopra.
L'indispensabile diodo era costituito da un cristallo di PbS sfiorato in un punto da un sottile filo di acciaio.
Oggi per ottenere lo stesso risultato non si usa ovviamente più uno scomodo cristallo di galena pochissimo sensibile ma si usano diodi semiconduttori di ben altra tecnologia.

Per tener fede allo spirito pratico-sperimentale del blog, concluderò queste riflessioni con qualche foto della "mia" radio a galena; purtroppo non è quella originale di mio padre, la quale, poverina, mai sarebbe potuta sopravvivere indenne ai massacranti "esperimenti" del giovane sottoscritto...

 
 
 

Sintesi del Bromuro di n-amile (seconda parte)

Post n°146 pubblicato il 24 Novembre 2011 da paoloalbert

Allora oggi dobbiamo bromurare l'alcol amilico.
Sarà un lavoro piacevole perchè gli alogenuri alchilici mi sono particolarmente simpatici.

Applicherò il terzo metodo di alogenazione che abbiamo visto l'altra volta (alcol + acido alogenidrico), per tre motivi:

1- i primi due metodi sono per lo più industriali e non hanno senso in laboratorio
2- il metodo con i trasportatori di alogeno l'avevo già sperimentato più volte
3- avevo un po' di acido bromidrico da buttare nella mischia (mi diceva in confidenza che era stufo di languire ozioso nella bottiglia...).

Forte della terza motivazione, accontentiamo allora il rude acido bromidrico e andiamo a celebrare questo suo matrimonio con il mite pentanolo.

 

Amile bromuro 1

 

Materiali occorrenti

-Acido bromidrico 48% (va bene anche a titolo leggermente inferiore)
-Alcol n-amilico (1-pentanolo)
-Acido solforico
-Allhin, Liebig e vetreria opportuna

Amile bromuro 2In pallone da 100 ml introdurre 50 g (34 ml) di acido bromidrico al 48% e 14,5 g (8 ml) di H2SO4 in piccole porzioni, agitando e raffreddando con acqua; si può svolgere una piccola quantità di HBr e la soluzione si colora in arancione.
Aggiungere 21 g (26 ml) di 1-pentanolo, seguito da ulteriori 24 g (13 ml) di H2SO4 conc. in piccole porzioni agitando.


Amile bromuro 3

 

 

 

Porre a leggero riflusso per 2-3 ore, eventualmente con l'apparato per l'assorbimento acido come si vede in foto; ho notato però che praticamente quasi nulla sfugge dalla bocca del refrigerante.

L'alchilbromuro si separa sopra la miscela acida e può essere separato facilmente.
Mettere in imbuto separatore ed eliminare l'acido residuo. Lavare poi inizialmente con una ventina di ml di HCl conc., che elimina l'alcol residuo, e poi con acqua.

Eliminare l'acidità con una soluzione al 5% di Na2CO3 ed infine ancora con acqua fino a sicura neutralizzazione, separando bene ogni volta.


Amile bromuro 4Predisporre quindi il refrigerante Liebig e distillare fin quasi a secchezza il grezzo preventivamente preparato, raccogliendo tra 127-132° (praticamente passa tutto in questo range).

Alla fine seccare il distillato con poco CaCl2 per almeno un'ora.
La resa è stata dopo tutti i passaggi migliore di quella che mi aspettavo, 27 g (22 ml, circa 89%)

 

 

 

 

Il bromuro di n-amile si presenta come un liquido limpido pesante (d. 1,22, p.e. 130°), di odore etereo pesante ma piacevole.

 

Amile bromuro 5

 

Ora il nostro alogenuro è pronto per la futura sintesi di un olezzantissimo tiolo!

Quando si parla di tioli il problema "ambiente" si fa arduo, nel senso che è assolutamente improponibile fare queste preparazioni in laboratorio (se lo stesso non è munito di una efficientissima cappa!) perchè l'odore di questi composti col gruppo -SH (l'amilmercaptano è prorio uno di quelli giusti...) è davvero insopportabile ma soprattutto è molto persistente e dove si attacca rimane, vestiti compresi.
Dovrò pertanto trasferire all'esterno tutto il setup per la sintesi e per far questo occorre che la stagione sia bella calda e confortevole.

Se ne riparlerà quindi a tempo debito... per ora conserviamo con cura l'1-bromopentano nella sua bottiglietta scura, in attesa di essere sacrificato a miglior gloria, tanto lui (l'abbiamo visto dalla tabella) non vede l'ora di reagire con qualcuno!

 
 
 

Gli Alogenuri alchilici (prima parte)

Post n°145 pubblicato il 21 Novembre 2011 da paoloalbert

Gli alogenuri alchilici, di formula generale R-X (R = radicale alchilico, X = Cl, Br, I) sono dei reagenti fondamentali per la chimica organica; oltre agli importantissimi reattivi di Grignard possono dare una bella serie di sostituzioni nucleofile, che avvengono naturalmente ognuna nelle condizioni adatte:

     Alogenuri alchilici

Mi sembra possa bastare...

Ma come si possono preparare gli alogenuri alchilici?

1- Per alogenazione diretta degli alcani

R-H + X2 --> R-X + HX

2- Per addizione di acidi alogenidrici agli alcheni

R1R2=C=R3R4 + HX --> R1R2XΞC-CΞHR3R4

3- Per reazione degli alcoli con acidi alogenidrici

R-OH + HX --> R-X + H2O

4- Per reazione degli alcoli primari e secondari con opportuni trasportatori di alogeno, come PCl3, PCl5, SOCl2;

R-OH + SOCl2 --> R-Cl + HCl + SO2

In vista di impiego futuro di un alogenuro alchilico, ho fatto la sintesi del bromuro di n-amile (1-bromopentano) usando il terzo metodo sopra elencato.

Uno degli scopi principali della sintesi era la preparazione successiva dell'amilmercaptano (1-pentantiolo), sfruttando la reazione indicata nella quinta riga della tabella sopra riportata;  ho già fatto un test in tal senso ed in futuro presenterò la sintesi nei dettagli.

Nella seconda parte dirò della preparazione pratica del bromuro di n-amile.

 
 
 

Elettroalberello di Saturno

Post n°144 pubblicato il 18 Novembre 2011 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Sembra strano, ma nella vecchia quanto ufficiosa nomenclatura chimica esistevano pure gli alberi, per lo più dedicati all'antica mitologia: e così c'è l'albero di Diana, l'albero di Marte, quello della Luna... e quello di Saturno.

E' chiaro che se si parla di Saturno, in chimica, il pensiero corre subito al piombo.
Non si chiama forse saturnismo l'avvelenamento cronico causato da questo metallo?
Non si chiamava forse zucchero di Saturno un suggestivo nome dell'acetato di piombo?

C'è la possibilità di provarne a fare uno di questi alberelli: facciamolo allora!

