LE TRACCE DELL’ASSENTE IN OZU

Yasujiro Ozu

Un “Deus absconditus”

Nella breve presentazione del mio libro “Il cinema di Rohmer. Un approccio spirituale”[1] che appare su quella che nel gergo editoriale viene detta “quarta di copertina” si parla del mio pormi anche in questo caso sulle orme del Trascendente e alla ricerca delle “tracce dell’Assente”. Non è un caso se le parole Trascendente e Assente siano scritte con la lettera maiuscola. La mia ricerca infatti va oltre una indagine di tipo filosofico o esistenziale ma si pone direttamente su di un piano teologico in cui ad essere indagato e interpellato è il Dio della tradizione biblica anche se ciò può essere meno evidente e solo sottinteso nel caso del libro sul cinema di Yasujiro Ozu (1903-1963)[2]. Il Dio che si è manifestato in maniera totale e ultimativa nel suo Figlio Gesù Cristo (Eb. 1,2) non cessa tuttavia di essere un “Deus absconditus”[3], un Dio nascoso, che spesso a noi  sembra essere avvolto e occultato da una coltre di silenzio e di “assenza”. Da qui quell’esigenza inestinguibile e quell’inquietudine che ci portano a cercarlo senza sosta “andando come a tentoni” (At. 17,27) e a volte non senza affanno come la sposa del Cantico dei cantici cerca l’Amato. Anche solo un segno del suo passaggio, un’orma o una traccia della sua silenziosa e invisibile presenza colmano il nostro cuore di una gioia sublime e indicibile (1Pt. 1,8) ed è per questo che il desiderio che anima la nostra ricerca lungi dall’ estinguersi si riaccende e si accresce man mano che intravediamo qualcuno dei suoi segni.

Ora l’espressione “le tracce dell’assente” in questo caso scritto con la minuscola non è del tutto mia, in quanto l’ho trovata in un testo[4] che cito più volte nel mio libro dedicato al regista giapponese. Il libro di Carlos Martìs Arìs è dedicato ad alcune figure eminenti di artisti del ventesimo secolo nelle cui opere risulta determinante il tema del silenzio che squarcia il tetto dell’immanenza.  Tra loro l’autore inserisce anche Yasujiro Ozu a cui dedica un capitolo, il quinto: “Ozu o le tracce dell’assente”[5]. Si tratta di un brano testuale ricco di spunti metafisici che cerca di penetrare nel significato di una poetica che ha radici profonde spingendosi oltre la realtà fenomenica e  aprendosi sul mistero della trascendenza. Io  ho scelto di fare mia   l’espressione per certi versi misteriosa ed enigmatica “tracce dell’assente” subendone il  fascino affatto particolare, dando tuttavia alle parole un senso più compiuto e definito che  trova il suo contesto vitale di riferimento nell’ambito della rivelazione biblica e cristiana in particolare. Trovo tuttavia di considerevole importanza e significato che tali tracce si possano rinvenire anche nel percorso personale di un grande autore che appartiene ad un mondo culturale che per molti aspetti ci risulta estraneo.

Mu

Lo stile di Ozu

Il regista nipponico  ha tratto dall’ humus della propria tradizione culturale e religiosa i valori spirituali che informano la sua arte che quasi non è comprensibile se si prescinde dalla comprensione del loro apporto. Concetti come “mu”[6], “mono no aware”[7], “omiai”[8], “ie”[9], “devozione filiale[10] sottendono il pensiero del regista e la sua precomprensione della realtà ispirandone profondamente lo stile.  Egli  adotta di fatto un punto di vista “obliquo”, ponendosi come di lato, senza che la sua persona sia al centro e si frapponga tra l’obiettivo e la realtà, il suo non è solo un osservare ma anche un mettersi in ascolto, un ascolto che si fa umile e rispettoso. E’ da tale postura che  gli oggetti e le persone stesse vengono inquadrati dalla macchina da presa, quasi attendendo il momento in cui vivranno un mutamento e una trasformazione che solo a volte si rende più percepibile. E’ a quel momento che lui tiene particolarmente ed è in tal modo che “l’inventario del quotidiano si trasforma dunque in una invocazione spirituale”[11].  La società e la famiglia che ne rappresenta il distillato e anche il microcosmo sono lette attraverso questa lente e il tempo è il fattore saliente attraverso cui tutto viene filtrato.  Nel testo ci sono riflessioni molto dense sullo stile peculiare di Ozu e anche sul significato dei suoi celebri “piani vuoti”, quegli inserti nel flusso narrativo che lo interrompono per qualche secondo. Essi sono abitati da un silenzio che a volte si fa ricettacolo di emozioni e stati d’animo e altre  ne diventa evocatore attraverso oggetti inanimati o ambienti spesso domestici svuotati della presenza umana. Per spiegare meglio ciò che l’autore intende per “tracce dell’assente” nel capitolo  si fa una breve analisi di alcuni brani tratti dalle opere del regista giapponese. Voglio soffermarmi su di uno in particolare  riguardante le sequenze finali di Viaggio a Tokyo (Tokyo Monogatari, 1953). Vi sono rappresentati tre personaggi del film mentre sono soli e pensano.

