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Un blog creato da Jiga0 il 21/11/2010

Schwed Racconta

Su e giù per la tastiera

 
 

ICONA RIVISTA IL MALE

 

JIGA MELIK E IL SIG. SCHWED

 

Jiga Melik è l'alter ego intermittente dello scrittore Alessandro Schwed. Il signor Melik nasce nel 1978 nella prima e provvisoria redazione del Male, un ex odoroso caseificio in via dei Magazzini Generali a Roma. Essendo un falso sembiante di Alessandro Schwed, Jiga Melik si specializza con grande naturalezza nella produzione di falsi e scritti di fatti verosimili. A ciò vanno aggiunti happening con Donato Sannini, come la consegna dei 16 Comandamenti sul Monte dei Cocci; la fondazione dell'Spa, Socialista partito aristocratico o Società per azioni, e la formidabile trombatura dello Spa, felicemente non ammesso alle regionali Lazio 1981; alcuni spettacoli nel teatro Off romano, tra cui "Chi ha paura di Jiga Melik?", con Donato Sannini e "Cinque piccoli musical" con le musiche di Arturo Annecchino; la partecipazione autoriale a programmi radio e Tv, tra cui la serie satirica "Teste di Gomma" a Tmc. Dopo vari anni di collaborazione coi Quotidiani Locali del Gruppo Espresso, Jiga Melik finalmente torna a casa, al Male di Vauro e Vincino. Il signor Schwed non si ritiene in alcun modo responsabile delle particolari iniziative del signor Melik.

 

 

 

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LA FANTASCIENZA INCARTAPECORISCE

Reportage dalla città che è Milano, ma poi è Bangkok, Berlino, New York

(Huffington Post, 16-03-14) di Alessandro Schwed

Ecco gli automi. Tra due anni in alcuni stati Usa circoleranno autobus guidati da robot, si stanno mettendo a punto le leggi necessarie. Non è un esperimento, ma un'immane impresa da cento miliardi di dollari l'anno. E così arriva in città il processo di automazione industriale iniziato trent'anni fa e che trasformò l'operaio in un simulacro dell'800. I robo-bus non saranno i manichini di fibra con sotto la "pelle" circuiti e lucine accese, i pupazzi del cinema dalla fisionomia umanizzata; ma scatole elettroniche messe da qualche parte. Al posto del conducente ci sarà il vuoto. I robot-bus saranno in grado di procedere nel traffico, frenare, accelerare, bloccare un uomo agitato, cambiare destinazione in caso di emergenza. Sembra fantascienza, si diceva ancora poco fa per indicare qualcosa di impossibile che poi si mostra. Ora si è mostrato e la luce della fantascienza è opaca come una vecchia lampadina.

E se da tempo negli appartamenti circolano dischi a rotelle con sensori anti-urto che ingoiano la sporcizia senza essere sospinti da nessuno, non ci vorrà molto perché in casa arrivino anche i robot del cinema, semi-umani con testa e arti: i vecchi maggiordomi in plastica dura, con la telecamera incorporata. Sbrigheranno la cucina, stireranno, faranno quello che non faremo più: lavorare. E' presumibile che prendano il posto novecentesco di baristi, fornai, farmacisti, pompieri, chirurghi, postini e coadiuvatori sessuali. La fantascienza incartapecorisce. Rimane intatta la possibilità dell'incontro con i marziani, ma la loro attesa è una sonnolenta abitudine. Crostacei in un guscio celeste invaderanno e protesteremo perché sono i soliti granchi che parlano. Negli anni '60 la fantascienza era nei libretti Mondadori di Urania, sul banco del giornalaio. Nelle pagine, i razzi scivolavano tra le stelle trainati da vettori dai nomi suggestivi: motori a magnete, a radiante, a propulsione termoionica. I film di fantascienza erano meno potenti. Cartone floscio fino al '68, quando divampò il Kubrik di "2001. Odissea nello spazio". Sullo schermo di un economico cinema di terza visione, vidi la steward della nave spaziale camminare a lievi balzi per un corridoio e capovolgersi nel vuoto gravitazionale per entrare in un altro vano dove il sotto diventava sopra e il pavimento si faceva soffitto. Quel "tangibile" cambio di prospettiva mi fece capire che eravamo al confine di un'epoca nuova. Il cinema prometteva un evo rivoluzionario e una bellezza inaudita. Sarebbero iniziati i viaggi nelle stelle, i robot avrebbero sostituito l'uomo e ci sarebbe stato da divertirsi. Nuovi bucanieri, tesori inauditi, nuovi romanzi, diceva William Burroughs, beat. 