Questo esperimento l'ho chiamato elettroalbero perchè la deposizione del metallo avviene per via esclusivamente elettrica, non elettrochimica per spostamento metallo/ione; si tratta di una elettrolisi in senso stretto, facile e carina.
I risultati vengono abbastanza diversi ogni volta che si cambiano i parametri di lavoro, si può quindi sperimentare a piacere e i risultati sono sempre diversi e belli da vedere.
Io ho fatto nel modo seguente, provate magari a variare i tre fattori: concentrazione, corrente e tensione.

- Preparare una cinquantina di ml di soluzione al 10% di nitrato di piombo e aggiungervi un paio di ml di HNO3; porre in un Petri o in un cristallizzatore in modo che il livello di liquido sia abbastanza sottile.
Come elettrodi ho usato una lamina di piombo all'anodo ed un filo dello stesso metallo al catodo. La soluzione è molto conduttiva e bastano pochi volt per avere una corrente di parecchi mA, quindi non esagerare con la tensione.
Dopo pochi minuti si vede già il deposito catodico sotto forma di cristallini/laminette di piombo metallico splendente, che appaiono come belle ramificazioni dendritiche.

In una ventina di minuti la deposizione si ramifica verso l'anodo ed è completa.
In mancanza di elettrodi di piombo si può usare il filo per le saldature della vecchia lega Sn/Pb.
E' opportuno che l'anodo abbia superficie maggiore, ed il catodo sia filiforme.

Con il minimo di teoria si può dire che il -Pb2+ al catodo acquista 2 elettroni e si riduce a metallo, mentre all'anodo succede esattamente l'inverso, il Pb si ossida e passa in soluzione come -Pb2+.
Se la soluzione non fosse un po' acida si avrebbe alcalinizzazione 2 H2O + 2e --> H2 + 2 OH- e formazione di torbidità dovuta all'idrossido di piombo, cosa evitata dalla presenza dell'acido nitrico.

 

Saturno 1

Saturno 2

 

In alto si vede parte dell'anodo e sotto il filo catodico ricoperto dall'alberello ad aghetti e squamette del metallo saturnino che sta crescendo.


A proposito di alberi: se avessi ancora un po' di vetro solubile (il vetro solubile è silicato di sodio, una sostanza che in un lab non serve proprio a niente!) riproverei a fare il vaso col giardino chimico, una delle prime cose che preparai qualche annetto fa: ci starebbe bene come giocoso intermezzo in qualche parte del blog, come un vaso di fiori sulla finestra.

In mancanza, ci metto questo elettroalberello.

 
 
 

L'apparecchio di Marsh

Post n°143 pubblicato il 14 Novembre 2011 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Una volta (non l'anno scorso, un po' di più...) bastava andare dallo speziale, dire di essere perseguitati dai topi, chiedere una bustina di "arsenico" ed il gioco era fatto: ecco una decina di grammi di bianca anidride arseniosa a disposizione per qualsiasi evenienza!
Se poi "l'evenienza" consisteva nell'avvelenare il marito dopo il giusto tempo per non destare sospetti, chi se ne sarebbe accorto?
Valli poi a trovare i milligrammi di As2O3 nelle viscere del malcapitato!

Ma poi, nel 1836, a dare una mazzata alle avvelenatrici (come si sa l'uso del veleno è da sempre prevalente appannaggio del gentil sesso!) è arrivato l'apparecchio di James Marsh...

 

Marsh apparecchio

 

Ecco dettagliatamente in cosa consiste e come veniva adoperato questo geniale congegno per la ricerca dell'arsenico, in uso dalla sua invenzione e fino ad una cinquantina di anni fa o anche meno.

Nel matraccio di sinistra K di circa 150 ml vengono posti circa 7 grammi di zinco granulato, assieme a 20 ml di acido solforico diluito (1 a 7); si ha un regolare sviluppo di idrogeno, che viene essiccato dal cloruro di calcio presente nell'essicatore C e che dopo una ventina di minuti avrà scacciato tutta l'aria presente nell'apparecchiatura.
Si accende ora l'estremità di B (a destra), dove il gas produrrà una piccola fiammella di 2-3 mm; si regola la costanza di tale efflusso raffreddando o riscaldando opportunamente il matraccio.
Naturalmente è essenziale che tutti i reagenti adoperati siano assolutamente esenti da impurezze arsenicali, e ciò viene preventivamente verificato scaldando fortemente il tubo B: se nei primi venti minuti NON si ha formazione di uno specchio nero nel capillare finale a destra i reagenti si possono considerare puri e idonei alla prova.
(Tracce di arsenico potrebbero essere contenute sia nello zinco sia nell'acido solforico).

A questo punto si accende il bunsen sotto il tubo infusibile A e si versa nell'imbuto graduato T la soluzione da analizzare, acidificata con acido solforico; devono essere del tutto assenti sostanze organiche, ossidanti, cloruri e solfuri, e pertanto la soluzione deve essere opportunamente e accuratamente preparata.
Ometto i particolari di questa preparazione, lunga e laboriosa, poichè non credo proprio che a qualcuno possano interessare dettagli fino a questo livello...

Se la sostanza da analizzare contiene arsenico, per l'azione dell'idrogeno nascente sviluppato dallo zinco in ambiente acido si viene a formare nel matraccio K una certa quantità di idrogeno arseniato, o arsina AsH3, per esempio:

As2O3 + 12 H --> 2 AsH3 + 3 H2O

Questo gas, passando attraverso il tubo rovente A viene scisso in idrogeno e arsenico, il quale si deposita in forma di specchio nero nel capillare d, raffreddato da un filo d'acqua che cade dalla capsula W.
Ottenuto lo specchio, si taglia il tubo un po' oltre il capillare e lo si può comparare con altri ottenuti da quantità note di arsenico e poi si eseguono le prove di conferma.
A tal fine si riscalda il capillare a piccola fiamma tenendolo inclinato, in modo che l'arsenico venga ossidato dalla corrente d'aria formando anidride arseniosa As2O3:

2 AsH3 + 3 O2 --> As2O3 + 3 H2O

rilevabile anche per l'odore agliaceo che spande durante il riscaldamento anche a bassissime concentrazioni (ne basta un centesimo di milligrammo).
L'As2O3 si deposita nella parte fredda interna del tubo, in forma di piccolissimi ottaedri splendenti ben visibili con opportuno ingrandimento; ciò in genere basta per la conferma definitiva (vi sono ulteriori prove, che ometto).

Lo specchio di arsenico, a differenza dall'antimonio (anche questo forma lo specchio) è solubile in ipoclorito alcalino, e quindi si può differenziare:

2 As + 5 NaClO + 6NaOH --> 2 Na3AsO4 + 5 NaCl + 3 H2O

La sensibilità dell'apparecchio di Marsh è elevatissima: si possono rilevare quantità di arsenico fino a un decimillesimo di milligrammo, e, notare bene, non con un apparecchio moderno "con la spina" (come io chiamo questi eccezionali apparecchi attuali di analisi di sensibilità spaventosa), ma con della semplice vetreria e qualche reattivo, tutte cose disponibili fin dai primi dell'ottocento!
Poichè tutte le medaglie hanno anche un rovescio, l'estrema sensibilità del metodo di Marsh aveva anche qualche inconveniente, come abbiamo visto l'altra volta sulla pelle della povera Marie Lafarge.

