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il sacro della natura

Post n°79 pubblicato il 25 Novembre 2011 da m_de_pasquale
 

Otto individua una serie di fenomeni che rubrica nella fase ingenua dell’evoluzione umana e che considera come “l’atrio della religione”: “Essi sono la credenza nei morti e il loro culto, la credenza e il culto degli spiriti, la magia, le saghe e i miti, la venerazione dei fenomeni naturali, terribili o mirabili, nocivi o vantaggiosi, la strana idea del potere, il feticismo e il totemismo, il culto delle piante e degli animali, il demonismo”. Tralasciando il suo giudizio di valore su dette manifestazioni, per noi è interessante approfondire l’esperienza religiosa della natura nelle società premoderne perché, trattandosi di uno sguardo originario libero da ogni sovrastruttura successiva, ci permette di cogliere nella sua essenzialità quella che abbiamo definito funzione trascendente dell’uomo che si manifesta nella possibilità di andare oltre ed al di là dei significati imposti dalla ragione, cogliendo la dimensione simbolica capace di vivere la natura come una ierofania (= manifestazione del sacro). Grazie ai simboli – sostiene Eliade – l’uomo esce dalla sua situazione particolare per aprirsi al generale ed universale: “Di fronte a un albero qualunque, simbolo dell’Albero del Mondo e immagine della Vita cosmica, un uomo delle società premoderne è capace di raggiungere la più alta spiritualità: comprende il simbolo, è in grado di vivere l’universale”. Gli elementi fisici osservati dall’uomo religioso - per il quale non è ancora prevalente lo sguardo scientifico - acquisiscono una dimensione simbolica, rinviano, cioè, ad un “significato” che non coincide con quello ordinario assegnato all’elemento. Questo significato potremmo interpretarlo come la risposta che l’uomo costruisce  per soddisfare la domanda generata dalla sua capacità di trascendenza. Se si passano in rassegna i più ricorrenti significati che l’uomo religioso ha attribuito agli elementi della natura, potremmo sperare di capirci qualcosa di più sulla domanda, ovvero su quei bisogni originati dal fondo oscuro che ci abita e che abbiamo identificato col sacro: il tutto che appaghi il desiderio di superamento della sua condizione di precarietà; i significati in cui possano riflettersi le esperienze e le dinamiche fondamentali della vita. L’infinita altezza del cielo rinvia alla sacralità dello stesso: “La contemplazione della volta celeste, da sola, suscita nella coscienza primitiva un’esperienza religiosa ... questa contemplazione equivale, per lui, a una rivelazione. Il Cielo si rivela quel che è in realtà: infinito, trascendente. La volta celeste è per eccellenza cosa del tutto diversa dalla pochezza dell’uomo e del suo spazio vitale … L’alto è una categoria inaccessibile all’uomo in quanto tale; appartiene di diritto alle forze e agli esseri sovrumani” (Eliade). Nell’infinita distanza del cielo, nei suoi spazi immensi non si rispecchia forse e riesce a trovar pace l’ignota profondità del mio essere? Nel simbolismo dell’altezza, dell’ascensione, del centro, si colloca la forza ierofanica della montagna che “è più vicina al cielo, e questo le conferisce una doppia sacralità: da un lato partecipa al simbolismo spaziale della trascendenza (alto, verticale, supremo, ecc.), e d’altra parte il monte è per eccellenza il dominio delle ierofanie atmosferiche … il monte, in quanto punto d’incontro fra cielo e terra, si trova al centro del mondo ed è sicuramente il punto più alto della terra” (Eliade). Se il centro è l’origine – ombelico della terra, punto d’irradiazione dell’energia della vita – da cui sono nate le differenze che per loro natura sono parziali e quindi hanno bisogno di completamento, potremmo interpretare il fascino del suo richiamo come una nostalgia delle origini? Se l’altitudine ha una virtù consacrante, il simbolismo dell’ascensione non è forse espressivo della capacità trascendente dell’uomo come possibilità di sporgersi su quel fondo ignoto e misterioso della sua interiorità? “Ogni ascensione è una rottura di livello, un passaggio nell’oltretomba, un superamento dello spazio profano … Trascendere la condizione umana, in quanto si penetra in una zona sacra” (Eliade). Il Sole incarna il simbolismo del viaggio nell’oscurità che si conclude sempre con un ritorno; il tramonto è percepito non come la sua morte, ma come discesa dell’astro nelle regioni inferiori. Diversamente dalla Luna, il Sole ha il privilegio di attraversare l’inferno senza subire la modalità della morte: “Scendendo ogni notte nel regno dei morti, il Sole può condurre gli