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donne con la gonna e donne col pisello

Post n°41 pubblicato il 21 Febbraio 2010 da m_de_pasquale
 
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Sarà stata la contaminazione tra Platone – con i ragazzi di terza stiamo leggendo il mito della caverna – e Freud – con quelli di quinta stiamo facendo un approfondimento sulla teoria della sessualità – che mi ha fatto pensare alla riflessione della filosofa Irigaray ed in particolare alla sua analisi del mito della caverna: “Socrate racconta che degli uomini abitano sottoterra in una dimora che ha forma di caverna. Terra, dimora, caverna si possono leggere come espressioni quasi equivalenti a ύστέρα [termine usato da Platone nel racconto contenuto nel libro VII della Repubblica: la sua traduzione letterale è utero]”. Gli uomini che abitano la caverna fin dalla loro infanzia sono “incatenati al collo e alle gambe, sono tenuti con la testa e il sesso, di fronte a, rivolti verso il davanti”, quindi non sono mai usciti da questo luogo. “L’entrata in questo antro è costituita da un lungo passaggio che porta verso l’alto, verso la luce del giorno”. Socrate prosegue raccontando che dalla caverna, a forma di un ventre, si libera un prigioniero che percorre la strada verso il mondo esterno illuminato dal sole. Irigaray proponendo un’interpretazione del mito platonico basata sul parallelismo tra caverna e utero, ritrova, così, l’origine simbolica dell’esclusione del femminile e del materno da tutto il pensiero filosofico occidentale. Da una parte l’utero/caverna, simbolo della nascita carnale (il primo segmento secondo Platone, quello della sensibilità), dall’altra il sole, simbolo della rinascita spirituale (il secondo segmento, quello dell’intelletto), costituente, per Platone, il modello originario: l’anima si lascia alle spalle le suggestioni della molteplicità terrena per tendere all’Uno, al Bene in cui individua la sua vera origine. Viene dimenticata l’origine materna, corporea, femminile (simboleggiata dalla caverna) in favore di una nuova genesi, più nobile di quella carnale, ma dolorosa, che brucia gli occhi, (rappresentata dalla fuga verso il mondo esterno, illuminato dal sole) mediata solo dal pensiero. E’ un percorso tutto maschile che si perde nella ricerca di una nascita considerata più nobile di quella carnale, una nascita mediata solo dal pensiero: che ne è dell’origine materna, carnale e della genealogia femminile in cui l’anima si inscrive? L’androcentrismo platonico, secondo Irigaray, è evidente: “Viene perpetuata, con l’aiuto delle catene, la finzione della linearità, della prospettiva rettilinea, del movimento continuo in un’unica direzione. Verso l’avanti. Antro che non può essere esplorato circolarmente, circoscritto, delimitato con circospezione…. L’unica cosa che possono fare è di guardare di fronte a sé quello che si da loro a vedere. Immobilizzati come sono dall’impossibilità di voltarsi, di ritornare verso l’origine, verso l’ ύστέρα, devono per forza guardare di fronte a sé, verso il fondo dell’antro, verso il progetto metaforico del fondo dell’antro che servirà da tela di sfondo per tutte le future rappresentazioni. Facce, sguardi, sessi tenuti nella direzione retta, sempre tesi in avanti, secondo una linea retta. Direzione fallica, linea fallica, tempo fallico, le spalle girate all’origine […] Da sempre essi sono prigionieri del processo di metaforizzazione dell’ ύστέρα. Traslazione dall’anteriore al posteriore, dall’origine alla fine, all’orizzonte del telos … l’ύστέρα non apparirà mai, non avrà mai volto … ma il progetto della sua rappresentazione sta sotto, ingloba, circonda, connota ogni veduta, punto di vista… degli uomini quindi si trovano incatenati in questa traslazione dell’ ύστέρα”. Predominio del pensiero maschile, un pensiero che guarda in avanti, rettilineo, verso il telos; pensiero disgiuntivo che separa gli opposti nella contrapposizione dei significati; pensiero che privilegia la ragione (l’anima razionale) la sola capace di cogliere la vera origine (Il Bene, l’Uno). Che ne è del pensiero femminile che guarda all’indietro, che si rivolge all’origine carnale, all’utero da cui proveniamo? Che fa convivere (congiunge) ciò che è opposto e perciò è simbolico nel senso che mette assieme ciò che la ragione disgiunge? Che è attento all’abisso del nostro inconscio (l’anima psichica) considerando che la nostra psiche è più della nostra razionalità? Nonostante la soggezione (rimozione) storica che questo pensiero ha subito, esso riaffiora: è quella alterità femminile dimenticata, mortificata da una cultura secolare che ritorna come inconscio (luogo dove la produzione di senso avviene per accoglimento degli opposti e non per separazione), sentimento (mente che tiene insieme – syn – gli opposti senza espellere l’uno a vantaggio dell’altro), sesso (ovvero nesso perché avvicina gli opposti, il maschio e la femmina, per legarli insieme). Afferma Galimberti: “ C’è una differenza tra il maschile e il femminile, e coloro che la negano la possono negare solo in quanto hanno già negato psiche, inconscio, sentimento e sesso. Dopo questo sacrificio nasce l’indifferenza tra maschile e femminile o, come oggi si preferisce dire, la parità dei sessi. Una parità che, come ognuno può vedere da sé, è giocata sul modello maschile che conosce solo la luce chiara del giorno in opposizione alla luce nera della notte, mai quelle albe e quei tramonti dove le due luci si con-fondono”. Noi maschi dobbiamo capire che esiste la differenza e  che l’alterità non può essere pensata riducendola alle categorie della nostra parte (col rischio che le donne siano maschi travestiti da donne: la donna col pisello di una nota canzone). Non dovremmo, forse, ritornare a quanto diceva Jung sulla parte più profonda di noi, caratterizzata dall’unione dei contrari, il cui accesso – indispensabile per il nostro equilibrio interiore – avviene  grazie alla parte femminile (anima) che ci abita?

 
 
 
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