L'apparecchio di Marsh ha comunque contribuito in quel secolo a far diminuire drasticamente i crimini legati all'arsenico, allora molto diffusi, facilitati soprattutto dal "normale" possesso di anidride arseniosa per la lotta alla sterminata popolazione di topi che allora imperversavano sia nel granaio del contadino, sia (e magari soprattutto...) nella cucina della signora contessa!

 
 
 

La chimica ed un lontano processo

Post n°142 pubblicato il 11 Novembre 2011 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Noi siamo ormai avvezzi per sovradosaggio mediatico ad ogni sorta di notizie di cronaca nera, tanto che non ci facciamo quasi più caso (se non nell'immediato), come drogati che devono aumentare sempre la dose di sostanza per risentirne gli effetti, i quali ben presto svaniscono.
Un tempo, neanche tanto lontano, diciamo fino agli anni '50, non era così: un caso giudiziario in cui fossero magari implicati personaggi di un certo livello poteva alimentare commenti e fazioni pro o contro per degli anni se non addirittura per decenni.

Nel 1840, in Francia, avvenne un fatto di cronaca che scosse l'opinione pubblica quasi quanto quello che mezzo secolo dopo sarebbe stato "il caso Dreyfus": fu il processo Lafarge.
Tutta la vicenda sarebbe troppo lunga da raccontare, quindi mi limiterò a dire solo l'essenziale.
I protagonisti sono Marie Capelle e Charles Lafarge, rispettivamente moglie e marito ed appartenenti alla ricca borghesia parigina; a questi si aggiungeranno altri attori importantissimi sotto il profilo di questa storia, e si aggiungeranno (in tema col mio blog!), dal punto di vista "chimico".

Marie Capelle fu accusata pochi mesi dopo le nozze di aver avvelenato il marito con l'arsenico, e condannata fortunosamente solo all'ergastolo e non alla pena capitale; in pratica ciò cambiò poco il suo destino perchè, pur graziata dodici anni dopo, morì appena fuori di prigione.
Ma andiamo in ordine.
La condanna scaturì da una palese serie di errori giudiziari, che scagionando il vero colpevole (che aveva ordito una diabolica macchinazione ai danni di Marie), tenne purtroppo conto solo dell'innamoramento del pubblico ministero per la sua tesi accusatoria, rigettando tutti gli elementi che a questa non fossero allineati.

[La storia si sa non ha tempo, e la situazione è spesso rivissuta in chiave moderna e non solo in ambito giudiziario... Mai ammettere un proprio errore, nemmeno dinanzi alla più palese delle evidenze!]

Elementi determinanti per l'esito del processo a Marie furono quindici perizie medico legali eseguite sul corpo della vittima, allo scopo di evidenziare o meno la presenza di arsenico; quattordici furono del tutto negative, ma la quindicesima (se una cosa la si vuol trovare, prima o poi la si trova!) rilevò "tracce" dell'elemento... e tanto bastò all'accusa e alla giuria.
La vera chiave di volta fu che la quindicesima perizia portava la firma niente meno che di Mateu Josep Bonaventura Orfila!

Orphila, di origini spagnole, era in quel periodo all'apice della fama in Francia e all'estero, membro di un'infinità di istituzioni prestigiose, insomma con un biglietto da visita lungo... mezzo metro!
Un vero luminare in tanti campi, autore di opere di Chimica medica, di Medicina legale e specialmente del famoso "Traitè des poisons", letto e pubblicato in più edizioni in tutta Europa e che fa considerare l'illustre professore come il vero fondatore della tossicologia moderna.
Le sue opinioni erano quindi come oracoli e difficilmente potevano essere contestate da esperti meno titolati; questa posizione psicologica fu sufficiente a neutralizzare tutti gli altri pareri opposti riguardo le perizie medico legali.
Perfino quella del chimico Francois Raspail, che all'epoca godeva nell'ambiente accademico di quasi altrettanta fama dell'illustre avversario.

La questione "arsenico sì-arsenico no" degenerò alla fine quasi in un aperto duello Orfila-Raspail sui metodi di indagine chimica per la ricerca dell'arsenico, che aveva come indiretto protagonista l'inglese James Marsh, inventore solo quattro anni prima di un metodo ultrasensibile per la ricerca del velenoso metalloide.
L'apparecchio di Marsh (del quale parlerò prossimamente) permetteva di rilevare quantità talmente piccole di arsenico (circa un decimillesimo di milligrammo!) che sembrava togliere ogni dubbio alle analisi.
Ma allora, perchè Orfila sbagliò?

Paradossalmente proprio per l'eccessiva sensibilità del metodo Marsh, che rivelò sì le tracce di arsenico nelle analisi tossicologice, ma che non provenivano dai resti di una vittima per avvelenamento ma dalla insufficiente purezza dei reagenti
usati dall'eminente tossicologo in occasione delle prove.
Questo fu appurato in seguito, di fronte ad una commissione nominata dall'Accademia delle Scienze di Parigi, per dirimere la questione una volta per tutte; in quell'occasione Raspail dichiarò nella foga oratoria che avrebbe rivelato la presenza di arsenico perfino nei braccioli della poltrona del presidente della Corte d'Assise!... mentre Orfila non fu in grado di riprodurre la stessa analisi che aveva portato alla condanna dell'imputata.

Ma intanto Marie Capelle era e restava in carcere, nonostante tutte le prove le fossero favorevoli; fu alla fine liberata dall'accanimento giudiziario (mai ammettere i propri errori! mai mollare l'osso azzannato...) grazie all'influenza politica di Luigi Napoleone, nel 1852. Pochi mesi dopo morì di tisi, che aveva contratto in prigione.

Ecco come ancora una volta una perizia che sembra esclusivamente tecnica può rivelarsi drammatica a tutti gli effetti (nel pro e nel contro!) se eseguita con leggerezza, con poca professionalità, o, infinitamente peggio in ambito giudiziario, partendo da tesi preconcette.

 
 
 

Sintesi del Tetraperoxicromato di potassio

Post n°141 pubblicato il 08 Novembre 2011 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Tutti sanno che il cromo prende il nome dal variegato colore dei suoi composti nei diversi stati di ossidazione.
I più comuni sono normalmente due: -Cr3+ di colore verde e -Cr6+ di colore giallo o arancio; nel primo caso il cromo si comporta da classico metallo e nel secondo da metalloide, dando origine ai cromati, CrO4--, isomorfi con i solfati.
Il triossido di cromo CrO3 (di colore rosso scuro) è chiamato infatti anidride cromica (analogamente all'anidride solforica SO3), anche se l'acido cromico H2CrO4 non è conosciuto allo stato libero.

