il vaglio 2

Post n°97 pubblicato il 07 Agosto 2005 da adrians3

La storia e la cultura della lomellina passa anche attraverso le testimonianze  orali ed i proverbi. La cultura popolare ha infatti la stessa dignita’  della cultura dotta . Inoltre la “piccola storia” quella che  non abbiamo mai studiato sui nostri libri di scuola , ovvero la storia delle classi subalterne e di periferia’,  puo’ essere altrettanto importante della “grande storia”.

Una cultura orale scompare nel momento in cui interpreti e testimoni non sono piu’ in grado di trasmettere il proprio messaggio, con il patrimonio di conoscenze necessario alla vita quotidiana, alle generazioni seguenti.

Cosi’ e’ successo e sta succedendo anche in Lomellina,  la lingua e le forme che questa cultura esprimevano tramandate in ambito familiare e all’interno delle comunita’ non sono piu’ in grado di esercitare la loro funzione da quando i diretti protagonisti della civilta’ della terra  e della fatica sono usciti silenziosamente di scena in questo secondo dopoguerra. Ma la memoria del loro lavoro, e della loro cultura, spirituale e materiale , il loro dialetto, i loro proverbi  rimangono ancora vivi  e ci offrono una traccia per  tornare a  mettere insieme , e a ritrovare la continuita’ che esiste tra passato e presente.

Ma cos’è la cultura popolare?

In genere con il termine “cultura” ci si riferisce alla cultura “dotta”, quella dei libri e delle persone che hanno studiato. In realtà esiste anche una cultura creata da gente comune: si tratta della cultura popolare.

Mentre la cultura dotta si serve e si è servita della scrittura e della lingua italiana, quella popolare è stata tramandata oralmente e ha utilizzato il dialetto.

Le creazioni della cultura popolare sono i canti, le fiabe, le filastrocche, i proverbi, i modi di dire.

I luoghi in cui veniva tramandata erano la famiglia, la stalla, i campi, le osterie.

Negli ultimi  quarant’anni questo patrimonio si è andato però perdendo a causa dei cambiamenti sociali ed economici avvenuti in Italia.

L’industrializzazione ha costretto milioni di persone ad abbandonare i lavori tradizionali,in campagna o nell’artigianato e i paesi d’origine per trasferirsi in altre regioni e nelle città,  per diventare operai. Questo sradicamento dalla propria terra e dalla propria cultura ha provocato grossi cambiamenti nel modo di vivere e di pensare delle persone

I giornali, la radio, la televisione, hanno contribuito alla diffusione della lingua italiana ma, allo stesso tempo, hanno proposto modelli di comportamento e di intrattenimento uguali per tutti, indipendentemente dall’origine culturale e dalla classe sociale di ciascuno. Per esempio molte persone, trascorrendo parte del tempo libero davanti alla televisione sono indotte a vedere nello stile di vita proposto valori positivi a cui uniformarsi, in contrasto con il vecchio modo di vivere dei loro padri e nonni, sentito come espressione di arretratezza e ignoranza.

Con la scolarizzazione di massa tutti i bambini hanno avuto la possibilità di acquisire un certo grado di istruzione. Questo è stato senz’altro positivo, tuttavia la scuola ha imposto a tutti un unico modello linguistico: l’italiano letterario, dimenticando i dialetti, anzi correggendo tutte le espressioni dialettali, e questo ha indotto la maggior parte dei  genitori a insegnare a parlare in italiano ai propri figli.

Molte espressioni della cultura popolare sono ormai presenti solo nella memoria degli anziani, ma ha senso recuperarle e salvarle dalla scomparsa, perché fanno parte del nostro patrimonio culturale.

 

 

 

 

Primo proverbio

 

Ogni ca°mpa°na°

Gh’à ‘na putana°

Ogni campanin

Gh’ à  ‘l sò casin

 

Ogni campana/ha la sua puttana/ogni campanile/ha il suo casino.  (In ogni paese ci sono amori mercenari)

In questo proverbio io trovo un amore smisurato per la propria terra e per le donne che  ne adornano i vicoli. Esattamente come quello che  ha messo nelle sue poesie rivestite di musiche Fabrizio de Andre’.

Fabrizio  ma cos’e’ per te Genova?

 

Genova e’ il mio primo oceano e il mio primo asfalto, la mia  prima voglia di saltare oltre l’orizzonte.

Per noi liguri in esilio Genova e’ il suo mare e il suo odore che arriva fino ai monti, quando la tramontana ripulisce l’aria.

O il lepego che ti si attacca addosso come una camicia umida quando l’aria si incolla allo scirocco.

Genova e’ il suo dialetto arabo, la grazia agre delle bagasce che adornano i vicoli. L’amore sacro e l’amore profano.

E’ le sue canzoni , di emigranti, che rimpiangono e se possono ritornano, lungo le strade profonde che il vento scava tra le onde e che le onde cancellano subito.

Genova e’ anche la voglia di esserci e di scapparne, noi tutti l’amiamo controvoglia o controvento sin dalle prime volte. Il primo wisky, la prima amante, la prima moglie, il primo figlio.

E’ i primi amici morti, Luigi, Mauro, il professor Giuseppe, Mannerini il poeta cieco che si uccise e che aveva scritto…

 

 

Ma Genova e’ anche gli amici vivi che da lontano ti vedono crescere e invecchiare, per esempio i pesccuei che, proprio come ne “ il pescatore “ , hanno la faccia solcata da rughe che sembrano sorrisi e , qualsiasi cosa tu gli confidi, l’hanno gia saputa  dal mare.

 

Ma per quanto mi riguarda Genova e’ anche la mia scoperta della musica, il primo maestro di violino, che dovetti corrompere perche’ suonasse con lui, facendo credere a mia madre che a suonare fossi io o il colombiano che mi insegno’ a suonare la chitarra risparmiandomi solfeggi e scale e tutti i pallosi preliminari, perche’ sapessi di primo acchito se “ dove finiscono le mie dita/debba in qualche modo incominciare una chitarra.

E Lee Masters che gia a scuola preferivo pericolosamente a Carducci, a Brassens  e Brel cui devo molto quando ho cominciato a fare questo mestiere .

