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I mari del Sud

Post n°5 pubblicato il 02 Maggio 2012 da meninasallospecchio

Oggi mi è venuta voglia di fare come i blogger seri, che pubblicano poesie e pensieri profondi, così,
tanto per vedere cosa si prova. Tornerò presto a fare la cazzona come più mi si addice.

Così metto questa poesia di Pavese, in cui lui e il cugino Silvio salgono sulla collina di Moncucco,
sopra Santo Stefano Belbo. Questa è la collina, così come si vede da casa mia, purtroppo
con un po' di foschia.

E' una poesia che amo particolarmente perché sento la lingua, gli accenti e la scabra evocatività
della mia gente. Scusate se non so dire di più e meglio, ma "tacere è la nostra virtù".

 

Collina di Moncucco - Santo Stefano Belbo

 

I mari del Sud

(a Monti)


Camminiamo una sera sul fianco di un colle,   
in silenzio. Nell'ombra del tardo crepuscolo   
mio cugino è un gigante vestito di bianco,   
che si muove pacato, abbronzato nel volto,   
taciturno. Tacere è la nostra virtù.   
Qualche nostro antenato dev'essere stato ben solo   
- un grand'uomo tra idioti o un povero folle -   
per insegnare ai suoi tanto silenzio.   

Mio cugino ha parlato stasera. Mi ha chiesto   
se salivo con lui: dalla vetta si scorge   
nelle notti serene il riflesso del faro   
lontano, di Torino. "Tu che abiti a Torino... "  
mi ha detto "...ma hai ragione. La vita va vissuta   
lontano dal paese: si profitta e si gode   
e poi, quando si torna, come me a quarant'anni,   
si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono".   
Tutto questo mi ha detto e non parla italiano,   
ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre   
di questo stesso colle, è scabro tanto   
che vent'anni di idiomi e di oceani diversi   
non gliel'hanno scalfito. E cammina per l'erta  
con lo sguardo raccolto che ho visto, bambino,   
usare ai contadini un poco stanchi.  

Vent'anni è stato in giro per il mondo.   
Se n' andò ch'io ero ancora un bambino portato da donne   
e lo dissero morto. Sentii poi parlarne   
da donne, come in favola, talvolta;   
uomini, più gravi, lo scordarono.   
Un inverno a mio padre già morto arrivò un cartoncino   
con un gran francobollo verdastro di navi in un porto   
e auguri di buona vendemmia. Fu un grande stupore,   
ma il bambino cresciuto spiegò avidamente   
che il biglietto veniva da un'isola detta Tasmania   
circondata da un mare più azzurro, feroce di squali,   
nel Pacifico, a sud dell'Australia. E aggiunse che certo   
il cugino pescava le perle. E staccò il francobollo.   
Tutti diedero un loro parere, ma tutti conclusero   
che, se non era morto, morirebbe.   
Poi scordarono tutti e passò molto tempo.   

Oh da quando ho giocato ai pirati malesi,   
quanto tempo è trascorso. E dall'ultima volta   
che son sceso a bagnarmi in un punto mortale   
e ho inseguito un compagno di giochi su un albero   
spaccandone i bei rami e ho rotta la testa   
a un rivale e son stato picchiato,   
quanta vita è trascorsa. Altri giorni, altri giochi,   
altri squassi del sangue dinanzi a rivali   
più elusivi: i pensieri ed i sogni.   
La città mi ha insegnato infinite paure:   
una folla, una strada mi han fatto tremare,   
un pensiero talvolta, spiato su un viso.   
Sento ancora negli occhi la luce beffarda   
dei lampioni a migliaia sul gran scalpiccìo.   

Mio cugino è tornato, finita la guerra,   
gigantesco, tra i pochi. E aveva denaro.   
I parenti dicevano piano: "Fra un anno, a dir molto,   
se li è mangiati tutti e torna in giro.   
I disperati muoiono cosi ".   
Mio cugino ha una faccia recisa. Comprò un pianterreno   
nel paese e ci fece riuscire un garage di cemento   
con dinanzi fiammante la pila per dar la benzina   
e sul ponte ben grossa alla curva una targa-réclame.   
Poi ci mise un meccanico dentro a ricevere i soldi   
e lui girò tutte le Langhe fumando.   
S'era intanto sposato, in paese. Pigliò una ragazza   
esile e bionda come le straniere   
che aveva certo un giorno incontrato nel mondo.   
Ma usci ancora da solo. Vestito di bianco,   
con le mani alla schiena e il volto abbronzato,   
al mattino batteva le fiere e con aria sorniona   
contrattava i cavalli. Spiegò poi a me,   
quando fallì il disegno, che il suo piano   
era stato di togliere tutte le bestie alla valle   
e obbligare la gente a comprargli i motori.   
"Ma la bestia"  diceva "più grossa di tutte,   
sono stato io a pensarlo. Dovevo sapere   
che qui buoi e persone son tutta una razza".   

Camminiamo da più di mezz'ora. La vetta è vicina,   
sempre aumenta d'intorno il frusciare e il fischiare del vento.   
Mio cugino si ferma d'un tratto e si volge: "Quest'anno   
scrivo sul manifesto: - Santo Stefano  
è sempre stato il primo nelle feste   
della valle del Belbo - e che la dicano   
quei di Canelli ". Poi riprende l'erta.   
Un profumo di terra e di vento ci avvolge nel buio,   
qualche lume in distanza: cascine, automobili   
che si sentono appena; e io penso alla forza   
che mi ha reso quest'uomo, strappandolo al mare,   
alle terre lontane, al silenzio che dura.   
Mio cugino non parla dei viaggi compiuti.   
Dice asciutto che è stato in quel luogo e in quell'altro   
e pensa ai suoi motori.   

                                   Solo un sogno  
gli è rimasto nel sangue: ha incrociato una volta,   
da fuochista su un legno olandese da pesca, il cetaceo,   
e ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole,   
ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue   
e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia.   
Me ne accenna talvolta.   

                                   Ma quando gli dico   
ch'egli è tra i fortunati che han visto l'aurora   
sulle isole più belle della terra,   
al ricordo sorride e risponde che il sole   
si levava che il giorno era vecchio per loro.   
 
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