Schwed RaccontaSu e giù per la tastiera |
C'ERA UNA VOLTA MONTALCINO
JIGA MELIK E IL SIG. SCHWED
Jiga Melik è l'alter ego intermittente dello scrittore Alessandro Schwed. Il signor Melik nasce nel 1978 nella prima e provvisoria redazione del Male, un ex odoroso caseificio in via dei Magazzini Generali a Roma. Essendo un falso sembiante di Alessandro Schwed, Jiga Melik si specializza con grande naturalezza nella produzione di falsi e scritti di fatti verosimili. A ciò vanno aggiunti happening con Donato Sannini, come la consegna dei 16 Comandamenti sul Monte dei Cocci; la fondazione dell'Spa, Socialista partito aristocratico o Società per azioni, e la formidabile trombatura dello Spa, felicemente non ammesso alle regionali Lazio 1981; alcuni spettacoli nel teatro Off romano, tra cui "Chi ha paura di Jiga Melik?", con Donato Sannini e "Cinque piccoli musical" con le musiche di Arturo Annecchino; la partecipazione autoriale a programmi radio e Tv, tra cui la serie satirica "Teste di Gomma" a Tmc. Dopo vari anni di collaborazione coi Quotidiani Locali del Gruppo Espresso, Jiga Melik finalmente torna a casa, al Male di Vauro e Vincino. Il signor Schwed non si ritiene in alcun modo responsabile delle particolari iniziative del signor Melik.
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QUANDO MI MORI' JIMI HENDRIX
Post n°3 pubblicato il 21 Novembre 2010 da Jiga0
Quando mi morì Jimi Hendrix ero a novantuno giorni da diciannove anni.Stavo al mondo coi capelli più che lunghi, i pantaloni più che rotti e l'aria più che fiera.Penso che fosse mattina, ero nel bagno con le piastrelle gialle dei miei genitori, avevo fatto la doccia e stavo ascoltando la radio. Poteva succedere che durante la giornata, tra i programmi per i gentili ascoltatori e gli avvallamenti melodici delle canzoni italiane, frangenti asfittici in cui dovevo ascoltare "lei mi darà un bambino", venisse su una chitarra rabbiosa - segnali di esistenza. Perciò, niente di insolito che il diciotto settembre millenovecentosettanta stessi ascoltando la radio. Ero sempre a caccia di rock. Dicevo che mi sarei laureato sul blues, andavo dal professore di musicologia, un esangue esperto di Palestrina che intendevo rivitalizzare ai colpi di armonica di un musicista nero che si chiamava Howlin Wolf, gli sciorinavo sul tavolo la bibliografia intorno a Leroi Jones, quello de "il Popolo del blues", e lui faceva segno di sì. Com'è ovvio, in facoltà ci andavo per occuparla, se no stavo sul prato del chiostro di piazza Brunelleschi. C'era una giovinetta molto bella coi capelli alla Angela Davis che mi metteva le margherite tra i capelli, e nessuno di noi due aveva il coraggio di dire che era innamorato. All'alba tornavo a casa dopo avere ascoltato i miei amici dei gruppi rock fiorentini che suonavano allo Space Elettronic, un ex garage sotto la cupola di un paracadute, dove per dire suonarono i Canned Heat. A un tratto, nel bagno giallo dei miei genitori, una voce femminile dentro la radio disse schietta che era morto Jimi Hendrix. L'avevano trovato morto nel letto (se no la vasca da bagno, ma la vasca da bagno era di Jim Morrison. La gente del rock è morta in bagno molte volte e questo mio appannamento dipende dalla mitologia, però anche dalle condizioni della mia memoria). Non poteva essere vero, ma quella continuava a dire che Jimi Hendrix era morto a Londra e poi che le autorità, il medico legale, che il corpo del musicista, che le cause, e che all'improvviso. L'unica cosa che alla radio non dicevano era che non poteva essere vero. Ero davanti allo specchio, ero io, ero tagliato in due. Che sarebbe successo da questo momento in poi? All'improvviso mi trovavo a un confine sconosciuto. Qualcuno mi stava scacciando dalla mia terra. Poi la radio deve essere passata ad altro; fatuità; un varietà radiofonico; parole dette da estranei che amavano le canzoni di quel Dino. Stavo immobile, senza fiato, come se mi avessero infilato in un ascensore di ghiaccio e adesso scendessi come un proiettile al centro della terra. Ero lì davanti allo specchio del bagno giallo, poi a un certo punto devo avere lasciato un lamento, come nelle tragedie; come quando un messaggero porta la notizia che è morto Teseo, è morto Achille, e dopo inizia il lamento per il lutto, e gli uomini e le donne camminano avanti e