 

Infine Genova e’ anche il profumo del basilico e il sapore della sua cucina .

Come quelli del pesto , che facciamo a Milano o in Gallura, io e Dori, mettendoci dentro tante noci perche’ non sappia di menta: come capita quando il pesto lo fai lontano da Genova . Perche’ solo il basilico di Genova ‘ non ne sa’.

 

Che altro ? A me pare che Genova abbia la faccia di tutti i poveri diavoli che ho conosciuto nei suoi carruggi, le graziose di Via del Campo e i balordi che potrebbero anche dar via la loro madre per mangiare. I fiori che sboccaino dal letame : I senzadio per i quali chissa che Dio non abbia un piccolo ghetto , ben protetto, nel suo paradiso sempre pronto ad accoglierli….

 

 

Secondo proverbio

 

La dòna°  prudénta°

Primma°  la fa ‘l léc

E po’ la sàlta°  dénta°.

 

La donna prudente/prima fa il letto e poi ci salta dentro (La donna accorta si fa sposare prima di fare all’amore).

 

 

Quanta strada e’ passata sulla strada dell’ emancipazione  dalla donna di questo proverbio a quella  che  racconta Pinkola Estes in “ Donne che ballano con i lupi”!

 

“…Oggi una donna puo’ desiderare follemente di essere vicino all’acqua, o a pancia in giu’, con la faccia nella terra, a odorare quel profumo selvaggio. Puo’ avere voglia di correre nel vento, o di piantare qualcosa, di togliere qualcosa dalla terra  o mettere qualcosa nella terra. Puo’ avere voglia di impastare  e mettere in forno, immersa nella farina fino ai gomiti.

Puo’a vere voglia di salire sulla montagna saltando di roccia in roccia, e facendo risuonare la sua voce. Puo’ avere bisogno di ore di notti stellate, quando le stelle sono come cipria sparsa su un pavimento di marmo nero. Puo’ sentire che morira’ se non riuscira’ a ballare nuda nella tempesta , sedere in perfetto silenzio, tornare a casa  sporca di inchiostro, di pittura, di lacrime, di luna…. “

 

Terzo proverbio:

 

La Madòna°  Ca°ndilòra°

Dl’invèra°n  sùumma°  fòra°

Fàia°  bèl témp fàia°  brut tèmp

Pa°r  qua°ranta°  di’ sùmma °    a°ncura°  dént

 

Alla Madonna Candelora/dall’inverno siamo fuori/ faccia bel tempo faccia brutto tempo/ per quaranta giorni siamo ancora dentro

 

E questo proverbio ci porta dritti all’inverno  che come ci accorgeremo sempre piu’ ogni mattina fra qualche settimana , quando ci alzeremo per andare al lavoro, ci avvolgera’ e spesso diventera’ anche un gelo interiore che  ci porta a riflettere sul vuoto, sull'abbandono. In quei giorni è come se ognuno avesse voglia  di ritirarsi in letargo, con la conseguenza che molti rapporti umani si raffreddano, alcuni si interrompono, la comunicazione diventa più difficile, più cerebrale e meno di "cuore". Ci ritiriamo nel nostro bozzolo, in inverno. Poi, a primavera, come per incanto, usciamo dalla tana e apriamo di nuovo il cuore al mondo. E dunque questo vuoto, questo abbandono, questa lontananza non ci devono spaventare, è un ciclo inevitabile. Verrà la primavera,  con le sue prime giornate tiepide di sole, a far nascere di nuovo in ognuno di noi la voglia di stare con gli altri, la voglia di amare.
Intanto pero’ dobbiamo dirlo, in inverno ,  non tutto e’ cosi ‘ negativo , anzi’ , possiamo  goderci la parte  piu’ bella dell'inverno , la parte riflessiva,  quella che ti permette di  guardarti  dentro,il silenzio che  ci avvolge dentro e fuori di noi,  i paesaggi innevati  e nebbiosi , il piacere di camminare con il freddo , imbozzolati nei nostri vestiti da marziani, e poi  in contrapposizione il caldo dei camini, dei piumoni. Insomma l’inverno e’  bello perche’ , è la stagione del sè, dell’introspezione, dei bilanci e non a caso e’  la stagione più amata dagli spiriti solitari.
E allora proprio perche’ l’inverno e’ il tempo della riflessione, mi piace nell’attesa  , immergermi in una calda riflessione sulla nostra economia quella che deve crescere sempre,  a tutti i costi , se no sono  guai. Una materia fredda come l’inverno ma che diventa calda se si parla non piu’ di crescita ma di decrescita.

La decrescita e’ una strana primavera, decrescita in poche parole significa produrre e consumare di meno e quindi essere meno distruttivi verso l’ecosistema. Ma questo e’ difficile da fare soprattutto sembra assurdo nel nostro modo di vivere in cui tutto e’ orientato alla crescita, e pero’ se invece di togliere cose,  “minor consumo  , minor produzione “…    noi mettiamo il segno piu’  e cioe’ lavoriamo e studiamo per una societa’ che produce  e consuma “ piu’ ricchezza  di raporti umani o come la racconta l’economista premio Nobel  Hanna Arendt   piu’ felicita’ con cui nutrirci” , be’ allora la parola decrescita potrebbe anche essere presa in considerazione.

C’e’ un bellissimo libro uscito da pochi mesi e scritto dall’amico Marco Bonaiuti  che parla proprio   di “ obiettivo decrescita” e che avidamente abbiamo letto.

. Un libro che a molti  ha fatto l’effetto bellissimo di avere a disposizione  un piumone in piu’  con cui coprirsi ,oppure  la possibilita’ di accendere  un bel fuoco nel camino di casa nella piu’ gelida delle notti del passato e del futuro inverno.

Per rendere  piu’ facile la comprensione di cosa significa decrescita e del perche’ l’ho voluta raccontare e l’ho trovata in sintonia profonda  con la saggezza dei proverbi antichi  volevo chiudere con una parabola.