images

Le sequenze finali di Viaggio a Tokyo

La storia volge al termine e il vecchio Sukichi che ha perso da poco la compagnia della moglie Tomi è  nella sua casa, seduto sul tatami in silenzio davanti alla finestra, lì dove prima amava sedere insieme con lei. Caccia una mosca fastidiosa che gli vola vicino al viso e guarda al di fuori verso il porto di Onomichi e il mare. Tra poco si affaccerà la vicina e la saluterà sorridendole gentilmente come è suo modo. Gesti consueti che si ripetono e fanno pensare a quando con lui c’era Tomi, i gesti sono gli stessi ma allo stesso tempo sono mutati, hanno un sapore diverso. Rimane sospeso nell’aria il  non detto, l’implicito, tutti lo pensiamo guardando questa scena e non sono tanto le parole a manifestarlo, ancora nessuno ha parlato, ne altri elementi che vi siano presenti, a rivelarlo sono le tracce dell’assente[12].

Poi c’è Kioko, la figlia di Sukichi che è maestra e mentre i bambini cantano lei si affaccia alla finestra dell’aula e guardando l’orizzonte pensa. Sa che tra poco vedrà passare il treno per Tokyo su cui è appena salita la cognata Noriko, quel treno le evoca tutto un  passato recente fatto di parole ed emozioni, di  lutti e amarezze, di scoperte e rivelazioni: nulla sarà più come prima. La figura del treno  come è in grado di presentificare una realtà interiore così nella sua corsa porta lontano. Il protagonista è il silenzio e a parlare sono solo le immagini e in sottofondo il coro dei bambini ma le tracce di ciò che è stato (e di un turbamento verso un futuro inconoscibile) si fanno segno e memoria e pur essendo a tutti gli effetti invisibili e impalpabili vengono impercettibilmente trasferite dalla composizione di quella scena con al centro la figura pensosa di Kioko, direttamente al cuore dello spettatore.

L’altro vertice di questo triangolo ideale è rappresentato da Noriko che su quel treno sta lasciando la casa dei suoceri e del marito disperso in guerra per tornare a Tokyo, la città dove lei vive e lavora e che indica il suo futuro. Il treno è immagine del tempo che trascorrendo si lascia dietro paesaggi, città, campagne, in una parola il passato. E insieme alla dimensione temporale “introduce la dolorosa coscienza che tutto si avvia irreversibilmente alla fine”. Noriko osserva l’orologio da taschino che le ha regalato il suocero (ancora un rimando al trascorrere del tempo), era quello che apparteneva alla moglie defunta, non può che commuoversi e piangere pensando a quel dono, all’affetto ricambiato verso Tomi, alla propria travagliata storia matrimoniale, una storia che non vuole lasciarla e che neppure lei vorrebbe lasciare. Ma le parole di Sukichi hanno  sollevato il suo animo da scrupoli insensati, un tempo sta davvero esaurendo il suo corso…   Nel silenzio di uno scompartimento ferroviario l’unico rumore che si avverte è lo stridore meccanico e sordo del treno sulle rotaie. Silenzio imperfetto “in cui si imprimono le tracce dell’assente” [13].

[1] Bersan D., Il cinema di Rohmer. Un approccio spirituale, Polimnia Digital Editions, Sacile (PN) 2024.

[2] Bersan D., Figure del padre in Ozu, Polimnia Digital Editions, Sacile (PN) 2020.

[3] Is. 45,15. Rimando anche alle mie riflessioni a commento del  film “Luci d’inverno”: Bersan D., Dio ridotto al silenzio. Pensieri inattuali su Bergman, Polimnia Digital Editions. Sacile (PN) 2021, pag. 149-153.