 Trascorsi tredici anni dal 2001 di odissea nello spazio e quarantacinque dalla visione del film, settimane fa mi succede di partire per la megalopoli di Milano. Abito a Montalcino, nella campagna senese, e per raggiungere Milano in treno bisogna andare tortuosamente a Firenze. Alla stazione di Firenze si scende dal regionale e si sale su quel missile. La stazione è alle spalle. Probabilmente siamo partiti. Il sussurro è il motore, il display sulla parete recita "La velocità attuale è di 300 chilometri orari". Lo so, è patetico, ma aia. Sull'autostrada accanto, le macchine sono alle spalle, poi atterro a Milano Rogoredo. Ma se ero a Firenze? Scendo dal mio razzo ed è improprio vedere una stazione e non un anello orbitante da cui si riparte per le galassie. Nell'umida sera terrestre, stupisce che la gente non cammini capovolta come nei corridoi delle astronavi, non galleggi per aria, e vada ancestralmente a piedi. Dovrei andare all'ex Palazzo del Ghiaccio. "Prendi il Passante Ferroviario, è facilissimo" mi ha istruito un amico d'infanzia che ora vive a Milano, addestrandomi all'esistenza di realtà ignote. Mi guardo intorno, il bar-biglietteria è chiuso. Riesco a comprare il biglietto per il Passante solo dopo che un'eroica funzionaria delle ferrovie mi soccorre, decriptando il funzionamento della macchina in touch-screen che vende i ticket per i mezzi di superficie. La funzionaria dice "mezzi di superficie", e intravedo monoliti, guglie di vetro, auto volanti, brevi stati di sonno rigenerante in apposite cuccette. Mi apposto sul marciapiede in attesa del Passante Ferroviario. Ce n'è uno ogni sei minuti. 

A Montalcino, perché succeda qualcosa bisogna attendere il rintocco del quarticello dal campanile. Tre minuti al Passante: i binari lucidi mi porteranno ancora più in città di quanto non sia città il luogo dove mi trovo - ma la città non ha fine, avvolge la Terra come una coperta di rotaie. E' quella la Città. Milano, Londra, Tokio sono simulacri del tempo antico, ora siamo Uno. Nel futuro dove al presente mi trovo, la linea scintillante dei binari è correlata a una successiva ferrovia correlata ad altre ferrovie successive correlate al mondo intero in mezzo a monitor digitali con la pubblicità e voci afone dagli altoparlanti. Mi attendono i mondi interni di Milano. Il Passante Ferroviario perviene silenzioso nella sera. Non si tratta di salire: il marciapiede è situato al livello dello scompartimento ed è come passare dalla gran stanza della stazione di Rogoredo alle stanze del treno. Parto verso l'arcaico ex palazzo del ghiaccio, fondato all'inizio del '900 da una famiglia di Rom milanesi. Le porte scorrevoli del Passante si aprono e mi incamerano. L'interno è arido e lindo come quello di un cargo spaziale - è ora di cena, non c'è nessuno.

Un altro ronzio silenzioso deve essere il motore: come farò ad accorgermi di essere arrivato? Magari siamo ancora fermi all'asteroide di Rogoredo. No, stiamo andando, deduco circospetto, meditando sul fruscio di una galleria. Scivoliamo verso tutti gli altrove della megalopoli. L'interno del Passante non richiama un bus, ma la camera di lancio di un missile e le file dei sedili deserti sono per i passeggeri pronti ad essere catapultati su Milano con un raggio di luce. Un serpentone di parole iridescenti avverte che sono arrivato, un altro display della catena di display che accompagna il mio approdo al golfo di Milano, la megalopoli del sud d'Europa, un tempo nota per le cotolette impanate e ora per il traffico di razzi fruscianti. Le porte si aprono, sono sputato sul velluto del marciapiede. Nessuna illuminazione contraddice la notte. E' semplicissimo arrivare, ha illustrato il mio amico, ma non si vede niente a parte il buio. Mi dico paesanamente che chi lingua ha, a Roma va e qualcuno mi spiegherà come arrivare al Palazzo del Ghiaccio. Ma non c'è nessuno, solo fari di auto. Quasi quasi torno in Toscana - già, ma se poi sbaglio strada e finisco in Polonia? Diseredato della luce dei lampioni, non vedo grande differenza dal luogo dove mi trovavo due minuti fa, quando ho preso il Passante. Nel nuovo tempo al buio della crisi fantascientifica tutto è uguale: la pensilina di Rogoredo, il mercato ortofrutticolo, le arterie stradali, le vie senza la targa, le macchine che sfrecciano. Da qualche parte, forse da una strada, brilla l'insegna miracolosa di una rosticceria. Vado. Mi accoglie nel calore del pollo alla brace e delle parole lombarde della padrona. Ai tavoli apparecchiati, nessuno. Mi chiedo chissà cosa faranno di questi arrosti. 

"Vada là - sorride - dove vede i finestroni illuminati, e arriva al Palazzo del Ghiaccio". Eh sì, nel futuro di umano ci saranno solamente le donne. Fuoriesco. La notte della megalopoli è uguale alla notte di altre megalopoli, e la notte di Shanghai è uguale a quella di Lione che è uguale a quella di Parigi che è uguale a quella di Milano. Attraverso l'incrocio, transitando indifferente a velocità, chilometraggi e numeri, dato che sono i numeri a fare la differenza, le distanze, i minuti, i fruscii, non le forme dell'agglomerato. Il buio è una minestra densa e l'evidenza del giorno una chimera da cui mi separano dodici lunghe ore. Per terra erbacce, come mai una vita vegetale? Radi individui avventurosi procedono sul marciapiede in giacche a vento di un materiale che non è lana, cotone, non verde di loden, grigio di impermeabile, blu di cappotto. Non angora o cammello - non stoffa, e non sciarpe. Ma zip luccicanti sopra una fibra sintetica il cui nome finirà per ix e comincerà con zeta. Camminano nella notte con il volto aureolato dall'iphone.

Vecchio presente, dove sei?

 

 

 

 

 

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