 Scritta da un economista  decisamente simpatico: Wolfang Saks  che lavora al Wuppertal Institute , ong tedesca  che molti mortaresi hanno conosciuto perche’ citata in una splendida conferenza di tanti anni fa tenuta da Albino Bizzotto   presso l’Auditorium dei Frati Francescani.

 

 

" Egli narra di un turista che incontra su una spiaggia un uomo in vestiti semplici, sdraiato nella sua barca da pesca e sonnecchiante al sole. Tira fuori una macchina fotografica e, mentre gli fa una fotografia, l'uomo si sveglia. Il turista gli offre una sigaretta e si lancia in una conversazione dicendo:
"Ah, il tempo è bellissimo e c'è molto pesce da pescare. Perché lei non esce e cerca di catturare più pesce?" Il pescatore risponde: "Perché ho già pescato abbastanza questa mattina". "Però," dice il turista, "se vai fuori 4 volte al giorno puoi portare a casa pesce per tre, quattro volte di più. E sai cosa succederà? Forse tra due o tre anni potrai comprarti una barca a motore, un gran numero di lance, e forse, chi lo sa, un giorno avrai uno stabilimento di surgelamento o per l'affumicamento e poi un elicottero per rintracciare i banchi di pesce". "E allora?" chiede il pescatore. "E allora poi", conclude il turista trionfante, "potrai sedere tranquillamente sulla spiaggia sonnecchiando al sole e contemplando il bellissimo oceano". E il
pescatore gli risponde: "È proprio quello che stavo facendo prima che arrivasse lei".

 

E del resto il proverbio

 

Chi’ l va a°n piàsa°

 Va°d  la crus

a°l tùrna cun la su°a

 ( chi va in piazza a vedere la croce, torna con la sua. ) Ovvero c’e ‘ sempre chi sta peggio di noi e questo  non e’ soprattutto oggi anche un invito a far nascere un   nuovo ordine mondiale con meno guerre,  meno sventure e piu’ diritti per tutti?  Magari iniziando a riscrivere le regole di una economia diversa che parli  un linguaggio  piu’ solidale.

 

 

E questo anche  in riferimento ai lavoratori della Marzotto espulsi dalla loro Fabbrica  per ragioni  incomprensibili e per i quali vale  sicuramente l’ultimo proverbio che  vorrei raccontare.

 

Pa°r  a°l   padròn

A°nco  t è  d’or

 Duma°n     t’è   ‘n’  marlòn.

Per il padrone /oggi sei d’oro, domani sei un escremento.

 

 

I proverbi sono stati raccolti  negli anni precedenti il 1991 dagli  informatori di Cozzo:

Liberina Mazzucco, nata a Langosco  nel 1929, bracciante agricola e poi magliaia.

Mario Mazzucco nato a Candia nel 1905, salariato e poi bracciante agricolo.

Ida Vandone , nata a Cozzo da una famiglia di perdape’ nel 1921, trasferitasi a Valle nel 1947 dove ha svolto l’attivita’ di commerciante da Marco Savini e Antonietta Arrigoni di Vigevano e pubblicati sul libro  “Nel paese di Ogh e Magog”- Guardamagna Editore.

 

 

 

 

 
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si chiama mir

Post n°96 pubblicato il 07 Agosto 2005 da adrians3

 

 

Tempo di vacanze…alternative

 

 

Si chiama Mir significa Movimento non violento ed e’ una associazione internazionale  che si batte per ritrovare quei valori della cultura  e dell’ambiente naturale che considera un patrimonio  prezioso per il presente e per il futuro e la cui distruzione  e contaminazione sono una delle tante forme di violenza dell’uomo contro l’uomo.

Il Mir e’conosciuto anche per i campi nonviolenti che organizza in Italia, rivolti a tutti perche’ come dicono gli organizzatori “ la nonviolenza e’ la tenerezza della storia”.

Per cui rilanciamo. Vi stanno strette le vacanze nel solito villaggio vacanze, non ne potete piu’ della monotonia della “stessa stanza- stesso mare”. Bene .

Volete lasciare i ritmi alienanti della citta’ per recuperare il respiro avvolgente del bosco tagliare la legna  a mano, lavare i panni nell’acqua della sorgente?

Volete sperimentare  una vita piu’ lenta e profonda conoscere e cambiare il vostro stile di vita?

Volete, con un prete operaio ed un filosofo  andare alla ricerca delle tracce dell’esperienza umana di Gesu’ per comprenderne il messaggio nonviolento?

Volete confrontarvi sul senso del viaggio, dello spostamento, dell’incontro con le altre culture , di come fare per viaggiare nella vostra vita in una societa’ piu’ leggera e  in punta di piedi?

Volete cercare miti alternativi capaci di affascinarvi, rispetto a quello  che sta alla base della nostra”civiltà” occidentale che e’sempre e solamente  il mito della guerra?

Volete confrontarvi su  cio’ che significa oggi la parola resistenza , su come si possono affermare i propri sogni e i propri ideali usando gli strumenti del dialogo, della convivialita’, della festa?

C’e’un campo specifico per ogni vostro desiderio. Personalmente partecipero’ ad uno di questi che ha come titolo  una frase , incredibilmente affascinante,  di Thomas Merton “Il monastero e’ una scuola, una scuola dove apprendiamo  ad essere felici”.

E’ un campo che si svolge in una casa autogestita  in un convento  di monaci  benedettini in provincia di Cuneo . Propone “ la partecipazione alla liturgia delle ore , il lavoro manuale, gli incontri di approfondimento  sulla nonviolenza dal punto di vista del cristianesimo e della cultura del chiostro”. Tutto questo   per  vivere un’esperienza comunitaria ed individuale  nello stesso tempo di  preghiera, di silenzio, di lavoro, di studio, di accoglienza , di riflessione su cio’ che piu’  e’ importante nella vita di ognuno di noi.

I campi durano una settimana,costano veramente poco, l’alimentazione e’ vegetariana come scelta di compassione, giustizia e salute , non ci sono esperti o capi che li dirigono o che vi partecipano ma solo persone che si mettono sulla strada della ricerca interiore.

Chi vuole provarci,  puo’ chiederci tutte le informazioni in merito. E buona partenza…

 

 

 
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il vaglio

Post n°95 pubblicato il 07 Agosto 2005 da adrians3


Pace per tutte le terre e tutte le acque.     