[4] Martìs Arìs C., Silenzi eloquenti. Borges, Mies van der Rohe, Ozu, Rothko, Oteiza, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2002.

[5] Op. cit., pag. 58-69.

[6] Concetto buddista che richiama al vuoto, al nulla inteso non nel senso nichilistico proprio dell’Occidente ma come feconda matrice in cui l’io si perde per poi ritrovarsi in un processo di perenne movimento attraverso l’estinzione e la rinascita.

[7] Dolce mestizia che prende l’animo mentre contempla il dileguarsi inarrestabile delle realtà umane.

[8] Si tratta del matrimonio combinato dalle famiglie dei futuri sposi, anche attraverso un mediatore interno o esterno alla famiglia.

[9] E’ la famiglia tradizionale giapponese che ospitava più generazioni e anche altri membri adottati o acquisiti.

[10] E’ uno dei principi cardine della dottrina confuciana.

[11] Op. cit. pag. 63.

[12] Op. cit. pag. 67.

[13] Op. cit. pag. 67. La citazione si riferisce alle parole che nel testo commentano  un altro film di Ozu, “Inizio di primavera” (Soshun, 1956) e riguardano la scena finale in cui i due coniugi momentaneamente riconciliati e lontani da Tokyo, la loro città, osservano in silenzio il treno che lentamente si allontana attraversando quel grigio paesaggio industriale.

Ozu e Yasushi: devozione filiale e smarrimento esistenziale

Albero

… … …
C’è un collegamento tra le pagine di “Ricordi di mia madre” di Inoue Yasushi e i due film di Ozu che scegliamo di considerare: “Tarda primavera” e “Il gusto del sakè”. E’ il tema del rapporto filiale espresso con toni e accenti di un pudore estremo che si equipara solo all’intensita dei sentimenti che allo stesso tempo tace e rivela. E’ anche un’introduzione al modo orientale e in particolare giapponese di dare corpo e voce alle emozioni e ai sentimenti.
Qui ci occupiamo di quelli che scorrono tra figli e padri, nel libro, solo in alcune pagine iniziali, tra un figlio e un padre (il resto del libro è dedicato agli ultimi anni dell’anziana madre), nei due film di Ozu citati, sarà tra una figlia e suo padre.

Ozu non è uno che vuole rimanere alla superficie dei rapporti, come già visto nel suo film del 1942 “C’era un padre” egli vuole arrivare al cuore della relazione, al momento autentico in cui si disvela qualcosa di profondamente umano. Di solito arriva a questo momento attraverso uno o più momenti critici, in cui nell’animo dei personaggi si svolge una crisi che non è eccessivo definire drammatica anche se esternamente pare non succedere quasi nulla. Nel film citato questi momenti potevano essere quei ripetuti distacchi che il bambino deve affrontare rispetto la figura paterna che vede suo malgrado allontanarsi da lui, distacchi che non finiranno con la raggiunta età adulta ma la perdita ineluttabile che generano fa parte della legge della vita che va accettata con serenità lasciandosi colmare di quel sentimento “oceanico” di commozione malinconica e struggente.

Riprendendo il filo che lega la lettura del libro di Yasushi alla visione dei film di Ozu ci accorgiamo che non c’è solo il tema della pietà filiale o comunque di quella partecipazione dei sentimenti e delle complicazioni che ne derivano tra figli e padri ma anche il grande tema della solitudine esistenziale. E’ un tema che troveremo certamente in “Tarda primavera”, dove la scena finale ne è come la quintessenza consegnata alla sublimazione artistica, ma addirittura come prevalente su altri ne “Il gusto del sakè”. Del resto è l’ultimo film di Ozu che morirà l’anno successivo, nel 1963, e il quello stesso anno sarà la sua cara madre ad andarsene, lasciando solo il figlio che con lei viveva nella loro casa di Kamakura.

Nelle pagine di Yasushi c’è il senso di smarrimento che coglie nel momento in cui vengono meno le persone che pur nel loro limite hanno costituito un baluardo di senso e come delle coordinate per navigare nel mare della vita. Il senso di smarrimento indugia nelle riflessioni che l’essere umano da sempre ha coltivato rispetto la fine che tutti ci aspetta e il momento della morte.