Anche il numero di ossidazione -Cr2+ è abbastanza comune e variamente colorato, dando origne ai sali cromosi, fortemente riducenti e tendenti facilmente ad ossidarsi a cromici -Cr3+, di colore questa volta sul verde.

Stati di ossidazione assolutamente straordinari sono invece per questo versatile metallo i numeri 4 e 5.
Si comporta da tetravalente (4+) nell'esafluorocromato di potassio (K2CrF6), e da pentavalente (5+), con colore blù o marrone, nel bel composto iperossigenato K3Cr(O2)4 o K3CrO8 che andremo a preparare fra un attimo.

 

                                 Potassio tetraperossicromato

La reazione che faremo avvenire è la seguente:

K2Cr2O7 + 4 KOH + 9 H2O2 -> 2 K3CrO8 + O2 + 11 H2O

Materiale occorrente

- Potassio bi(di)cromato K2Cr2O7
- Acqua ossigenata H2O2 al 30/35%
- Potassio idrossido KOH
- Etanolo, etere

La procedura coinvolge sali di cromo esavalente, tossici e potenzialmente cancerogeni, perossido di idrogeno e idrossido di potassio concentrati, pertanto in modo categorico anche questa sintesi NON è adatta a chi lavora con leggerezza.

- In un becker da 100 ml sciogliere 5 g di K2Cr2O7 e 5 g di KOH in 15 ml di acqua; la soluzione gialla di cromato K2CrO4  ottenuta deve essere perfettamente limpida, se non lo fosse filtrare opportunamente.
Preparare in un altro contenitore 40 ml di acqua ossigenata al 15%, diluendo a doppio volume 20 ml di H2O2 a 130 volumi.
Porre i due contenitori in un congelatore e tenerveli finchè la temperatura dei liquidi sia a circa -10°, al limite del congelamento.
In mancanza del congelatore si può usare una miscela di ghiaccio e sale in quantità opportuna (tanta!).
Quando il raffreddamento è effettuato, aggiungere molto lentamente agitando con una bacchetta di vetro l'acqua ossigenata al cromato; esso assumerà inizialmente un colore aranciato e poi via via sempre più scuro, quasi nero.
Tenere la miscela sempre abbondantemente sotto lo zero per almeno un paio di ore, senza più mescolare, lasciando che la reazione si svolga tranquillamente, senza svolgimento tumultuoso di ossigeno.

(Inutile ricordare le precauzioni da prendere in caso di uso di un congelatore domestico per evitare i microspruzzi di cromo esavalente...!).

Alla fine decantare il liquido scuro ma limpido che sovrasta i cristallini scuri che si saranno depositati sul fondo del becker.
Risciacquare due tre volte con 7 ml di acqua molto fredda, ed altrettante con la medesima quantità di etanolo, decantando ogni volta al meglio.
Per favorire la rapida essicazione del prodotto, risciacquare un'ultima volta con una decina di ml di etere.
Porre su carta da filtro e lasciar asciugare.

Il tetraperoxicoromato di potassio si presenta come una polvere microcristallina di colore bruno scuro (non nero), non igroscopica e che si conserva bene senza problemi.
La resa è stata di 5 g, pari al 50% del teorico.

 

Potassio tetraperossicromato 1


La foto è un po' particolare (coerentemente col prodotto!), ed è stata fatta al tramonto con luce radente molto calda e col sostegno di un sassolino; si vede il bel colore marrone carico del prodotto, ma non si apprezza il luccichio dei cristallini, che appaiono come puntini bianchi. Unico modo per vederlo dal vivo è... farlo!

Naturalmente questo composto è estremamente ossidante e non stabile a caldo, dove si decompone in maniera esplosiva, originando cromato, ossido e perossido di potassio. (La reazione dei composti di combustione è infatti fortemente basica).
Per fare il test mettere qualche decina di mg di sostanza su una spatolina e scaldare col bunsen: ecco una bella microesplosione gialla!

La formula di struttura dell'immagine iniziale non è proprio formalmente corretta, ma è quella che rende maggiormente l'idea di questo sale inorganico con la pancia così piena di ossigeno.
Che esso si decomponga facilmente al calore NON significa minimamente che sia da considerarsi come una sostanza esplosiva, ma con i tempi che corrono è bene intendersi...

 

 
 
 

L'ho trovato!

Post n°140 pubblicato il 03 Novembre 2011 da paoloalbert

Ho ritrovato il mio vecchio cannello ferruminatorio di quand'ero studente.
Sapevo di averlo da qualche parte e insistendo son riuscito a scovarlo fra dimenticate cianfrusaglie.
Ora il cannellino si merita, come promesso, una bella foto in primo piano, anzi un articoletto tutto per lui.

 

Cannello 1

 

Prima di tutto, quando si rientra nella civiltà dopo lunghi viaggi in paesi remoti, occorre un bel bagno ristoratore; nel suo caso c'è voluto non un bagno ristoratore ma uno "restauratore", a base di... cartavetrata.
Era tutto ossidato, ora guarda che bell'ottone è riemerso! Ottone doc degli anni d'oro.
(Quando la plastica, questa opportunista che ormai ha vinto tutte le battaglie contro tutti, era ritenuta -seppure col moplen fresco di invenzione- vile, vilissimo materiale, come in definitiva si meriterebbe, la schifosa.
Ma cosa faremmo senza la plastica? Un'automobile di metallo?).

Anche il Figliol prodigo quando è ritornato a casa ha avuto il suo momento di gloria... non vogliamo forse celebrare come si deve questo ambìto ritorno del mio cannello presso di me?
Subito! Apparecchiamo la tavola per far festa e mettiamolo alla prova!
Per continuar la metafora, io non avevo il vitello grasso da ammazzare in suo onore (il bel parallelepipedo di carbone di tiglio) e mi son dovuto accontentare di un bovinello magro e scalcagnato (un carbone del barbecue, sigh!) ma basta il pensiero, no?

Per il pranzo ho deciso di fargli assaggiare tre portate abbastanza buone per lui, che ha dei gusti assai poco umani: il cadmio, il cromo ed il piombo.
Gli altri cationici piatti li assaggerà magari con calma, in seguito.
Ora non sto a riassumere tutta la procedura, che ho già descritta l'altra volta, ma testimonio solo i risultati con qualche foto.

Il cadmio (si trattava di solfuro) ha prodotto quel residuo giallo (ne ho messo un po' troppo, tutta colpa mia per la foga del momento) ma comunque ha formato quell'alone bruno-aranciato caratteristico e inconfondibile di CdO.

 

Cannello cadmio



Il cromo (K2Cr2O7) ha prodotto una macchia verde diffusa di ossido Cr2O3; naturalmente dal vivo il verde su fondo nero si vede molto meglio.

 

Cannello cromo


Il nitrato di piombo Pb(NO3)2 è stato ridotto al suo bravo globuletto metallico, ma come il solito questo era talmente piccolo che è stato impossibile fotografarlo, quindi credetemi sulla parola.