 Cosi’ canta Neruda.  Gia terra e acqua, ingredienti sui quali  e’ nata la nostra civilta’ contadina, le nostre radici. La terra dei dossi  rimodellati dalla storia e dal lavoro umano ormai ridotta a poche zone  di pura testimonianza; l’acqua , i suoi reticoli , l’impianto che ne regola i flussi sognato e messo giu’  da quel genio di Leonardo.

Pace per tutte le terre e per tutte le acque ..

e….. per le  aurore che verranno/ pace per il ponte,/ pace per il vino/ pace per le parole che mi frugano più dentro/ e che dal mio sangue risalgono /legando terra e amori /con l'antico canto,

e ancora e ancora ….. pace per le città all'alba/ quando si sveglia il pane,/ pace al fiume Mississippi, fiume delle radici/ e pace per la veste del fratello/ pace al libro come sigillo d'aria, /pace per il gran kolchoz di Kiev.


 Terra come quella che mi ha  raccontato un volta un caro amico, Moreno Locatelli, un pacifista bresciano,  ucciso sul  ponte Vrbanja a Sarajevo da un cecchino  mentre alzava al cielo un grande pane , simbolico gesto di pace in quella barbarie che fu la guerra iugoslava  svoltasi a pochi chilometri da casa nostra. In quello strano ottobre del 1993.

Una Terra che lui,  piu’ o meno , raccontava cosi’  Non molto tempo fa un amica la quale sapeva quanto io amasi viaggiare , mi ha chiesto se potevo portarle una manciata di terra dei luoghi  dove sarei passato.
E’ cosi ho scoperto la terra o meglio le terre, poiche’ ogni paese ha piu’ terre, diverse tra loro per consistenza, colore e per la stessa origine.
Mi sono sporcato le mani con la terra dei campi , con l’argilla delle grotte, con l’humus  delle foreste e la ghiaia dei viali nei giardini delle piu’ belle citta’ d’Europa.
Ho imparato a guardare dove metto i piedi , ad andare al di la dell’asfalto, a cercare la terra.
Arrivato qui a Sarajevo  non ho fatto fatica a trovarle la terra, E cosi’ ho raccolto tre terre  ed ogni volta con piu’ dolore e con piu’ rabbia.
La prima terra raccolta e’ stata quella della ragnatela di canali che la gente scava , con  i mezzi piu’ rudimentali, per potersi allacciare agli impianti del gas ed avere in casa una possibilita’ in piu’ di riscaldamento per affrontare l’inverno.
La seconda terra e’ quella delle radici. Non c’e’ piu’ legna a Sarajevo e la gente , dopo avere tagliato gli alberi, ora rivolta la terra e apre enormi buche intorno alle radici degli alberi , nei parchi e lungo i viali e cosi’ strappa alla terra  anche la speranza dei germogli.
La terza terra e’ la terra dell’orrore, una terra intrisa di lacrime , la terra delle tombe, preparate in anticipo perche’ non c’e’ tempo, ma soprattutto preparate in anticipo perche’ si sa che serviranno.
Io passo, mi chino , raccolgo una manciata di terra e penso alla violenza, alla tortura che e’ quella fossa gia pronta  per dei cuori costretti ad accettare l’assurdo d’un gesto che anticipa la morte…


Ma si, pace per tutte le terre e per tutte le acque: ritorna la suggestione.

 

.. pace al portalettere/che entra di casa in casa come il giorno/ pace per il regista che grida nel megafono rivolto ai convolvoli/ pace per il boliviano segreto come pietra nel fondo d'uno stagno, / pace per tutte le segherie del Bío-Bío,/ pace per il piccolo Museo di Wyoming, dove la più dolce cosa è un cuscino con un cuore ricamato….

Gia l’acqua. L’oro blu, quella che non  consideriamo piu’ di tanto. Perche’ ci sembra inesauribile nelle nostre case. Un gesto meccanico e l’acqua e’ li, dolce, pulita, rassicurante.

 

Quando per caso siamo capitati a Firenze due anni fa abbiamo trovato una citta’ assediata da 550 delegati provenienti da 60 paesi del mondo che parlavano di acqua, e sempre solo di acqua che  si stava esaurendo, di acqua che non era piu’ disponibile, di acqua che era diminuita  negli ultimi 50 anni di 3/4 in Africa e di 2/3 in Asia. E del fatto che  le prossime guerre, e questo ce lo ricordava Danielle la figlia del vecchio presidente francese Mitterand,  si sarebbe combattute proprio  per l’oro blu’. Insomma acqua che diventa merce, sempre piu’ rara, sempre meno considerata  diritto universale, bene comune. Del resto la storia non racconta mai cose nuove. Prendi uno dei piu’ simpatici corsi d’acqua mortaresi: il Cavoplezza. Lo vedi  placido  camminare  senza insicurezze  attraverso il vetro  di una finestra che si apre  da un muro colorato , lo vedi incedere gonfio delle sue certezze, quelle che io non  avro’ mai , e parlare agli alberi , ai rovi , ai fiori dell’ortica.. Chi lo direbbe che  da trecento anni viene conteso,litigato, comprato ,rivenduto  da nobili, da commercianti, da  abili negoziatori,  passando attraverso studi notarili, sentenze  parlamentari, uffici austeri di podesta’?.

…pace per il fornaio e i suoi amori,/ pace per la farina,/pace per tutto il grano
che deve nascere,/ pace per ogni amore che cerca schermi di foglie,/
pace per tutti i vivi,/ pace per tutte le terre e per le acque….

Mi sveglio dal sogno. A furia di percorrere le strade del sogno  si finisce  per crederci  e si ha voglia di abbandonare la strada larga e rassicurante di sempre. Quella che ci fa diventare tutti , cosi amava ricordare don Tonino,  notai dello status quo dell’esistente, nel momento in cui ci stanchiamo o non osiamo inseguire i cieli nuovi e le terre nuove.

