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Post N° 28

Post n°28 pubblicato il 24 Gennaio 2005 da sughrue
 



Alcuni anni fa la Repubblica invitò i lettori più giovani a scrivere e spedire in redazione dei pezzi che avessero come tema il Sabato Sera. Sul quotidiano pubblicarono quelli dei tre finalisti. Fulvio Tabano, ventiduenne di Salerno, vinse il concorso con questa breve storia.



Ho aspettato la tua voce

Avevo deciso di uscire. Lo squillo del telefono mi ha seguito per tutto il giorno. Sabato. Oggi. Appuntamenti. Appuntamenti richiesti. Appuntamenti mancati. Intrecci di appuntamenti. Sono stanco. Mi cercano, si. Mi chiedo spesso perchè e sempre la risposta è rassicurante, gratificante: un bel ragazzo biondo. Un bel bisteccone di muscoli e sangue. Ogni giorno colazione abbondante al mattino, lunghe ore di studio in una stanza piena di sole, ordinata. Il gusto di un pranzo atteso, saporito. La corsa sul lungomare, ginnastica. L'autobus per l'Università.

Ti invidio solo quando guardi la tua Irene. Mia madre. E Lei guarda te. Mio padre. Spio gli sguardi e cerco di cogliere nelle pupille il segreto del rapporto che mi ha generato. L'analisi dell'economia nel feudo di Casertavecchia mi distrae, ma il pensiero torna, e ritorna e ritorna. Sento questo mio corpo teso. L'ho visto crescere nel tempo con soddisfazione e paura. Lunghe soste attonite mi hanno accompagnato bambino. A volte un'inquietitudine senza senso.

"Mamma a che serve studiare?". Una grande voglia di piangere. Una solitudine. Ma il vocabolario e la ricerca attenta e le traduzioni dal greco e la professoressa un po' nervosa, un po' quieta nel suo equilibrio di adulta, madre di bimbi, studiosa, brava, comprensiva, ironica. Io lì che l'ammiro. Io, solo uno sguardo sul mondo sensa esserci dentro. La compagna di banco con gli occhi bistrati che parlotta fitto fitto con l'altra, l'antipatica. Ammiccano. Ridono. Che voglia di prendere a pugni. Che sogni agitati. Che sudori. Che brividi. E il desiderio di essere ammalato, accucciato nel letto che sa di me, ad occhi chiusi e il termometro che sale e sa di me. Ritrovarmi poi a vivere il benessere. Un po' più lungo e sempre robusto. Una tacca in più sul muro del bagno e la voce che cambia.

Mi vergogno. Che voce. Ma come dirti papà tutto questo un secolo fa. E come parlare oggi con te, un po' nervoso un po' quieto nel tuo equilibrio di adulto, padre severo, lavoratore puntuale, granitico, mentre insegui la tua speranza in un mondo migliore, politicamente impegnato, spesso incazzato. Come dirti di me che intanto sono lì. Ancora lì. Solo uno sguardo sul mondo senza esserci dentro. Come dirti oggi, sabato, che non esco più. Ho aspettato anche oggi, soprattutto oggi, una sola telefonata. Ed ogni volta al telefono, la voce era diversa. Diversa da quella che avrei voluto. Volevo solo una voce. La sua voce. Il suo tono caldo, calmo. Le parole precise, ricercate. Le pause. I silenzi. Il respiro. Volevo lui. Il mio torace quasi scoppiava per un battito del cuore prepotente, pieno, accelerato.

Il mio ampio torace che si copre di peli biondi. Il mio pene forte che si copre di peli biondi. E lui così diverso, così lontano. Gli occhi grandi e gli occhiali. Le parole, le parole che dice e sa cercare. Quel suo passo molleggiato. La sua andatura leggera e sicura. I maglioni che scivolano lenti su quel suo corpo alto e sottile. La sua dolcezza serena. Pensiero che turba i miei sogni, pensiero come un'imboscata ai miei risvegli, pensieri che accompagnano le mie giornate che cercano il sole. E ritorno, ritorno a pensare. Una liquida ossessione. Sapessi papà che discorsi, che discorsi gli faccio in bagno, davanti allo specchio che mi rimanda un me appassionato, gli occhi smarriti, la voce roca. Ridicolo. Papà, quercia senza tempo, della quercia solo l'aspetto mi hai dato. E dentro la linfa sottile che percorre i miei rami. Consapevolezza gioiosa e allucinata che non riesce ad accettarsi in pieno.

Sono e non sono. Ma tu come tu sei? Vorrei essere te e tu me, per capirci. Passeranno le stagioni. Tutto questo mio rosso e giallo sperare cosa sarà diventato? Per te cosa è diventato? Se con un calcio ben dato mi rimandavi un pallone sbilenco "Papà, tira" allora forse avevi trovato in me una ragione, ti sentivi uomo perchè io c'ero. Io invece non so cosa potrò fare. Continuerò ad aspettare e non so se leggerai di me. Non so se darti l'amaro. O tenerti fuori da tutto. Avere pietà di te.

Stasera, sabato, non uscirò, è sicuro.

 
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Commenti al Post:
Utente non iscritto alla Community di Libero
raffaella il 23/01/17 alle 10:37 via WEB
traslocando,trovai un ritaglio di Repubblica in un libro,Ho aspettato la tua voce:lo conservo da quando fu pubblicato, mi aveva commossa. Forse non si deve dire "mi ricorda...",ma mi ricordava il pudore di Sandro Penna e di Saba. Dico GRAZIE a Fulvio Tabano, perché ogni tanto rileggo le sue parole lievi, parole che fanno stare bene, parole di luce e sofferenza. raffaella deorsola
(Rispondi)
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