Yasushi dice che la morte del padre e il progressivo decadimento mentale della madre gli hanno aperto davanti lo scenario della morte che prima era come velato da un sipario che era la stessa esistenza dei propri genitori. Del padre egli dice “non mi ero prima mai accorto che con il suo vivere mi aveva protetto”, e da che cosa lo aveva protetto se non dal pensiero della morte, della fine di tutte le cose. Era lui infatti in prima linea e questo è il compito di un padre rispetto un figlio, il suo primo compito: proteggerlo dalla morte.

Il tema dello smarrimento di fronte al mistero della vita e della morte è affrontato anche da Ozu che lo coglie nell’atteggiamento del padre che alla fine rimane solo, lui che non ha fatto niente per evitare di rimanere solo, altrimenti avrebbe per egoismo rovinato la vita anche di sua figlia. Il suo agire onestamente per il bene degli altri della famiglia lo consegna di nuovo al suo destino di solitudine. Ma ciò non produce in lui cupa disperazione o una rabbia malcelata perché ciò che alla fine egli vive è una sorta di tristezza che lo congiunge con una malinconia cosmica che è anche dolcezza e movimento calmo.

Ciò che contempliamo soprattutto nelle scene finali di “Tarda primavera” ma anche de “Il gusto del sakè” è piuttosto l’accettazione serena anche se attraversata da momenti di dolore e di sconforto di ciò che non può non accadere: il prendere la propria strada da parte della figlia che lascia un vuoto incolmabile nella casa e un senso di disgregazione e sfaldamento nella famiglia. E’ l’accettazione pacificata di quello che deve compiersi che come è nato alle stagioni della vita così ora deve seguirne il corso ed essere consegnato al suo destino di maturazione e consumazione. Certo si tratta della fine di un percorso, dell’estinguersi di un ciclo naturale, dell’ ineluttabilità di un morire. Ma tutto ciò è tuttavia nell’ordine stesso delle cose che nel loro ciclico morire e rinascere è come fossero governate e custodite da un cuore pulsante di senso.

Nuova edizione a stampa di “Figure del padre in Ozu”

Figure

Il mio primo libro sul regista giapponese Yasujiro Ozu, “Figure del padre in Ozu” (Polimnia Digital Editions) uscito nel febbraio 2020 in formato e-book ora nella sua nuova edizione è disponibile anche in formato cartaceo attraverso la modalità on demand presso i più diffusi store presenti in rete (Amazon, Ibs, Fnac, ecc.). Il fatto  che sia giunto alla pubblicazione proprio in questi giorni mi fa pensare ad un bellissimo regalo di Natale che mi da molta gioia. Il libro si presenta con un formato rinnovato sia nella copertina che nella grafica interna ed è arricchito da una prefazione inedita di cui presento qui di seguito un brano in anteprima.

Spero che sia di stimolo a qualcuno che già apprezza Ozu o è semplicemente incuriosito da questo regista di cui  proprio in questi giorni sono apparsi nelle sale alcuni dei suoi capolavori restaurati, trovandovi ora la possibilità di leggerlo nel modo più classico, tenendolo nelle proprie mani o a disposizione sul comodino come un oggetto a cui si tiene particolarmente oppure da regalare a qualcuno che condivide il nostro amore per il cinema.

 

Dalla Prefazione del libro “Figure del padre in Ozu” di Davide Bersan 

Sono state varie le ragioni che mi hanno portato a scrivere il mio primo libro “Figure del padre in Ozu” e questa poliedricità può sorprendere non sempre in maniera positiva qualcuno che leggendolo si aspettasse un libro che parla solo il linguaggio del cinema attraverso l’opera del grande regista Yasujiro Ozu oppure che tratta esclusivamente di cultura giapponese o meglio di Giappone (oggi tanto di moda) o ancora chi vi cercasse una riflessione approfondita sulla figura del padre. Ebbene credo che nel libro vi si trovino almeno in una certa misura tutte queste cose ma ciò che può spiazzare il lettore è forse il fatto di non capire bene quale punto di vista emerga sugli altri. In realtà credo che il libro si presti ad essere approcciato da vari punti che possono essere diversi  in base agli interessi e alle preferenze di ognuno.