Corro alla finestra , non ci sono buche nel mio giardino, salvo quelle che un cane  irrequieto e dispettoso si ostina a  scavare per organizzare il proprio supermarket invernale..E anche la mia radio quando parla della sabbia che salta laggiu’ in terra irakena cambia tono, diventa velata, soffusa, impercettibile.  Corro in cucino apro tutti i rubinetti , un vortice di acqua mi accoglie , mi saluta, mi rassicura; nel mio  frigo sorridono le bottiglie di minerale che Lachelli mi ha appena  lasciato davanti all’uscio di casa.

Non c’e nulla di cui preoccuparsi , nulla da risolvere, lo diceva infine anche l’amico poeta.

…Io qui non vengo a risolvere nulla./ Sono venuto solo per cantare e per farti cantare con me.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
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Post N° 94

Post n°94 pubblicato il 07 Aprile 2005 da adrians3

L’idea era in cantiere da diversi anni,  ma si e’ concretizzata solo di recente. Un grande contenitore di idee per fare cultura a Mortara. Di seguito il manifesto e la storia da cui il circolo prende nome.

 

 

 

 

Manifesto di costituzione dell’”Associazione Culturale  Il villaggio di Estaban”

 

 

Abitiamo in Lomellina, una terra che vediamo diventare sempre piu’ periferia della metropoli lombarda, per quanto riguarda  l’inquinamento , le ceneri, le industrie nocive, le infrastrutture  pesanti che sconvolgono il paesaggio, l’agricoltura industrializzata.

Le nostre citta’ soprattutto attorno a Mortara sono ormai diventate  quartieri per dormire,  giovani e non , studenti e lavoratori  le abbandonano in gran numero  la mattina presto  , per farvi ritorno la sera :  troppo stanche  per vivere la citta’,  per provare a raccontare o a raccontarsi, spesso prede delle maglie accattivanti ma  inquietanti della televisione.

Anche il clima non aiuta la socialita’ e da sempre il lomellino  viene considerato  un tipo chiuso e asociale.

Nel regno delle merci e del consumo nascono e crescono  unicamente ipermercati mentre i progetti culturali  sono limitati  e poco strutturati.

Non e’ facile  dunque fare cultura in questa realtà ma ci vogliamo provare.

Per cultura  intendiamo la voglia di capire   quello che succede intorno a noi, incontrare e rappresentare altre realta’, superare lo status quo  dell’esistente,  promuovere quelle idee e quei bisogni che la cultura ufficializzata non considera. E infine trovare altre strade rispetto ad una civilta’ che ha troppo insistito sull’efficienza, sull’importanza di produrre, svalutando nella vita delle persone il tempo qualitativo, il tempo delle imprese e delle avventure non monetizzabili, il tempo dell’amore, del fare collettivo, il tempo della riflessione.

 

Vogliamo lavorare per questa citta’, per questo territorio  perche’ crediamo  ad una nuova stagione  che valorizzi e riconosca il ruolo della promozione culturale di base.

Perche per noi  la cultura e’ un valore collettivo. Non un bisogno voluttuario, soggettivo, ma una rete di relazioni che promuove comunita’

Perche coltiviamo il desiderio di una citta’ intesa come luogo delle relazioni e del vivere civile, una citta’ solidale, una citta’ multiculturale, una citta’ aperta.

 

E poiche’ prevediamo per il nostro futuro un collegamento con l’Arci nazionale  definiamo questo circolo come un  centro di vita associativa, autonomo, pluralista,  a carattere volontario, democratico e progressista.

Il cui scopo  sara’ quello di promuovere anche insieme ad altre associazioni,   attivita’ culturali, formative, informative, ricreative e turistiche contribuendo in tal modo alla crescita culturale e civile della citta’.

Potremo anche  dire che in tutti i campi in cui si manifesteranno  esperienze culturali, ricreative e formative e tutti quelli in cui si potra’ dispiegare un’azione civile contro ogni forma di ingiustizia, di violenza, di discriminazione,  di esclusione… noi ci saremo.

 

 

Il villaggio di Esteban,  da cui prende  nome il nostro Circolo ,deriva  da un racconto tratto dal libro “ La incredibile e triste storia della candida Erendina e della sua nonna snaturata”, di Gabriel Garcia Marquez.

 

 