 

Cannello 2


Ora il cannello non scapperà più dal mio lab; lavorerà poco, questo è sicuro, ma avrà il suo posticino d'onore nel cassetto delle cose piccole, starà finalmente in buona compagnia fra burette, pipette, piastrine di porcellana, rotolini per il pH, capsuline, ecc.

Bentornato fra i tuoi amici, cannello!

 
 
 

Occhi magici

Post n°139 pubblicato il 30 Ottobre 2011 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

No, purtroppo le femmine non c'entrano con il discorso che andrò a fare.
Tante di loro hanno gli occhi magici, ma nel mio caso si tratta di occhi ben più prosaici: solo rozze valvole termoioniche. Intendiamoci... rozze solo in paragone alle ragazze!

In realtà le valvole hanno una loro intrinseca finezza, eleganza e fascino che le rende dispositivi "femmine" a tutti gli effetti.
Quindi l'accostamento lo ritengo accettabilmente corretto e lo tengo senza remore.

Spesso mi riaggancio ai post precedenti, e lo faccio anche stavolta, tornando a quel vecchio piaccametro (che dico vecchio... allora era nuovo!) che si trovava nel lab di chimica-fisica della mia scuola.
Dicevo che quello strumento aveva come indicatore non un milliamperometro ma un "occhio magico", costituito da una vecchia valvola radio, la 6E5.
Ora non ho più idea del funzionamento di quello specifico strumento della Beckman, ma ricordo che si doveva regolare una manopola al fine di ottenere la massima chiusura dell'"l'occhio verde".

Ma finalmente cos'è un occhio magico?

E' una particolare valvola termoionica, detta più propriamente "indicatrice di sintonia", usata nelle radio a valvole degli anni d'oro per facilitare la sintonizzazione corretta delle emittenti.
La valvola presenta alla sommità (o di lato) una placchetta di varie forme rivestita di sostanze (in genere solfuro di zinco attivato con Cu, Ag) che emettono una bella luminescenza verde se colpite da elettroni; a loro volta gli elettroni possono essere deviati più o meno da un campo elettrico in modo da colpire la placchetta in tutto o in parte.

Se la placchetta è colpita tutta si illumina completamente, altrimenti rimangono delle zone d'ombra più scure.
Siccome le prime indicatrici di sintonia avevano la placchetta di forma circolare con al centro un bottoncino scuro (il catodo emettitore di elettroni ed un elettrodo di comando) il tutto assomigliava ad un occhio, con l'iride verde e la pupilla nera.
Ecco perchè queste valvole si son sempre dette occhi magici.
L'aggettivo magico è facilmente spiegato perchè a quei tempi (siamo negli anni '30), tutto il funzionamento di una radio era quasi magia (per tanti lo è ancora anche negli anni duemila...).

Una immagine vale come al solito più di tante parole:

 

6E5  6E5 occhio

 

ecco come si presenta la valvola 6E5 e a fianco la vista della sommità illuminata, con ancora un settore d'ombra che si potrebbe restringere o allargare.

Appropriato il nome "occhio", vero?

Lo zoccolo della valvola è di tipo vecchio (anni '30) a 6 piedini, ma ne esiste anche una versione più moderna (anni '40) a otto piedini (in questo caso è detto "octal").

- pin 1: non collegato
- pin 2: un capo del filamento riscaldatore
- pin 3: la placca del triodo amplificatore e l'elettrodo di controllo
- pin 4: non collegato
- pin 5: la griglia del triodo amplificatore
- pin 6: la placca luminescente al solfuro di zinco
- pin 7: l'altro capo del filamento riscaldatore
- pin 8: il catodo emettitore di elettroni

Come funziona, in due parole, la 6E5?

A- il filamento si arroventa quando alimentato con una tensione di 6,3 volt
B- il catodo a contatto del filamento si riscalda ed emette elettroni
C- gli elettroni sono attirati dalla placca luminescente (pin n.6) perchè è tenuta a forte potenziale positivo
D- il segnale da visualizzare entra sulla griglia (pin n.5)
E- il segnale è amplificato e produce una variazione di tensione sulla placca (pin n.3), anch'essa positiva
F- questa variazione di tensione comanda la placchetta deviatrice di elettroni (ancora pin n.3)
G- se gli elettroni sono poco deviati dalla placchetta deviatrice l'occhio si chiude, se sono molto deviati l'occhio si apre


Quindi:
- segnale intenso (oppure buona sintonia della radio) --> occhio chiuso, tutto verde
- segnale debole (o cattiva sintonia della radio) --> occhio aperto (ombra larga)

Sono stato il più sintetico possibile perchè l'intendimento era di essere comprensibile soprattutto ai non addetti ai lavori; spero di esserci riuscito.

Queste valvole indicatrici sono nate negli anni '30 e sono state usate fino agli anni '60, con molte sigle e forme diverse (EM1, 6G5, WE18, EM34, UM80, EM84, DM71, ecc.) e con impieghi non solo strettamente radiofonici ma anche nel campo audio (e perfino chimico!), prima dell'avvento dei semiconduttori e della tecnologia attuale a LED.

Ancora oggi sopravvivono e si trovano facilmente su e-bay, sull'onda di una moda (e quando è solo moda è molto spesso insulsa) che vede nelle belle valvole accese, calde e luminose, quel tocco di esoterismo che i freddi (ma molto più efficienti) transistors non possono dare.

 
 
 

Cu2HgI4: celletta per conducibilitą

Post n°138 pubblicato il 27 Ottobre 2011 da paoloalbert

Nella discussione dedicata al termocromatismo del tetraiodomercurato rameoso Cu2HgI4 mi ero riproposto di allestire un setup adeguato alla misura delle variazioni della conducibilità elettrica relativa di questo interessante sale al variare della temperatura.
Naturalmente non è pensabile eseguire tale misura semplicemente immergendo nella polvere i puntali di un tester perchè in tal modo non si misura niente, essendo la resistenza elevatissima.
Nessuna polvere risulta conduttiva in tal modo, nemmeno una metallica; quello che io chiamo effetto "coherer"; provare con della semplice limatura metallica appena prodotta: resistenza quasi infinita!
(Ci saranno dei buoni esperimenti da fare su questo punto...).

Pertanto occorre pensare e assemblare un dispositivo che possa permettere una notevole compressione meccanica della sostanza in esame e contemporaneamente stabilire i relativi contatti elettrici senza incertezze.
Il lavoro è fattibile, anche se non immediato, e presuppone di avere a disposizione almeno una piccola ma adeguata attrezzatura meccanica.

 

Celletta 1

 

Le immagini e il disegno in sezione spiegano la costruzione di questa celletta dedicata al Cu2HgI4.