Per quanto mi riguarda sento di riaffermare che l’incontro con il regista giapponese ha rappresentato una scoperta entusiasmante che non potevo ne volevo lasciar cadere nelle retrovie della memoria e ha inaspettatamente mobilitato in me energie e risorse che poi si sono coagulate intorno a dei progetti concreti come gli incontri nelle biblioteche e nelle altre agenzie culturali. Si è trattato in un certo senso anche della riscoperta dell’amore per il cinema, almeno in un modo più consapevole, amore che mi portavo dentro fin da bambino, almeno da quando andavo tutte le settimane al cinema della parrocchia accompagnato da mia madre, oppure vedevo alla televisione insieme ai miei familiari film che ancora adesso ricordo e amo.  Il libro è venuto dopo tale benefica riscoperta, perché nel frattempo, cioè nel corso di quegli anni in cui raccoglievo notazioni e appunti mi ero accorto di trovare piacere nella scrittura, come se essa si stesse rivelando la manifestazione e la concretizzazione di una esigenza profonda e intima di comunicare ed esprimere pensieri e stati d’animo altrimenti destinati a rimanere muti. A pensarci bene tutto ha coinciso nel determinare una certa svolta nella mia vita, non solo interiore.

 Mi accorgevo non senza un senso di meraviglia e di stupore che Ozu attraverso i suoi film portava a dei livelli elevati di espressione artistica temi che attraversavano il mio vissuto e da molto tempo stavo elaborando. Il regista li proponeva attraverso il suo stile mite e gentile sottraendoli ai canoni consolidati  di un registro di tipo drammatico e tragico oppure conflittuale e violento. La realtà delle sue storie di gente comune (Shomingeki) veniva sempre ricondotta nel corso del racconto ad una ricomposizione delle inevitabili crisi che colpivano e mettevano in discussione gli equilibri della famiglia, vera protagonista dei film di Ozu. La ricerca dell’armonia rimaneva come il filo invisibile che teneva insieme le  narrazioni offrendo refrigerio e pace anche alle gole più assetate e alle membra più stanche.

Due incontri sul cinema di Orson Welles

 

Il 23 e il 24 gennaio 2024 la biblioteca Crescenzago ospiterà due nuovi incontri sul cinema curati da Davide Bersan che questa volta sono dedicati ad un  film certamente molto noto non solo agli appassionati del genere poliziesco e noir. L’infernale Quinlan (The touch of evil, 1958) è uno dei film più importanti del regista americano Orson Welles e segna il suo ritorno a Hollywood  dopo molti anni di peregrinazioni in Europa. Al momento della sua uscita nelle sale  non sortirà il successo sperato almeno negli Stati Uniti. E’ stato riscoperto negli anni successivi come una pietra miliare dell’arte cinematografica e oggi da molti è considerato un cult.

Il film è un noir ambientato in una poco raccomandabile città di confine tra States e Messico infestata da loschi criminali e da trafficanti di droga, dove si respira un clima malsano, cupo, opprimente. Le scene sono per lo più notturne e sono girate con magistrali effetti tecnici: dai suggestivi chiaroscuri della fotografia in bianco e nero alle inquadrature dal basso e i celebri piani sequenza. I ritmi sono incalzanti e non lasciano tregua allo spettatore. Mentre la vicenda si snoda attraverso un intreccio che viene reso anche dall’efficace montaggio alternato delle sequenze ci   si inoltra progressivamente nel fitto delle tenebre del cuore umano come avviene in  un dramma di Shakespeare, autore per altro molto amato e conosciuto dal regista fin dalla sua tenera età.  Si tratta di un dramma dal sapore tragico in cui la lotta  tra il bene e il male e tra il giusto e l’iniquo si combatte in primis nella  coscienza dei protagonisti. 

 

 Gli incontri si svolgeranno presso la biblioteca Crescenzago (fermata Cimiano della Metropolitana) alle h. 17.30 di martedi 23 e mercoledi 24 gennaio. Sarà lasciato del tempo per la conversazione con i presenti guidata dal curatore degli incontri.

DUE INCONTRI SUL CINEMA DI ALFRED HITCHCOCK

Biblioteca Crescenzago

DUE INCONTRI SUL CINEMA DI ALFRED HITCHCOCK

A cura di Davide Bersan

 

Ci accostiamo al cinema del celebre regista inglese Alfred Hitchcock attraverso l’analisi di uno dei suoi film più noti al grande pubblico: “Gli uccelli” (1963). L’Opera, distopica e visionaria, non è facilmente catalogabile nella serie dei film di genere “horror” in quanto apre a svariate riflessioni e approfondimenti. Snobbata dalla critica (ma non dal pubblico) alla sua uscita nelle sale, viene in seguito rivalutata come uno dei suoi massimi capolavori. Sarà dato spazio agli interventi dei presenti e alla conversazione guidata.