I primi bambini che videro il promontorio oscuro e circospetto che si avvicinava dal mare si fecero illusione che era una nave nemica. Poi videro che non portava né bandiere né alberatura, e pensarono che fosse una balena. Ma quando si incagliò sulla spiaggia gli tolsero i cespi di sargassi, i filamenti di meduse e i resti di banchi e di naufragi che si portava addosso, e soltanto allora scoprirono che era un annegato. Avevano giocato con lui tutto il pomeriggio, seppellendolo e disseppellendolo nella sabbia, quando qualcuno li vide per caso e gridò allarme nel villaggio. Gli uomini che lo trasportarono fino alla casa più vicina notarono che pesava più di tutti i morti conosciuti, tanto quasi un cavallo, e di dissero che forse era stato troppo tempo alla deriva e l’acqua gli si era cacciata dentro le ossa. Quando lo stesero per terra videro che era stato molto più grande di tutti gli uomini, perché ci stava malapena nella casa, ma pensarono che magari la facoltà di continuare a crescere dopo la morte era nella natura di certi annegati. Aveva l’odore del mare, e soltanto la forma permetteva di supporre che era il cadavere di un essere umano, perché la sua pelle era rivestita di una corazza di remora e di fango. Non dovettero pulirgli la faccia per sapere che era un morto estraneo. Il villaggio aveva appena una ventina di case di tavole, con cortili di sassi senza fiori, sbandate sull’estremità di una punta desertica. La terra era così scarsa, che le madri vivevano nella paura che il vento si portasse via i bambini, e i pochi morti che gli anni gli andavano cagionando dovevano gettarli giù dalle scogliere. Ma il mare era placido e prodigo e tutti gli uomini ci stavano in sette barche. Sicché, quando trovarono l’annegato, bastò che si guardassero l’un l’altro per rendersi conto che c’erano tutti. Quella notte non uscirono a lavorare in mare. Mentre gli uomini si accertavano se non mancava nessuno nei villaggi vicini, le donne rimasero a curare l’annegato. Gli tolsero il fango con stoppacci di sparto, gli districarono dai capelli i cardi sottomarini e gli raschiarono la remora con ferri da squamare i pesci. A mano a mano che lo facevano, notarono che la sua vegetazione era di oceani remoti e di acque profonde, e che il suo vestito era a brandelli come se avesse navigato attraverso labirinti di coralli. Notarono anche che sopportava la morte con alterezza, perché non aveva il sembiante solitario degli altri annegati del mare e nemmeno la cera sordida e da bisognoso degli annegati fluviali. Ma soltanto quando finirono di pulirlo ebbero coscienza della classe d’uomo che era, e allora rimasero senza fiato. Non solo era il più alto, il più forte, il più virile, il più armato che esse avessero mai visto, ma anche mentre lo stavano vedendo eccedeva la loro immaginazione. Non trovarono nel villaggio un letto abbastanza grande per allungarlo, né una tavola abbastanza solida per vegliarlo. Non gli andavano né i calzoni da festa degli uomini più alti, né le camicie domenicali dei più corpulenti, né le scarpe del più piantato. Affascinate dalle sue sproporzioni e dalla sua bellezza, le donne decisero allora di fargli un paio di calzoni con il bel pezzo  di vela  brigantina, e una camicia di tela Olanda da sposa, perché potesse continuare la sua morte con dignità. Mentre cucivano sedute in cerchio contemplando il cadavere tra punto e punto, sembrava loro che il vento non era stato mai tanto tenace ne’ i Carabi tanto ansiosi come quella notte, e supponevano che quei cambiamenti avevano qualcosa a che vedere con il morto. Pensavano che se quell’uomo magnifico fosse vissuto nel villaggio, la sua casa avrebbe avuto le porte più ampie, il soffitto più alto e il pavimento più saldo, e il telaio del suo letto sarebbe stato fatto di costa maestra con perni di ferro, e la sua donna sarebbe stata la più felice.. Pensavano che avrebbe avuto tanta autorità che per cavare i pesci dal mare gli sarebbe bastato chiamarli con i loro nomi, e avrebbe messo tanto impegno nel suo lavoro da far sgorgare sorgenti tra le pietre più aride e da poter piantare fiori sulle scogliere.

Lo paragonarono in segreto ai loro uomini, pensando che non sarebbero stati capaci di fare in tutta una vita ciò che quell’uomo era capace di fare in una notte, e finirono per ripudiarli nel fondo dei loro cuori come gli esseri più squallidi e meschini della terra. Andavano smarrendosi lungo quei dedali di fantasia, quando la più vecchia delle donne, che essendo la più vecchia aveva contemplato l’annegato con meno passione che compassione, sospirò: - ha la faccia di chiamarsi Esteban.

Era vero. Alla maggior parte di loro bastò guardarlo di  nuovo per capire che non poteva avere altro nome. Le più cocciute, che erano le più giovani, si mantennero nell’illusione che una volta vestito disteso tra fiori e con un paio di scarpe di vernice si potesse chiamare Lautaro. Ma fu un’illusione vana. La tela risultò scarsa, i calzoni mal cuciti e peggio tagliati gli andarono stretti, e le forze occulte del suo cuore facevano saltare i bottoni della camicia. Dopo mezzanotte si assottigliarono i sibili del vento e il mare cadde nel sopore del mercoledì.

Il silenzio mise fine agli ultimi dubbi: era Esteban. Le donne che lo avevano vestito, quelle che lo avevano è pettinato, quelle che gli avevano tagliato le unghie e raspato la barba non potevano reprimere un brivido di compassione, quando dovettero rassegnarsi a lasciarlo lungo e disteso per le terre. Fu allora che compresero quanto aveva dovuto essere infelice con quel corpo madornale se perfino dopo morto ne era impacciato. Lo videro condannato a vita a passare di traverso per le porte, a rompersi la testa  contro gli architravi, e restarsene in piedi durante le visite senza sapere cosa farsene delle mani tenere e rosee da bue di mare, intanto che la padrona di casa cercava la sedia più resistente e lo supplicava morta di paura – Si sieda qui, Esteban, per favore-, e lui appoggiato alle pareti, sorridendo,- Non si preoccupi  signora, sto bene così- coi talloni ridotti carne viva e la schiena arroventata a furia di ripetere la stessa cosa in tutte le visite.  

-Non si preoccupi signora, così sto bene- solo per non correre la vergogna di schiantare la sedia, e magari senza avere mai saputo che quelli che gli dicevano non andartene Esteban, aspetta almeno finché bolle il caffè, erano gli stessi che poi sussurravano finalmente se ne e’ andato lo stupido grande, che bellezza se ne e’ andato lo scemo bello.

A questo pensavano le donne davanti al cadavere un po’ prima dell’alba. Più tardi, quando gli coprirono la faccia con un fazzoletto perché non gli desse fastidio la luce, lo videro così morto per sempre, così indifeso, così simile ai loro uomini che sentirono aprirsi le prime crepe di lacrime nel cuore.

Fu una delle più giovani a cominciare a singhiozzare. Le altre,  incorandosi l’un l’altra passarono dai sospiri ai lamenti e tanto singhiozzavano tanta più voglia sentivano di piangere perché l’annegato gli continuava a diventare sempre più Esteban,  finché lo piansero tanto che fu l’uomo più derelitto della terra, il più docile e il più servizievole. Il povero Esteban. Cosicché , quando gli uomini tornarono con la notizia che l’annegato non era nemmeno dei villaggi vicini, esse sentirono un vuoto di giubilo tra le lacrime. “ Dio sia benedetto” sospirarono: “ E’ nostro”. Gli uomini cedettero che quelle smancerie non fossero altro che frivolezze di donne. Stanchi delle tortuose indagini della notte, avevano solo voglia di togliersi di mezzo una volta per sempre l’impaccio dell’intruso prima che si accendesse il sole aspro di quel giorno arido e senza vento.

Improvvisarono una barella con avanzi di trinchetti e di bome, e li legarono insieme con scasse d’altura, perché potessero resistere al peso del corpo fino alle scogliere.