uomini con sé e, tramontando, farli morire; d’altra parte, può contemporaneamente guidare le anime attraverso le regioni infernali e ricondurle alla luce l’indomani, col giorno” (Eliade). Insomma è come se il Sole - per la sua forza e immutabilità attestata dal fatto che non viene scalfito dalla morte -  rappresentasse quella sicurezza, a cui aspiriamo, di ritornare indenni dal nostro viaggio nell’ignoto. La Luna invece cresce, cala e sparisce “la sua vita è soggetta alla legge universale del divenire, della nascita e della morte. Precisamente come l’uomo, la luna ha una storia patetica, perché la sua decrepitezza, come quella dell’uomo, termina con la morte. Ma questa morte è seguita da una rinascita: la luna nuova … La Luna rivela all’uomo la propria condizione umana: l’uomo guarda sé stesso e si ritrova nella vita della Luna” (Eliade). Diventando uno dei simboli più potenti della legge del divenire, la forza ierofanica della Luna si incarica di rispondere agli interrogativi che la ciclicità, la polarità, il conflitto e la conciliazione dei contrari pongono all’uomo. Infatti in buona parte dei temi collegati alla Luna quali  la fecondità (ad es. il  collegamento tra le fasi lunari e il ciclo mestruale), la rigenerazione periodica (vedi il simbolismo del serpente, animale lunare, perchè si rigenera cambiando pelle), il tempo e il destino (la luna che tesse i destini), il cambiamento segnato dall’opposizione luce-oscurità (luna nuova/luna piena), l’idea dominante è quella del ritmo ottenuto mediante la successione dei contrari. Le acque simboleggiano la sostanza primordiale, fonte di vita, da cui nascono tutte le forme e alle quali tornano, esse precedono ogni forma e sostengono ogni creazione: l’immersione nell’acqua simboleggia la regressione nel preformale, la dissoluzione delle forme; l’uscita dalle acque ripete il gesto cosmogonico della manifestazione formale. Il contatto con l’acqua, quindi, implica sempre una rigenerazione, una nuova nascita. La capacità purificatrice dell’acqua che abolendo ogni storia fa morire il passato restaurando l’integrità aurorale non soddisfa forse l’antico desiderio di tornare bambini “senza peccati e senza storia”? Per l’uomo premoderno la durezza, la ruvidità, la persistenza della roccia costituiva una ierofania: “Non vi è nulla di più immediato e di più autonomo nella pienezza della sua forza, e non vi è nulla di più nobile e di più terrificante della roccia maestosa, del blocco di granito audacemente eretto. Il sasso anzitutto è. Rimane sempre se stesso e perdura; cosa più importante di tutte, colpisce … La roccia gli rivela qualche cosa che trascende la precarietà della sua condizione umana: un modo di essere assoluto” (Eliade). La vegetazione ed in particolare gli alberi che ricoprono la terra sono carichi di forze sacre “perché sono verticali, crescono, perdono le foglie e le recuperano, e di conseguenza si rigenerano (muore e risuscita) innumerevoli volte”. Esprimendo la ciclicità morte/resurrezione – la legge fondamentale della Natura - l’albero è simbolo dell’Universo, il Cosmo di cui l’uomo vuole sentirsi parte integrante per partecipare alla continuità della sua vita. Una profonda unità con la Terra contenuta nelle parole di Smohalla, un capo Sioux, che alla fine dell’800 per giustificare il suo rifiuto di lavorare la terra diceva: “Mi chiedete di lavorare il terreno? Potrei forse prendere un coltello per conficcarlo nel seno di mia madre? Se lo facessi, quando sarò morto ella non mi accoglierebbe più nel suo seno. Volete che vanghi e scavi le pietre? Potrei forse scavare nelle sue carni fino alle sue ossa? Non potrei più, allora, rientrare nel suo corpo per rinascere a nuova vita. Volete che tagli l’erba e il fieno per venderlo, al fine di arricchirmi come fanno i bianchi? Ma potrei forse tagliare i capelli di mia madre?”. Questo breve viaggio nel modo in cui l’uomo premoderno percepiva la Natura ci ha dato l’opportunità di conoscere con maggiore chiarezza quella “dimensione in più” di cui è dotato il cosiddetto primitivo, dimensione che abbiamo definito trascendenza: “Si potrebbe chiamarla un’esistenza aperta, non essendo particolarmente limitata al modo d’essere dell’uomo … l’esistenza dell’homo religiosus, soprattutto del primitivo, è aperta al Mondo; l’uomo religioso, vivendo, non è mai solo, poiché una parte del Mondo vive in lui … L’apertura verso il Mondo mette in grado l’uomo religioso di conoscersi conoscendo il Mondo, conoscenza preziosa in quanto religiosa, in quanto riferita all’Essere” (Eliade). (sacro - 5  precedente  seguente)

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