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la fede filosofica del viandante

Post n°32 pubblicato il 16 Dicembre 2009 da m_de_pasquale
 

Anche se oggi non è molto frequente trovare “credenti” con certezze così salde da giocarsi la propria vita per esse, quelle volte che mi è capitato di dialogare con credenti “convinti”, devo confessare che sono stato sempre pervaso da un irritato stupore nell’osservare che alla fine, nonostante tutte le argomentazioni sollevate, l’interlocutore non nutrisse neppure una minima perplessità sulle sue convinzioni. La sua verità/convinzione non era assolutamente scalfibile. Ripensavo ad alcune affermazioni di Nietzsche: “Le convinzioni sono nemiche della verità, più pericolose delle menzogne … La convinzione è la fede di possedere, in un qualche punto della conoscenza, la verità assoluta … Non è la lotta delle opinioni che ha reso la storia così violenta, ma la lotta della fede nelle opinioni, cioè la lotta delle convinzioni”. Una convinzione è la solidificazione di una posizione – comunque parziale anche se sentita “totale” dal “fedele” – come possono esserlo le costruzioni metafisiche e teologiche, determinazioni concettuali che raccogliendo e precisando in sé ogni possibile senso non tollerano la polivocità di sensi, non consentono diverse interpretazioni. Una posizione univoca è per definizione universale (è questo il significato di cattolicità) perché, non essendoci altri significati a cui rinviare, in essa si esaurisce tutta la verità. Sostiene Jaspers che l’unicità, l’universalità e la cattolicità sono la stessa cosa: “Non solo la chiesa cattolica ha concepito questo pensiero dell’unica verità escludente, perché includente tutto il vero, quando ha fondato con un’altissima costruzione di pensiero il proprio punto di vista… Il pathos della verità unica, accompagnato dall’entusiasmo per l’universalità, per l’unità di tutti gli uomini e di tutta la storia in quell’unica verità, è propria anche della filosofia dell’idealismo tedesco”. La convinzione, quindi, ha a che fare con l’univocità perché definisce un solo significato non tollerandone altri: di qui la sua violenza e prepotenza che si manifesta nella fede di possedere una verità assoluta. Ecco i caratteri della fede religiosa. Se la verità coincide con l’imposizione di un significato escludendone altri (per nostra fortuna, oggi, non ci sono più roghi ed inquisizioni che castigano il rifiuto) l’annuncio del credente ha a che fare con la volontà di verità o piuttosto con la volontà di potenza? Chi ritiene di avere il possesso definitivo della verità non privilegerà il contenuto della sua fede piuttosto che la comunicazione autentica col suo interlocutore? La convinzione del credente, spacciata per verità universale, fondata su un’autorità “trascendente” non rischia di essere poco eloquente per il mondo “immanente”? Non viene, forse, accentuata la separazione col rischio di relegare la “verità” del credente nell’al di là metafisico, nella fantasia mistico-religiosa (trascendenza senza immanenza), o nella pura adesione al dato storico, nella identificazione con le manifestazioni mondane della fede quali strutture come chiese, stato, famiglia ecc. (immanenza senza trascendenza)? L’univocità – che secondo una consolidata convinzione è la condizione della universalità e quindi della verità – è la solidificazione, l’irrigidimento della tensione tra immanenza e trascendenza. L'uomo, invece, ha bisogno di questa tensione per esistere (ek-sistenza = continuo uscire da sé stessi, esperienza della possibilità, della libertà). L’irrigidimento della univocità rischia di relegarci in un al di là fantastico e storicamente non incidente, o in un al di qua oggettivo dove non ci sono “esistenze” ma vite regolate, omologate, conformate. “Tutti vogliono le stesse cose, tutti sono uguali: chi sente in maniera diversa se ne va spontaneamente in manicomio” (Nietzsche). La polivocità, invece, è sorella della trascendenza immanente, del mantenimento della tensione continua tra i due poli (quello della immanenza, della storicità della mia situazione; quello della trascendenza, della possibilità dell’esistenza, dell’uscir fuori) senza la risoluzione dell’uno nell’altro. La vita non è nell’irrigidimento di uno dei due poli, ma nella continua tensione tra i due. Ed una tensione richiede una fede che è sinonimo di rischio e non di certezza. La fede filosofica, a differenza della fede religiosa, sa custodire la polivocità, la tensione oltrepassante; “consapevole di non disporre di una verità universalmente valida [non essendoci univocità non c’è una verità universale] non scomunica, non dichiara eretici i dissenzienti, non accende roghi, non dispone di libri sacri privilegiati rispetto ad altri, perché contenenti la verità assoluta. La fede filosofica sa di essere per via e non scambia la via incerta con la meta definitiva. La fede è filo-sofica  perché ama (phìlei), si protende verso la sapienza (sophìa), ma non la possiede” (Galimberti). Si potrebbe concludere ricordando la suggestiva immagine nietzschiana del viandante [non del viaggiatore che comunque ha una meta sicura da raggiungere come ci ricorda ogni chiesa]: “Chi sia giunto anche solo relativamente alla libertà della ragione, sulla terra non può sentirsi altro che un viandante… egli ben vuol guardare, e tenere gli occhi aperti su tutto quel che veramente accade nel mondo; per questo non gli è consentito unire troppo strettamente il suo cuore a nessuna cosa particolare; dev’esserci in lui stesso qualcosa di nomade, che gioisca del mutamento e della provvisorietà”.

 
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