indietro, e le braccia sono rivolte al cielo, e il cielo non risponde, c'è solo la morte. Mi pare che mia madre sia venuta di corsa alla porta del bagno, che io urlavo "no". Ero lì nel bagno giallo dei miei genitori che credevo di essere a posto, uno già adulto, e invece a un tratto dovevo imparare a camminare. La mamma avrà chiesto diverse volte che stesse succedendo ("Tutto bene?... Allora?..."), e io appoggiato alla porta del bagno, dall'altra parte, devo averle risposto che mi era morto Jimi Hendrix. "...Ora come faremo?... che schifo...". Non c'è niente di più puro del melodramma dell'adolescenza che finisce, una tenera parte invisibile si stacca dal corpo e se ne va. Ero lì allo specchio del bagno giallo, stavo per divenire un giovane uomo, e sarò stato sicuro in modo assiomatico che non mi avrebbe potuto capire nessuno; che noi saremmo stati soli per sempre, tutta la generazione e io, ma ovvio, più io che tutta la mia generazione. Con la mamma avevo confidenza, nonostante lo scarto tra i nostri interesssi estetici. Lei: Cronin, Natalino Otto e Giuseppe Verdi. Io la chitarra col distorsore, PG Woodehouse, e il buon soldato Schweyk. Lei avrà cercato di essere complice, avrà fatto una di quelle domande da mamma: "Ma come è successo, quel povero ragazzo!". Solo che stavolta non volevo sapere subito come fosse successo - ma subito perché. Lui era la centrale elettrica della musica mondiale, ed eravamo rimasti al buio. Senza Jimi Hendrix, senza la fender bianca, con le corde rovesciate, da mancino. Avrei pianto e nessuno mi avrebbe capito, soprattutto gli amici di incerta amicizia. Quelli che a un certo punto si fermavano. Loro non amavano Hendrix sul serio e io sarei stato un imbecille solitario. Il giorno che al cinema Ariston di Firenze avevano cominciato a dare "Woodstock", alle tre ero già lì, e degli amici nemmeno l'ombra. Avevano da fare, sì, ma da fare che? Si può dire che poi questi miei amici fossero divisi in due gruppi, a parte la ragazza bella che mi metteva i fiori in testa. C'erano i finti vispi e i dormienti puri. I finti vispi con i libri di Marx, le foto in bianco e nero sviluppate nello sgabuzzino, Quaderni Piacentini; i dormienti puri: e allora gli esami dati con regolarità funesta, tornare a casa e subito il telefono e la fidanzata - come stai carotino? Se no, in giardino a controllare le candele della moto, o in cantina a rifare la parte del basso in Penny Lane. Io ero con Hendrix. Hendrix era l'esistenza. Era "Sulla strada" di Kerouak alla fine dei Sessanta; era andare alle prove dei gruppi rock e infilare la testa negli amplificatori Marshall per non perdere il distorsore, e riconoscere alla prima svisata se la chitarra era una gibson o una fender. E quel giorno, al cinema Ariston, i miei amici non c'erano. Al primo spettacolo, c'erano seicentomila persone sulla spianata, io e un altro paio di capelloni. Dopo che ebbi visto i Ten Years After, pervenni all'assolo dell'inno americano, e sullo schermo c'era solo la mano di Jimi che andava sulla leva del distorsore e faceva arrivare a Woodstock le bombe del Vietnam, e dopo iniziava una musica gentile e la spianata di Woodstock rimaneva da sola, cullata dalla fender bianca, e il film finiva sfiorato dalle mani di Jimi Hendrix. Rimasi in platea per tutte le proiezioni di quel giorno e di quella notte. Mi sono trovato nel mondo del rock intorno ai sedici anni. C'era questo mio amico, che si chiamava Guglielmo, aveva la barbetta a punta e ascoltava solo John Coltrane e Archie Shep. Insomma il jazz più dolce e rabbioso che ci fosse. Io ero interessato, ma sino a un certo punto, non sentivo il segnale. Andavo in cerca di qualcosa d'altro, e se avessi potuto confessarlo, la scossa musicale l'avevo ricevuta da Celentano. A Sanremo. Si era presentato di spalle, si era girato, e più che cantare come gli altri, aveva quasi detto nel microfono: "Con ventiquattromila baci". Avevo intercettato l'idea e l'avevo messa da parte. Sicché passano gli anni, e un giorno arriva a casa questo mio amico Guglielmo, lo strambo che ascoltava i barriti dei sassofoni dalla mattina alla sera. Era venuto a dire una cosa. A Guglielmo brillavano gli occhi, i suoi erano di Milano, aveva la erre blesa e a ripensarci era il prototipo dell'appassionato di jazz. Mancava solo che fumasse la pipa, ma