 

Giovedì 16 febbraio, ore 18.00 Venerdì 17 febbraio, ore 18.00

Ingresso libero con prenotazione ai contatti della biblioteca

 

Biblioteca Crescenzago viale Don Orione 19 | Municipio 2 0288465808 | c.bibliocrescenzago@comune.milano.it milano.biblioteche.it

INTERVISTA : RISCOPRIAMO OZU E I PRIMI SUCCESSI DI BERGMAN

Riportiamo l’intervista a Davide Bersan curata da Alberto Rossi apparsa sul social magazin  Blasting News Italia (it.blastingnews.com   https://it.blastingnews.com). La riprendiamo dalla sezione cultura e spettacoli del  sito e ringraziamo la redazione.

Davide Bersan, autore dei saggi su Ozu e Bergman, durante un incontro nella Biblioteca Crescenzago di Milano.
Davide Bersan, autore dei saggi su Ozu e Bergman, durante un incontro nella Biblioteca Crescenzago di Milano.

L’autore Bersan in un’intervista esclusiva a Blasting News spiega: ‘Ozu e Bergman aiutano a sviluppare una spiritualità’

di Alberto Rossi
—   —   —

Davide Bersan è un autore di saggi sui registi cinematografici Yasujirō Ozu e Ingmar Bergman. Veronese di nascita, ma milanese d’adozione, interviene spesso come relatore a iniziative culturali promosse dalle biblioteche comunali di Milano “Crescenzago” e “Lambrate”. Bersan è anche in possesso di una licenza in teologia spirituale presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma.

In questa intervista rilasciata in esclusiva a Blasting News, Bersan parla delle proprie opere e dei suoi progetti futuri.

L’intervista

Quali sono i motivi che l’hanno spinta a realizzare queste opere?

“L’obiettivo di fondo è quello di riscoprire Ozu e i primi successi di Bergman. Infatti Ozu e Bergman ci portano a fare riflessioni serie e profonde sulla vita e sulla morte aiutandoci a sviluppare una spiritualità. Affrontano temi e inviano messaggi ritenuti attualmente non di moda o problematici, ma che a mio modo di vedere andrebbero invece riscoperti e approfonditi”.

Parliamo del saggio del 2020 “Figure del padre in Ozu”. Come le è venuta l’ispirazione per scriverlo?Di cosa tratta e come è strutturato il libro?

“E’ un’elaborazione che parte dal mio vissuto. Può considerarsi il frutto di alcuni anni di ricerche e di discussioni anche pubbliche (penso ai per me stimolanti e arricchenti incontri realizzati nelle biblioteche) sui film di Ozu.

Il regista giapponese, molto sensibile a tutto ciò che si muoveva nella società del suo tempo, avvertiva come la secolarizzazione stesse mettendo in crisi tutti i valori della tradizione e che di questo processo in atto fosse la famiglia la prima a soffrirne. Il libro ripercorre queste trasformazioni attraverso le opere dell’autore nelle quali, oltre a farsi largo il concetto di “Mono no aware” (ossia l’idea di vivere il cambiamento, il fluire e il morire delle cose con serena rassegnazione confidando in una rinascita, in un rinnovamento), la figura del padre riveste un ruolo di primo piano”.

Ci può parlare della sua seconda opera, nella quale il tema del Trascendente, presente in sottofondo nella cinematografia di Ozu, prende invece decisamente il centro della scena nella produzione di Ingmar Bergman che va dalla metà degli anni ‘50 agli inizi del ‘60 del secolo scorso?

“Nel mio secondo saggio del settembre del 2021 intitolato “Dio ridotto al silenzio – Pensieri inattuali su Bergman” ripercorro proprio questo periodo, nel corso del quale il regista svedese, figlio di un pastore protestante, concentra gran parte dei suoi sforzi su questa tematica.

Questa stagione bergmaniana, improntata sulla riflessione teologica, mi è sembrata più trascurata o comunque meno analizzata rispetto a quelle posteriori. Le domande sul senso della vita, sulla morte e sulla fede non mancano anche oggi, però vengono soffocate da un clima culturale che tende a svalutarle”.

Che cosa può dirci in merito agli stili adottati da questi due registi?