 

Celletta 2

Celletta 3

 

Gli elettrodi sono ricavati da due profilati in alluminio a L, serrati assieme da quattro viti di tiraggio, isolate da una parte per mezzo di boccoline in nylon (quelle usate per l'isolamento dei transistor in TO3) in modo che le viti non costituiscano contatto elettrico tra le due piastrine.
La polvere di Cu2HgI4 in esame è contenuta in un corto cilindretto di plastica, a contatto da una parte con una piastra e dall'altra con una rondellina di rame, premuta fortemente da una vite che si appoggia con un controdado sull'altro elettrodo; in questo modo si realizzano i due contatti elettrici e si può comprimere fortemente la sostanza così da renderne la conducibilità misurabile.
(Naturalmente se la sostanza in esame possiede di suo una certa conducibilità, altrimenti si può comprimere fin che si vuole!).
In ogni caso non aspettiamoci in queste condizioni conducibilità "da metalli": essa sarà sempre bassissima, con resistenza dell'ordine dei megaohm o frazioni, ma comunque leggibile.

Il test è stato eseguito alimentando il dispositivo con 12 V e misurando la corrente di passaggio sia a freddo che a caldo, a circa 80°, quindi oltre la temperatura di transizione del sale.
La corrente risente moltissimo, come è ovvio, delle condizioni istantanee di lavoro (pressione meccanica, dilatazioni, ecc.) ma il range di variazioni si assesta su valori abbastanza definiti: come ordine di grandezza circa 10 microA a freddo (1,2 Mohm) e circa 200 microA a caldo (60 Kohm), evdenziando un aumento conducibilità di una ventina di volte.

 

Celletta 4  Celletta 5

 

 

 

 

 

 

 

Mi aspettavo uno scalino di transizione molto più netto intorno ai 70°, mentre ho notato che le variazioni sono macroscopiche ma progressive.

Sottolineo fortemente che tutte queste misure sono RELATIVE, in funzione stretta delle condizioni di lavoro alle quali io ho operato, ma che comunque rendono bene l'idea che mi ero proposto, cioè di evidenziare "le variazioni" e non i valori assoluti, che in questo caso non sono di alcun interesse.

Per curiosità ho testato anche il comportamento in media frequenza (fino a 100 KHz) di questa sostanza, senza alcun risultato significativo in semiconduttività: solo pura resistenza ohmica.

Per la spiegazione del fenomeno rimando a quanto detto nel post precedente, trovando facilmente in rete ragione del fatto che ad un certo punto con l'aumento della temperatura gli ioni rame si mettono a saltellare di qua e di là nel reticolo cristallino in cerca di "buche", e così facendo (ricordo che --> cariche elettriche che si spostano = corrente!) rendono questa sostanza conduttiva con queste caratteristiche.

 
 
 

L'olio d'oliva del barone Arthur von Hubl

Post n°137 pubblicato il 22 Ottobre 2011 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Il Carnevale della chimica di fine ottobre, ospitato dal blog di Popinga, ci porta in tavola un argomento sfizioso: "La chimica in cucina", lasciando come il solito ai partecipanti una trattazione del tema molto discrezionale.
Per questa decima occasione carnevalesca mi sono permessso di scomodare nientemeno che...

...sua eccellenza imperiale (k.k., kaiserlich-koniglich) der Baron von Hubl!

Chi è costui? No, non è per niente un anonimo Carneade come può sembrare, perchè questo signore è passato alla storia come autore di un saggio importantissimo nella chimica merceologica: la determinazione del cosiddetto "Numero di iodio" per le sostanze grasse.
Cosa sia il numero di iodio lo vedremo fra un attimo.

Il nostro Barone era nato nel 1853 a Grosswardein, allora territorio austriaco ed ora importante città romena col nome di Oradea. 
Figlio di ufficiale dell'esercito austro-ungarico, divenne egli stesso capitano, e gli capitò di frequentare negli anni 1879-1881 il dipartimento chimico dell'Università Tecnica di Vienna.

Si interessò a diversi campi della materia, principalmente di fotochimica; assieme a Giuseppe Pizzighelli (un altro ufficile austro-ungarico, di chiare origini) sviluppò nuovi metodi per le applicazioni fotografiche allora in uso.
Divenne in seguito, durante la prima Guerra mondiale, addirittura capo dell'Istituto Geografico Militare per la sua esperienza in campo fotografico applicato alla cartogafia.
Fu comunque nel periodo universitario viennese che Hubl sviluppò il suo metodo per la determinazione del numero di iodio, per il quale è tutt'ora ricordato.

Si impone a questo punto la chiarificazione riguardo questo indice: il numero di iodio è un metodo per conoscere il grado di insaturazione (presenza di doppi legami) di una sostanza grassa, principalmente di un olio, e rappresenta la quantità di iodio che può essere fissata da 100 g di acidi grassi, sia in forma libera che combinata.

In determinate condizioni il doppio legame viene saturato ponendovi a destra e a sinistra, diciamo così, un atomo di alogeno; dalla quantità di iodio che viene fissato, si capisce facilmente che si può risalire al grado di insaturazione.
E dal grado di insaturazione si possono poi riconoscere il tipo di olio, eventuali adulterazioni e sofisticazioni, ecc.

E' quindi un indice importante, tutt'ora usato per caratterizzare un olio alimentare.

Per la determinazione del numero di iodio si usa il reattivo di Wijs, che è una soluzione in acido acetico/cicloesano di cloruro di iodio ICl, una sostanza molto reattiva, capace di alogenare facilmente i doppi legami.
Si titola poi con tiosolfato/amido l'eccesso di iodio non reagito e quindi si risale per differenza a quello assorbito dalle insaturazioni.
All'inizio Hubl, prima del miglioramento introdotto da Wijs, usava una soluzione alcolica di cloruro di mercurio e iodio sui grassi sciolti in cloroformio, comparando con una prova in bianco il colore risultante dopo la reazione.

Ho voluto riproporre tale metodo, naturalmente meno accurato di quello standard di Wijs, ma fedele al periodo storico... più o meno come tutte le mie sintesi e le mie prove, fatte prevalentemente in maniera "old style" o "vintage", come meglio preferiamo dire.

La reazione che avviene tra iodio e cloruro di mercurio è la seguente:

HgCl2 + I2 --> HgICl + ICl

dove si viene a formare proprio il cloruro di iodio, buon reattivo per i doppi legami, che vengono saturati da entrambi gli alogeni.