eravamo sui quindici anni e avevamo appena smesso i pantaloni corti. La pipa l'avrà fumata dopo. Mi fa Guglielmo, mezzo ridendo come sempre: "Ho ascoltato una cosa pazzesca. Ti farà impazzire. E' tritolo". Era un trentatré doppio dal vivo di un gruppo rock inglese. I Cream. Andai da Alberti e lo comprai a scatola chiusa, sulla parola di Guglielmo. Tornai a casa e lo misi sul Lesa. Dalle casse venne fuori lo sparo di una musica finalmente elettrica: cioè con un rapporto tra il suono e l'energia che lo liberava. Ricordo di avere pensato: "Ma allora questa cosa esiste!". La chitarra di Eric Clapton cominciò a ringhiare dentro a un impasto di libertà e potenza lenta, e mi sentivo vivi i capelli, le braccia, vive anche le scarpe. Poi c'era un rombo, era Jack Bruce al basso, dentro a delle sequenze discendenti e ascendenti che avevo sentito solo nelle fughe di Bach. E questo tormento della foresta urbana, la batteria di Ginger Baker. Era come ascoltare una intera fabbrica che si era messa a fare il rock col suono del cortocircuito. Una musica vivente. Non ci potevo credere. Buon Dio, esclamai con le mani sul volto, Guglielmo è un santo. Sarà stata la fine del 1967, e avevo scoperto che la mia generazione aveva una musica come nessuna generazione ne aveva mai avuta. Jimi Hendrix lo dovetti scoprire. Vidi la copertina, comprai "Are you experienced?" e me lo portaia casa. Non c'era niente di più potente e forsennato, ormonale e malinconico, umano e marziano. Quello lì faceva parlare ogni angolo delle emozioni della giornata, solo che erano con le iniziali maiuscole: se era tristezza, era la Tristezza, se era una festa era la Festa. Non si poteva dire che lui arrivasse sul palco e si mettesse a fare dei pezzi sincopati, quello lo facevano gli altri. No, Hendrix suonava, e ti chiedevi cosa avessero fatto gli altri per anni e tu con loro. Semmai era illogico che a un certo punto la musica finisse e lui se ne andasse, e noi rimanessimo in mezzo alla casuale vita. Non era accettabile che la corrente si attenuasse su "off", lui eseguisse un inchino e sparisse nel buio. E questa è stata la mia prima giovinezza. Casa nostra era a pianterreno. Aprivo le finestre, mettevo il volume a livelli, diciamo così, imponenti, poi partiva "Foxy lady". Jimi alla fine del testo, diceva: "Come on the Gipson", forza con la Gibson, che poi era lui, e sotto forma di chitarra, toglieva la museruola allo spirito. Allora, dalle finestre aperte di casa la sua chitarra se ne andava per la via, e io speravo non solo per quella via, ma che andasse in giro per tutte le vie della città, poi in aria, verso le finestre dei secondi e terzi piani, fino ai tetti. Volevo che la gente sul marciapiede, quelli sulle macchine che andavano a lavorare, gli adulti dormienti, i vicini di casa, tutti quelli che passavano, sapessero che al mondo c'era il rock e che esisteva Jimi Hendrix. Lo ascoltavo in piedi, non ero così pusillanime da stare in poltrona come se in tivù ci fosse stato il tenente Sheridan, mentre sul pedale dello wha wha era in corso "Vodoo Chile". Stavo in piedi, se no camminavo per il salotto. Con le mani mimavo la corsa sulle corde della chitarra, prendevo un scopa della mamma, la imbracciavo e svisavo per tutto il bastone, e alla prima lancinante svisata mi piegavo su me stesso, mi rialzavo, scuotevo i capelli, singhiozzavo, ridevo: era un'ascesi elettrica. Non mi importava di essere ridicolo, o inadeguato, o goffo e neanche ci pensavo; anzi, non pensavo e basta. E poi ascoltare Jimi e tenere la mani in tasca sarebbe stato contronatura. Avevo una chitarra acustica su cui a volte facevo due note e un pomeriggio, ascoltando "Wild thing", la spaccai sul pavimento. Poi uscivo dal trance e andavo alla finestra a vedere se qualcuno si stava fermando ad ascoltare - non c'era mai nessuno. Il traffico continuava a scorrere; la città a farsi gli affari suoi. All'epoca di Jimi Hendrix con i miei amici partivamo e andavamo ai concerti per tutta Italia. Io registravo con un mangiacassette che spesso mi masticava il nastro. Se il nastro si salvava, dalla musica asfissiata dal fruscio, emergevano i miei commenti. C'era la registrazione di un assolo al flauto traverso di Jan Anderson, quello dei Jethro Tull che suonava su una gamba sola, come un trampoliere. Anderson aveva questo modo che