“Le differenze sotto questo punto di vista sono evidenti. Ozu sembra abbracciare uno stile impressionista stimolando delicatamente sentimenti ed emozioni, quasi nascondendosi dietro la macchina da presa. Quest’ultima, tenuta bassa, pare accogliere lo spettatore nella scena rendendolo partecipe di conversazioni semplici che ruotano sempre attorno a un punto centrale per l’autore.

Bergman, palesandosi con forza, s’identifica genialmente con quello espressionista. Il grande maestro svedese entra in maniera diretta nelle situazioni coinvolgendoci in modo profondo e autentico nel suo vissuto”.

Progetti per il futuro?

“Non ho ancora ben chiaro cosa ne verrà fuori, ma sto vedendo le opere di Eric Rohmer, un autore che per certi versi assomiglia molto a Ozu. Mi riferisco non solo alla semplicità dello stile, ma anche delle storie analizzabili sotto diversi livelli”.

BIBLIOTECA VALVASSORI PERONI: NUOVI INCONTRI SUL CINEMA DI BERGMAN

MARTEDI 25 E MERCOLEDI 26 OTTOBRE AVRANNO LUOGO DUE NUOVI INCONTRI PER ACCOSTARSI AL CINEMA DI INGMAR BERGMAN PRESSO LA BIBLIOTECA DI LAMBRATE.

Via Valvassori Peroni, 56 Milano

c.bibliovalvassori@comune.milano.it

Un’analisi in due puntate del film premio Oscar del 1960, La fontana della vergine. Nel periodo in cui è uscito il film, il regista era attratto dal tema religioso. L’opera infatti esplora i rapporti tra una religiosità pagana residuale e un cristianesimo che si sta affermando in un mondo medioevale ricostruito a partire da un’antica ballata. Una fanciulla, per adempiere ad un voto, deve attraversare un bosco…  Il film è carico di simbolismi e riesce a mantenere la tensione drammatica a livelli altissimi, trovando alla fine una propria soluzione narrativa.

 

 

GLI INCONTRI INIZIERANNO ALLE ORE 17.30 (CHI NON RIESCE PER QUELL’ORA PUO’ AGGREGARSI PIU’ TARDI). E’ NECESSARIA LA PRENOTAZIONE DA FARE SUL SITO DELLA BIBLIOTECA. E’ POSSIBILE FARLO ANCHE TELEFONANDO AL NUMERO 02 88465095.

A cura di Davide Bersan

DUE INCONTRI SU BERGMAN PRESSO LA BIBLIOTECA DI LAMBRATE

GIOVEDI 19 E GIOVEDI 26 MAGGIO AVRANNO LUOGO DUE INCONTRI PER ACCOSTARSI AL CINEMA DI INGMAR BERGMAN PRESSO LA BIBLIOTECA VALVASSORI PERONI DI LAMBRATE.

GLI INCONTRI SARANNO ALLE ORE 18 E OCCORRE LA PRENOTAZIONE DA FARE SUL SITO DELLA BIBLIOTECA. E’ POSSIBILE ANCHE TELEFONARE  AL NUMERO 0288465095.

A cura di Davide Bersan

Nel film Spasimo (Hets di Alf Sjoberg, 1944) un professore di liceo terrorizza sadicamente la sua classe di studenti prima dell’esame finale. Nato da uno scritto giovanile di Bergman, autore anche della sceneggiatura, è il suo primo film in assoluto.
Vi ritroviamo abbozzati molti dei temi che egli svilupperà in seguito, come la critica alle istituzioni della società borghese, le suggestioni autobiografiche, la rappresentazione della malattia mentale, ecc.
Ci serviremo di alcune sequenze di Spasimo per accostarci al cinema del grande regista svedese.
Sarà dedicato del tempo agli interventi del pubblico e alla conversazione guidata.

Davide Bersan, appassionato di cinema d’autore, ha curato vari incontri sul regista giapponese Yasujiro Ozu e alcuni su Ingmar Bergman. Ha pubblicato con Polimnia Digital Editions l’e-book Figure del padre in Ozu (2020) e recentemente Dio ridotto al silenzio. Pensieri inattuali su Bergman” (2021).

 

Ti aspettiamo per due incontri, giovedì 19 e giovedì 26 maggio alle ore 18:00

Via Valvassori Peroni,  56  Milano

tel. 0288465095

c.bibliovalvassori@comune.milano.it