Ho proceduto in tal modo:

- Sciogliere 3 g di HgCl2 in 25 ml di etanolo ed altrettanto fare con 2,7 g di iodio, mescolare le soluzioni e portare a 100 ml.
Questo è il reattivo di Hubl originale, che contiene in un ml 0,0172 g di ICl.
Porre in una capsulina bianca 10 ml di cloroformio, 5 gocce di reattivo e tenere per la prova di confronto.
In un'altra capsula porre 1 ml di olio e 10 ml di cloroformio, mescolando fino a soluzione.
Titolare ora lentamente con il reattivo, mescolando ogni volta, fino a che la soluzione abbia lo stesso colore giallastro della prova in bianco.
Si nota che ad ogni aggiunta, aspettando un poco, avviene la decolorazione del reattivo, indice dell'avvenuto legame degli alogeni (si lega sia lo iodio che il cloro) al doppio legame dell'acido oleico e di eventuai alri insaturi.
L'acido oleico è infatti un acido insaturo e ha un doppio legame in questa posizione

CH3-(CH2)7-CH=CH-(CH2)7-COOH; alogenando si viene a formare CH3-(CH2)7-CHI-CHCl-(CH2)7-COOH

Allo stesso modo avviene per l'acido linoleico, doppiamente insaturo, presente anch'esso in discreta quantità nell'olio di oliva.
La decolorazione avviene all'inizio lentamente, poi in maniera veloce e ritorna più lenta verso la fine; attendere quindi qualche minuto prima di procedere con le ulteriori ultime aggiunte.
Nella mia prova sono stati consumati 26 ml di reattivo e la foto mostra il colore delle due capsule alla fine della reazione, quando ho considerato finita la titolazione.

Per non appesantire il discorso ometto i calcoli per risalire al numero di iodio del mio olio, che comunque mi ha dato un valore di 88, in linea con i valori dell'olio di oliva, che possono variare a seconda del tipo e della provenienza tra 80 e 88.

(Nel mio caso si trattava di un olio della riviera gardesana, che detto per inciso è un'eccellenza...).

Come dicevo in altra occasione, le analisi dell'olio sono tantissime; il mio valore 88 per il N.I. vuole comunque essere puramente indicativo e non ne scommetterei l'esattezza se comparato con quello ottenuto con i moderni metodi strumentali (probabilmente è sbagliato di qualche punto per eccesso).

Ho fatto questo test con il solito spirito: sembra impossibile ai più, ma la chimica per qualcuno è, oltre che una soddisfazione culturale, anche e soprattutto divertimento!

 
 
 

Termocromatismo del Tetraiodomercurato rameoso

Post n°136 pubblicato il 18 Ottobre 2011 da paoloalbert

Alcune sostanze si comportano in modo strano a seconda delle condizioni a cui sono sottoposte: c'è chi mostra fluorescenza, chi fosforescenza, chi piezoelettricità, chi piezoluminescenza, chi termoconduttività... ecc.... e c'è chi mostra il fenomeno del termocromatismo (o termocromismo), cioè il colore mostrato dalla sostanza è funzione della temperatura.

Vedere una sostanza colorata che cambia completamente aspetto scaldandola è suggestivo.
L'esempio più classico e semplice è dato dall'ossido di zinco, che è bianchissimo a freddo e giallo limone se scaldato a qualche centinaio di gradi.
Ma c'è un composto particolare e poco comune che cambia nettamente colore a una temperatura molto più bassa e gestibile, circa 70 gradi, ed è il tetraiodomercurato rameoso Cu2HgI4.

Questo composto è di un bel rosso vermiglione a freddo e diventa marrone scuro, quasi nero, alla temperatura di transizione.
Il motivo del cambiamento di colore risiede nella struttura cristallina, che è variabile a seconda della temperatura e permette migrazione di ioni da una parte all'altra del cristallo tetraedrico.
Come vedremo questa migrazione produce anche una notevole variazione nella conduttività elettrica tra lo stato a freddo e a caldo.
Non è questo il luogo adatto ad approfondimenti teorici, che si possono reperire facilmente in rete, e passiamo quindi subito alla fase sperimentale pratica con questa interessante sostanza.

Innnzitutto occorre produrlo, il Cu2HgI4!
Vi sono un paio di metodi, che essenzialmente combinano lo ioduro di mercurio con lo ioduro di rame in ambiente riducente.
Il metodo migliore parte da HgCl2, che addizionato di ioduro di potassio in eccesso forma lo iodomercurato di potassio, K2HgI4 solubile; si aggiunge poi solfato di rame CuSO4 e nella soluzione è fatta passare una corrente di anidride solforosa SO2 finchè tutto lo iodomercurato rameoso rosso è precipitato.
Questo metodo presuppone però l'impiego di SO2 gas, che è molto scomodo.
Un metodo alternativo più semplice, quello che ho seguito, è il seguente:

- in una beuta da 50 ml sciogliere 1,25 g di CuSO4 in 10 ml di acqua leggermente acidulata con acido acetico; aggiungendo a questa una soluzione di 2 g di KI in 10 ml di acqua si formerà un precipitato bianco di ioduro rameoso CuI. Aggiungere alla miscela 0,4 g di sodio solfito Na2SO3 disciolti in una ventina di ml di acqua, mescolare bene e filtrare il precipitato su buchner, lavando una volta.
Sciogliere in un becker da 150 ml 0,81 g di nitrato di mercurio Hg(NO3)2 in 50 ml di acqua e aggiungervi 1 g di KI sciolti in 50 ml di acqua; si formerà un precipitato rosso di ioduro di mercurio HgI2.
Aggiungere a questa sospensione lo ioduro rameoso prima preparato e portare a leggera ebollizione per un quarto d'ora.
Filtrare a caldo il precipitato rossastro, lavando bene, e lasciar essicare.

Scaldare in capsula a bagno maria bollente il prodotto, mescolandolo con una spatolina per qualche minuto, fino a sicura essicazione; durante il riscaldamento si nota il primo cambiamento di colore a circa 70° e da questo momento in poi il termocromatismo è perfettamente reversibile, un bel rosso a freddo e marrone molto scuro a caldo.
Con un sistema simile a quello usato per determinare il punto di fusione di una sostanza, si può verificare l'esatta temperatura di transizione, che dovrebbe essere tra i 67° e i 71°.

Ecco le foto di una piccola quantità di Cu2HgI4 nelle due situazioni freddo-caldo: la variazione di colore, pur con un punto di transizione così basso, è veramente marcata!

 

Tetraiodomercurato rameoso  Tetraiodomercurato rameoso 1

 

 

 

 

 

 

Le caratteristiche di questo interessante composto iodo-cupro-mercurico non finiscono qui: come dicevo all'inizio, esso al variare della temperatura mostra anche una notevole variazione di conduttività elettrica, che ho voluto investigare quantitativamente nei limiti dei miei mezzi, costruendo un piccolo dispositivo espressamente dedicato a questa prova.


E' quanto vedremo nella seconda parte di questo lavoro.

 
 
 

Sintesi dell'Acetato di metile

Post n°135 pubblicato il 14 Ottobre 2011 da paoloalbert

Come dico spesso, ogni tanto arriva inevitabile la sintesi di un estere.
Purtroppo gli esteri degli acidi grassi inferiori e di primi alcoli non sono moltissimi, e quindi ogni tanto ne faccio uno con il metodo Fischer, distanziandoli opportunamente perchè me li tengo razionati, non voglio finirli tutti troppo rapidamente!
Mi piace particolarmente fare gli esteri e sentirne poi il profumo.

Il secondo estere a partire dall'inizio mi mancava (il primo è il formiato di metile, ma questo credo che non lo farò perchè troppo volatile, 31,5°) e quindi oggi è toccato all'acetato di metile.