Vollero incatenargli alle caviglie un’ancora da nave mercantile in modo che se ne andasse a picco senza inciampi nei mari più profondi dove i pesci sono cechi e gli scafi muoiono di nostalgia cosicché le correnti cattive non lo riportassero per caso a riva come era successo con altri corpi.

Ma più si affrettavano e più cose venivano in mente alle donne per perdere tempo.. Giravano come galline spaventate becchettando amuleti del mare nelle  arche, certe intralciando qui perché volevano mettere all’annegato gli scapolari del buon vento, altre là per allacciargli un braccialetto d’orientamento, e dopo tanto togliti di li donna, mettiti dove non disturbi, guarda che mi fai quasi cadere sul defunto, agli uomini salirono al fegato i sospetti e cominciarono a borbottare a che pro tanta ferraglia da altare maggiore per un forestiero, se per quante tolle e tollini si portasse addosso se lo sarebbero mangiato i pescecani, ma le donne continuavano a branciare le loro reliquie di paccottiglia, recando e riportando, inciampando, mentre se ne andava in sospiri quello che non se ne andava in lacrime, di modo che gli uomini finirono per sacrare che da quando in qua un trambusto simile per un morto alla deriva, per un annegato di nessuno, per uno sfasciume di merda.

Una delle donne , mortificata da tanta insolenza, tolse allora il fazzoletto dalla faccia del cadavere e anche gli uomini rimasero senza fiato. Era Esteban. Non ci fu bisogno di ripeterlo per farglielo riconoscere. Se gli avessero detto Sir Walter Raleigh, perfino loro si sarebbero impressionati per il suo accento da gringo, per il suo cacatoa sulla spalla, per il suo archibugio da ammazzare cannibali, ma Esteban poteva essere soltanto uno al mondo, ed eccolo lì bello e tirato come un agone.

Senza stivaletti, con certi calzoni da settimino e con quelle unghie marnose che potevano essere tagliate solo a coltello. Bastò. Che gli togliessero il fazzoletto dalla faccia per rendersi conto che si stava vergognando, che non aveva colpa di essere così grande, così pesante, così bello, e se avesse saputo che sarebbe successo tutto quel trambusto avrebbe cercato un luogo più discreto per annegarsi, sul serio, mi sarei legato io stesso un’ancora da galeone al collo e avrei incespicato come a non farlo apposta sulle scogliere, per non andare in giro a dar fastidio con questo morto di merenda, come loro dicono, per non dare fastidio a nessuno con questa porcheria di sfasciume che non ha niente a che vedere con me. C’era così tanta verità nel suo modo di essere, che perfino gli uomini più sospettosi, quelli che sentivano amare le minuziose notti del mare tremendo che le mogli si stancassero di sognare loro per sognare annegati, perfino quelli, e altri più duri, rabbrividirono fin nelle midolla per la sincerità di Esteban. Fu così che gli fecero i funerali più splendidi che potevano essere concepiti per un annegato esposto. Alcune donne che erano andate a cercare fiori nei villaggi vicini tornarono con altre che non credevano a quello che le contavano, e queste andarono a cercare altri fiori quando videro il morto, e ne portarono altri ed altri, finché ci furono così tanti fiori e così tanta gente che a mala pena si poteva camminare.. All’ultimo momento spiacque a tutti restituirlo orfano alle acque e gli scelsero un padre e una madre tra i migliori, e gli altri gli si fecero fratelli, zii e cugini, cosicché tramite lui tutti gli abitanti del villaggio finirono per essere parenti tra loro. Certi marinai che udirono il pianto a distanza persero la certezza della rotta, e si seppe di uno che si fece legare all’albero maestro, rammentando antiche favole di sirene. Mentre si disputavano il privilegio di trasportarlo a spalla lungo la ripida scarpata delle scogliere, uomini e donne ebbero coscienza per la prima volta della desolazione delle loro viuzze, dell’aridità dei loro cortili, della ristrettezza dei loro sogni, di fronte allo splendore e alla bellezza del loro annegato. Lo lasciarono andare senz’ancora, perché potesse tornare se voleva, e quando lo volesse, e tutti trattennero il fiato per la frazione di secondo che durò la caduta del corpo fin nell’abisso. Non ebbero bisogno di guardarsi l’un l’altro per rendersi conto che ormai non erano completi e non lo sarebbero stati mai più. Ma sapevano anche che tutto sarebbe stato differente da quel momento, che le loro case avrebbero avuto le porte più ampie, i soffitti più ampi e i pavimenti più saldi, in modo che il ricordo di Esteban potesse andare da ogni parte senza intoppare con gli architravi, e che nessuno osasse sussurrare in futuro finalmente è morto lo stupido grande, che peccato, è morto lo scemo bello, perché loro avrebbero pitturato le facciate di colori allegri per eternare il ricordo di Esteban, e si sarebbero rotti la schiena scavando sorgenti nelle pietre e seminando fiori sulle scogliere, in modo che nelle albe degli anni venturi i passeggeri delle grandi navi si svegliassero soffocati da un odore di giardini in alto mare, e il capitano dovesse scendere dal suo cassero con la sua uniforme di gala, col suo astrolabio, la sua stella polare e la sua filza di medaglie di guerra, e indicando il promontorio di rose sull’orizzonte dei Caraibi dicesse in quattordici idiomi, guardate là, dove il vento è ora così docile che rimane a dormire sotto i letti, là dove il sole brilla tanto che non sanno verso dove girare i girasoli; sì, là, è il villaggio di Esteban. 

 

 

 

Il villaggio del racconto come Mortara prima dell’arrivo di Estaban?. Il nostro circolo produrra’ gli stessi effetti dell’annegato?

Al di la della metafora ci piace l’idea di  un’associazione  fatta di persone , che ragiona e racconta delle proprie storie, delle proprie radici, delle proprie utopie, dei propri cieli interiori . Per questo siamo nati.

 

 

Associazione culturale “Il villaggio di Estaban”

 
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Post N° 93

Post n°93 pubblicato il 07 Aprile 2005 da adrians3

Alle Camere del Lavoro

Cgil

Mortara e Vigevano

 

 

Mortara, 2/11/04

 

Rete Lilliput Lomellina invita a partecipare all'astensione del lavoro , contro la legge finanziaria, del 30/11/04 invitando le organizzazioni sindacali ad aprire un dibattito sulle analisi e proposte di alternativa sociale ed economica   dell'associazione Sbilanciamoci. che condividiamo e che qui riproponiamo.