ansimava nel flauto, e nel mezzo dei singulti si sentiva la mia voce nasale: "Mio Dio, è meraviglioso". Era la mia protratta adolescenza. Una mescolanza viscerale tra comico e tragico e finì con la morte di Jimi Hendrix. Ma in quel tempo che era vivo, ce ne andavamo in giro io e un mio amico di immensa mole, Riccardo. Aveva i capelli nerissimi fino a metà della schiena, io biondi e anch'io a metà della schiena. Riccardo suonava il blues e il rock sull'organo Hammond, e lo faceva molto bene, io andavo a trovarlo e gli dicevo: "Suona". La notte andavamo intorno, nei locali e poi a cominciare il giorno alla stazione. Ora, dato che ero parecchio biondo, facevamo questo scherzo di dire che io ero Johnny Winter, quel chitarrista texano coi capelli bianchi, in visita a Firenze. Ci credevano tutti e facevo anche gli autografi. Aprimmo un locale underground. Più che altro fu merito di un ragazzo, era alto due metri, un chitarrista fenomenale. Si chiamava Aldo, detto Aldù, ma era Frank Zappa che abitava in piazza Indipendenza, a pochi metri dalla sede del Movimento sociale, e la sera a riaccompagnarlo avevo paura. Aveva la fender, suonava con gli Zero e mescolava Giuseppe Verdi al rock-blues. Il locale fondato da Aldù si chiamava la Buccia, ma non esisteva. Era la sala di una casa del popolo dalle parti della fabbrica del Nuovo Pignone. Durante la settimana c'erano quelli del Pci a giocare a carte, ma la domenica si passava dal tressette al distorsore. Durò un mezzo inverno. Aprivamo anche alle quattordici, e c'erano trecento persone in fila. Suonavano due gruppi, gli Zero e gli Elettric Mud, Letame Elettrico. Io stavo davanti a un tavolo che era messo sopra una spianata di tavoli e mandavo le mie registrazioni di rock. C'era la pasta al sugo e il biglietto costava quattrocento lire. Ma stavo raccontando di quel giorno che mi morì Jimi Hendrix, che in televisione e alla radio dicevano poco, e che c'era un'arietta di scandalo. Mentre era la fine dell'idea che la musica fosse tutto, la sola polis, la sola politica, e la musica stava per ricominciare a essere una materia da affrontare seduti. Il giorno dopo che era morto Hendrix, presto al mattino, corsi dal giornalaio. Presi la Nazione. Trovai la pagina. Leggevo in mezzo alla strada, camminando, fermandomi. Avevano pigiato la notizia nelle pagine degli esteri, come se Jimi fosse stato un semplice capo di stato, un reucolo del belgetto. C'era un pezzo su tre colonne e una stinta foto in bianco e nero. Il titolo recitava: "E' morto Jimi Hendrix, il famoso cantante di rock'nroll". Era il secondo giorno che non c'era, e già lo stavano riammazzando. Non si rendevano conto che era passato Caravaggio col plettro, e chissà quando sarebbe successo di nuovo. La distanza tra la Nazione e quello che io chiamavo "noi" era incolmabile. Per l'appunto loro erano una nazione e noi un'altra. Noi la gioventù di Woodstock e loro una tipografia! Presi l'Olivetti di mio padre, misi Band of Gipsies sul piatto Thorenz a cinghia, Jimi alla fender, Buddy Miles alla batteria, Billy Cox al basso, e c'era "Machine Gun" e faceva tidatta tidatta diridà, tidatta tidatta diridà. Mi misi a scrivere il necrologio. Scrivevo, correggevo, piangevo, riscrivevo. Quel giorno non mangiai. A tarda notte il pezzo era pronto. Il motivo per cui contavo sulla pronta pubblicazione era che secondo me era commovente e che casa mia si trovava a duecento metri dalla redazione. Era tutto veramente semplice. Bastava attraversare il viale, costeggiare il cinema-teatro Cristallo, ignorare le foto in bianco e nero delle ballerine in bikini con gli enormi glutei delle donne italiane del 1970, attraversare un altro viale, e impattare la portineria della Nazione. La mattina dopo pressai in una busta le tre cartelle sulla morte di Hendrix, attraversai i due viali e arrivai alla redazione. Mi avvicinai al vetro della portineria e dissi al signore che stava dall'altra parte: "Per favore, consegni con urgenza questo alla redazione. E' sulla morte di Jimi Hendrix", e feci passare la busta dentro a un buco. Lui fece un cenno col capo. Molto bene, pensai, è fatta. Il mio necrologio su Jimi Hendrix non fu mai pubblicato. Può darsi che questa sia la volta Buona. Alessandro Schwed Il Foglio,16 settembre 2006
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