Andiamo quindi ad apparecchiare la cucina: lo chef richiede oggi poca roba, è un piattino estivo molto semplice e fresco, di sicuro risultato e di buon gradimento... olfattivo.
Ci serve naturalmente dell'acido acetico, dell' alcol metilico ed un pochino di acido solforico come catalizzatore acido/disidratante.
Le pentole saranno un refrigerante Allhin e uno Liebig, oltre ad un palloncino ed una beuta di raccolta.
Tutte cose che in qualsiasi cucina chimica certo non possono mancare.

Allora, in barba a quei "chimici teorici" che non volendo sporcarsi le mani paragonano i chimici sperimentali a dei cuochi, mi dichiaro apposta cuoco chimico ruspante e così procedo:

 

Metile acetato

 

-In un pallone da 250 ml porre 100 ml di acido acetico, 20 ml di metanolo e 4 ml di H2SO4 concentrato. Dati i vicini punti di ebollizione del metanolo (64,7°) e del metilacetato (57°) ho usato un grande eccesso di acido rispetto all'alcool (più di 3:1) in modo da spostare l'equilibrio a destra il più possibile verso una esterificazione abbastanza completa ed aver meno problemi nella separazione finale.
Mettere a riflusso per almeno quattro ore.
Il metilacetato è solubile anche in acqua e pertanto non è possibile una separazione e lavaggio preliminari, quindi si procede subito alla distillazione, raccogliendo poco meno di 30 ml di prodotto (insistendo passa acqua e acido acetico).
Aggiungere al liquido una punta di spatola di NaHCO3 solido per elminare l'acidità residua della prima distillazione e quindi ridistillare per l'ulteriore purificazione, raccogliendo fin verso i 60°.
Seccare l'estere lasciandolo a contatto una mezz'ora con un un disidratante adatto (in questa occasione ho usato il solfato di rame anidro).
La resa è stata di 23 ml (21 g), circa il 55%, d. 0,93 e p.e. 57°
La bassa resa conferma che l'acetilazione dei due primi alcoli C1 e C2 è abbastanza difficile, poichè anche il classico acetato di etile non è semplice a farsi con alta resa.
L'acetato di metile si presenta come un liquido limpido volatile, di odore molto piacevole, somigliante all'omologo estere etilico, ma più brusco e un po' più "acetoso".

Stavolta non ho messo fotografie della sintesi, perchè si assomigliano tutte e hanno poco significato; in ogni caso... la saga degli esteri continua!

 
 
 

Cannelli ferruminatori in azione!

Post n°134 pubblicato il 11 Ottobre 2011 da paoloalbert

In occasione del post sui ricordi di scuola ho accennato all'impiego del cannello ferruminatorio; naturalmente si parla a proposito di quegli studenti di chimica che, come me, frequentavano qualche anno fa laboratori dove ancora nessun "apparecchio con la spina" aveva preso piede.
A dir il vero non è proprio corretto, perchè qualcosa con la spina c'era: nel laboratorio di chimica-fisica ricordo due inavvicinabili, orgogliosi e "modernissimi" piaccametri elettronici della Beckmann... a valvole naturalmente!
E poi, siamo sinceri, anche la centrifuga non aveva forse la spina per il suo bravo motore elettrico?

I piaccametri li ricordo benissimo perchè, per me che ero stralunato anche nei riguardi dell'elettronica, avevano come indicatore la valvola 6E5GT, uno di quegli "occhi magici" delle antiche radio, con un iride luminescente verde che si apriva e chiudeva secondo l'intensità del segnale, nel caso specifico secondo le indicazioni della sonda al calomelano.
Bella valvola la 6E5, poi sostituita dalla EM81 "a sipario" e ancora dopo dalla EM84 "a doppia striscia" e dalla DM71 "a punto esclamativo" nei registratori Geloso...
Ma dove sono andato a finire? Mi sono messo a divagare sugli occhi magici, torniamo ai cannelli!

L'amico Simone mi ha chiesto come si usavano: ecco come.

Le riduzioni sul carbone al cannello ferruminatorio facevano parte dei cosiddetti "saggi preliminari" di una analisi inorganica. Ognuno di noi aveva a disposizione (comprandolo, è chiaro!) un bel blocchetto di carbone di legno di tiglio, una specie di mattoncino resistente lungo un palmo.
Si praticava in un punto una fossetta nella quale si mescolava una piccola quantità della sostanza da analizzare assieme al doppio di soda anidra (Na2CO3) e con l'ausilio del bunsen e del cannello si scaldava nella fiamma riducente luminosa.

Il cannello ferruminatorio non era altro che un tubicino di ottone lungo una trentina di centimetri, rastremato in più sezioni e con la punta piegata a L; soffiando nella parte di maggior diametro, si poteva dirigere il dardo concentrato dove si voleva.
[Se mai riuscirò a ritrovare il mio, metto una foto a tutto blog!]

Essendo il carbone poroso, le sostanze facilmente fusibili come gli alcali sono assorbite, e le altre trasformate prima in carbonati, poi in ossidi e per ulteriore riduzione in metallo.
Così per esempio il Cu, Pb, Fe, Ni, Co, Sn... originano un globuletto o laminette metalliche visibili con un po' di attenzione.

Metalli volatili come Zn, Cd, As, si ossidano comunque e danno un'aureola caratteristica nella direzione opposta a cui si soffia: gialla a caldo e bianca a freddo per lo zinco, marrone per il cadmio, bianca e volatile per l'arsenico (oltre all'odore agliaceo).
Piombo, bismuto e stagno, danno sia il globuletto sia l'aureola.
I metalli alcalino terrosi danno ossidi bianchi fortemente splendenti alla fiamma ossidante ad alta temperatura, mentre borati e fosfati formano una massa vetrosa.

Si possono riconoscere al carbone anche alcuni sali, per esempio i nitriti, nitrati, clorati, che riscaldati producono microscopiche "deflagrazioni" e certi altri (NaCl per es.) che producono "crepitazione".
Tutto a discrezione della bravura dell'operatore, che spaziava naturalmente da chi "vedeva sempre tutto" a chi "non vedeva mai un c..."

Naturalmente dopo un po' di tempo il mattoncino di tiglio era tutto bruciacchiato e pieno di aloni e residui di ogni tipo e andava cambiato... ma nel frattempo l'anno scolastico volgeva al terzo trimestre e si passava magari a qualcosa di più "tecnologico", magari andando nel divertentissimo (almeno per me!) Laboratorio di Chimica Organica, al quale ancora oggi assegno con onore le iniziali maiuscole.

Tutto molto empirico vero? Certo, molto empirico se vogliamo, ma anche molto divertente!
Poteva essere un lunedì mattina? Due ore alla ricerca di anioni e cationi, e...
...martedì pomeriggio? Tre ore di laboratorio di organica --> che puzze, ma che spasso ragazzi!

 

 
 
 

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