 

"Alle ricette del neoliberismo e di un modello di sviluppo fondato sul profitto e la centralità del mercato per noi sono centrali la promozione del welfare e la tutela dei diritti, l'uso della leva fiscale per la coesione e la solidarietà sociale, la difesa dei beni comuni, la sostenibilità di un'economia fondata sulla giustizia e la solidarietà, un'economia partecipata basata su esperienze in crescita e i cui principi sono sempre più condivisi dai cittadini: la finanza etica, il commercio equo e solidale, il turismo responsabile, il software libero, il consumo responsabile".Riteniamo necessario:

1) opporsi ad una legge finanziaria che, secondo quanto preannunciato, taglierà ulteriormente le spese sociali e i trasferimenti agli enti locali, ridurrà le tasse agli scaglioni di reddito più alti, alimenterà nuove grandi opere, battendosi invece per una finanziaria alternativa fondata sul ruolo dell'intervento pubblico, della spesa sociale (che deve essere portato al livello della media europea), dell'uso della leva fiscale per lo sviluppo, la difesa dei beni comuni - come l'acqua e la conoscenza- dai processi di privatizzazione, la riduzione delle spese militari, il sostegno pubblico alle forme innovative di sviluppo sostenibile partecipato e di imprese di un'economia diversa;

2) rafforzare decisamente un criterio di solidarietà fiscale (e di progressività delle imposte) per finanziare il Welfare e garantire equità sociale ed economica, attraverso la reintroduzione dell'imposta sulle successioni e le donazioni, l'aumento dell'aliquota per gli scaglioni di reddito più alti, la tassazione della rendita e delle speculazioni finanziarie a livello nazionale ed internazionale;

3) introdurre o rafforzare  una serie di tasse di scopo, in materia ambientale e sociale, volte a condizionare e a orientare in modo virtuoso i consumi (sulle armi, sull'acqua imbottigliata con la proposta di 1 centesimo per ogni litro, sul tabacco, sulle emissioni di Co2 ecc.);

4) rafforzare le esperienze di democrazia locale (come i bilanci partecipativi) ricercando forme di cooperazione e lavoro comune con gli enti e le comunità locali per costruire dal basso un welfare dei diritti, forme di sviluppo locale partecipato, elaborazione delle scelte economiche e di utilizzo della spesa pubblica con il coinvolgimento dei cittadini e della società civile organizzata;

5) difendere gli strumenti e le risorse degli enti locali per garantire l'erogazione di servizi sociali in campo assistenziale e sanitario;

6) estendere il lavoro comune con il sindacato, dei lavoratori e dei lavoratrici, sui temi del lavoro, della difesa dei diritti sindacali e sociali, della lotta contro la precarizzazione, con la ricerca di politiche per allargare, tutelare e qualificare l'occupazione. Dobbiamo rovesciare le strategie delle imprese e le politiche che portano all'erosione dei salari e a un sistema pensionistico che coprirà sempre di meno la generalità dei lavoratori e dei cittadini;

7) percorrere con ancora maggiore forza le strade di un nuovo modello di economia, fondato su comportamenti e stili di vita nuovi, su forme di altra economia, su consumi responsabili e di qualità. Il commercio equo e solidale, la finanza etica, l'economia sociale possono essere sostenute con politiche pubbliche -in passato promesse ed auspicate, ma mai effettivamente realizzate- mirate e avere maggiore forza dalla costruzione di sistemi integrati come i "Distretti di Economia Solidale", esperienze significative di consumo e comportamenti etico come i GAS (Gruppi di Acquisto Solidale), i Bilanci di Giustizia, ecc. In questo contesto la responsabilità sociale d'impresa non deve essere considerata ambiguamente come beneficenza umanitaria o puro marketing, ma deve presupporre rispetto delle regole e dei diritti, promozione sociale, tutela del lavoro, dell'ambiente, dei diritti, redistribuzione sociale dei benefici economici;

8) proporre alternative concrete ed efficaci ad un modello di sviluppo energivoro, dipendente dal petrolio, a favore di forme di energia pulita e rinnovabile. La prossima finanziaria deve contenere la reintroduzione della carbon tax per sostenere l'applicazione degli accordi di Kyoto; misure di incentivi a favore del fotovoltaico, con la produzione di almeno 50.000 impianti domestici, l'orientamento della tassazione della benzina (che non deve essere ridotta) per favorire i trasporti pubblici e collettivi, agevolazioni e sgravi per produzioni e imprese produttrici di energia pulita;

9) continuare a battersi contro le politiche neoliberiste del WTO, del FMI e della Banca Mondiale e gli orientamenti della Commissione europea a livello di accordi del GATS, riaffermando le prospettive della sovranità dei paesi in via di sviluppo, l'esclusione dai servizi di alcuni beni comuni, come l'acqua, battendosi per l'equità e la verifica della filiera etica del commercio internazionale e impegnandosi affinché attraverso l'importazione di prodotti come il cotone biologico ed il caffè, si sostengano le ragioni, il futuro dei produttori del Sud del mondo e nello stesso tempo si orientino la qualità e le prospettive della distribuzione e del consumo nei paesi del Nord più ricco;

10) impegnarsi per la smilitarizzazione dell'economia e per la riconversione dell'industria militare, mettendo al centro delle richieste per la prossima finanziaria la riduzione di almeno il 10% delle spese militari nel 2005 per arrivare ad una riduzione del 50% nel 2010; rilanciare le politiche di cooperazione allo sviluppo e alla solidarietà internazionale, fino a raggiungere già dal 2005 lo 0,7 sul PIL. La cooperazione italiana deve essere sganciata dalla politica estera e militare del nostro paese, senza commistione e strumentalizzazione nell'uso dell'aiuto pubblico allo sviluppo per la copertura di interventi umanitari e politica di guerra.

ReteLilliput Lomellina

 
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