Ieri l'editoriale di Ezio Mauro ha "fotografato" pienamente la situazione
del nostro paese, concordo pienamente con lui...
C'è qualcosa di impopolare e tuttavia necessario da dire ancora
sull'assalto dell'antipolitica al cielo italiano di questo sgangherato 2007.
Niente di ciò che sta avvenendo sarebbe possibile se sotto la crosta
sottile di questa crisi dei partiti che diventa crisi di rappresentanza,
si allarga alle istituzioni, corrode il discorso pubblico, non ci fosse
un'altra crisi ben più profonda che continuiamo a ignorare perché non
la vogliamo vedere. E' la decadenza del Paese, l'indebolimento della
coscienza di sé e della percezione esteriore, la perdita di peso specifico
e di identità culturale. Ciò che dà forma contemporanea ad un'idea
dell'Italia, la custodisce aggiornandola nel passaggio delle generazioni,
la testimonia nel mondo, garantendo una sostanza identitaria agli alti
e bassi della politica, ai cicli dell'economia, all'autonoma rappresentazione
del Paese che la cultura fa nel cinema, nella letteratura, nel teatro, nella
musica, nei media o in televisione.
Se questa idea che il Paese ha di se stesso, e che il mondo ha di noi, non
si fosse fiaccata fino a confondersi e smarrirsi, il sussulto di ribellione ai costi
crescenti della politica, alla lottizzazione di ogni spazio pubblico con l'umiliazione
del merito, all'esibizione pubblica dei privilegi avrebbe preso la strada di
una spinta forzata al cambiamento e alla riforma. Non di un disincanto
che si trasforma in disaffezione democratica mentre la protesta diventa
una sorta di secessione dalla vita pubblica: un passaggio in una dimensione
parallela - ecco il punto - dove l'idea stessa di cambiamento cede alla ribellione,
e alla cattiva politica si risponde cancellando la politica e abrogando i partiti.
Come se cambiare l'Italia fosse impossibile. O, peggio, inutile.
Un Paese che dedica quattro serate tv a miss Italia, riunisce una trentina
di persone in un vertice di maggioranza attorno a Prodi, inventa un
cartoon politico come la Brambilla per esorcizzare il problema politico
della successione a Berlusconi, vede restare tranquillamente al suo
posto il presidente di Mediobanca rinviato a giudizio con altri 34 per il
crac Cirio, forma due partiti anche per discutere l'eredità Pavarotti e
dà ogni sera al Papa uno spazio sicuro nel suo maggior telegiornale, ha la
proiezione internazionale che questo triste perimetro autunnale disegna.
Un'Italia in forte perdita di velocità, dove l'unico leader capace di innovazione
è un manager straniero come Sergio Marchionne mentre il ceto politico è
l'elemento più statico, immobile, in un sistema che perde peso e ruolo in
Europa e nel mondo. Perché la moda, il Chianti e le Langhe non possono
da soli sostenere e rinnovare la tradizione e l'ambizione di un Paese che
non può essere soltanto l'atelier dell'Occidente, o la sua casa di riposo.
Ma se tutto questo è vero, e purtroppo lo è, l'antipolitica è soltanto una spia
- e parziale - dell'indebolimento di un sentimento pubblico e di uno spirito
nazionale, qualcosa che va molto al di là delle dimensione strettamente
politica e istituzionale. È quel che potremmo chiamare il senso di una perdita
progressiva di cittadinanza in un Paese che perde intanto ogni piattaforma
identitaria comune, ogni appartenenza sicura, qualsiasi cultura di riferimento.
Come può questo Paese non perdere sicurezza, coscienza, peso, capacità di
rappresentare se stesso e di valorizzarsi, innovando e modernizzando?
Il "V-day", a mio giudizio, è una prova di
questo impoverimento. Solitudini politiche
sparse, delusioni individuali, secessioni
personali si riuniscono in uno show, come
se cercassero "soluzioni biografiche a
contraddizioni sistemiche".
È quella che Zygmunt Bauman chiama
la comunità del talk-show, con gli idoli
che sostituiscono i leader, mentre il potere
dei numeri - la folla - consegna loro il
carisma, capace a sua volta di trasformare
gli spettatori in seguaci.
Attorno, la celebrità sostituisce la fama, la
notorietà vale più della stima, l'evento prende
il posto della politica e trasforma i cittadini da attori a spettatori: pubblico.
Ma come si fa a non vedere che in questa atrofia del discorso politico,
che cortocircuita se stesso trasformando il "vaffanculo" nella massima espressione
di impegno civile dell'Italia 2007, c'è la decadenza di ogni
autorità, il venir meno di ciò che si chiamava "l'onore sociale" dei servitori
dello Stato, il logoramento vasto del potere nel suo senso più generale:
il potere in forza della legalità, in forza "della disposizione all'obbedienza",
nell'adempimento di doveri conformi a una regola.
Se è questo che è saltato, il vuoto allora riguarda tutti, non soltanto la
classe politica. È l'establishment del Paese nel suo insieme che invece
di sentirsi assolto dal pubblico processo al capro espiatorio politico, deve
rendere conto di questo deficit complessivo di rappresentanza, di questo
impoverimento del sistema-Italia, di questa secessione strisciante, dello
smarrimento non solo del senso dello Stato ma anche di uno spirito
repubblicano comune e condiviso. Troppo comodo partecipare al valzer
dell'antipolitica dagli spalti di un capitalismo asfittico nelle sue scatole
cinesi, di una finanza che cerca il comando senza il rischio, di un'industria
che dello Stato conosce solo gli aiuti e mai le prerogative.
Quando la crisi è di sistema e l'indebolimento del Paese è l'unico risultato
visibile ad occhio nudo, davanti alla secessione strisciante di troppi cittadini
dalla cosa pubblica bisognerebbe che l'establishment italiano evitasse
di contare in anticipo le monetine da lanciare contro la politica, aspettando
la supplenza e sognando l'eredità. Meglio chiedersi, finché c'è tempo,
per chi suona la campana.
EZIO MAURO - Repubblica.it
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