NUOVA PUBBLICAZIONE

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La critica recente, figlia dei nostri giorni,  pare stia tralasciando se non dimenticando del tutto quel messaggio unico e sconvolgente  che il regista  Ingmar Bergman seppe imporre sulla scena culturale e cinematografica dalla metà degli anni 50 ai primi anni 60 del secolo scorso. Si tratta di un’interrogazione acuta, dolorosa, incandescente rivolta al silenzio di Dio. Forse mai nessuno, almeno nel mondo del cinema aveva osato spingersi così avanti nel mettere il Trascendente al centro della scena a partire da una propria domanda interiore che nei film del periodo avvertiamo vivida e lacerante mentre viene assunta e rappresentata nei personaggi che vi si susseguono. Bergman non faceva mistero di esserci lui dietro il cavaliere Antonius Block de Il settimo sigillo o dietro il professor Isac Borg de Il posto delle fragole e così via. La sua ricerca angosciata, i suoi dubbi, le sue domande assumevano la forma di  un’eco che dalle sale cinematografiche svedesi si diffondeva nella società facendosi fervente dibattito culturale che ampliandosi  a cerchi concentrici raggiungeva gli altri paesi d’Europa e  altri continenti. Ripercorriamo questa stagione irripetibile mantenendo uno sguardo anche al nostro tempo.

 

 

Davide Bersan è nato in provincia di Verona e da molti anni vive e lavora a Milano. Ha svolto studi teologici conseguendo la licenza in teologia spirituale presso la pontificia università Gregoriana di Roma. Da molto tempo lavora nel campo delle cure psichiatriche.  Negli ultimi anni i suoi interessi si sono rivolti ad approfondire  argomenti di spiritualità, psicanalisi e  cinema. Con Polimnia ha pubblicato  Figure del padre in Ozu, uscito a febbraio 2020. Gestisce un blog (https://blog.libero.it/wp/cinemadiozu/) in cui pubblica alcuni dei suoi interventi e altri contributi.

Pellegrinaggio a Koya

Pellegrinaggio a Koya” è una poesia che il regista giapponese Ozu Yashujiro ha scritto subito dopo la morte della madre. Egli a proposito di questo suo componimento diceva che era   “come una ninna nanna per le persone anziane”. Ozu aveva circa 62 anni e sarebbe deceduto l’anno successivo nel dicembre del 1963. Aveva trattato in tanti suoi film e lungo tutto il corso della sua lunga carriera di storie di famiglie povere e benestanti, di matrimoni e rapporti coniugali, di relazioni tra le diverse generazioni in epoche travagliate da profondi mutamenti. Lui, profondo scrutatore delle dinamiche familiari e coniugali aveva trascorso da scapolo la sua vita, accanto alla madre. PELLEGRINAGGIO A KOYA

Per spargere le ceneri di mia madre eravamo giunti sul monte Koya.
Fiocchi di neve nel vento scendevano dal limpido cielo blu sui cedri torreggianti.
I raggi del tramonto illuminavano attraverso gli alberi
le pietre tombali coperte di muschio degli antichi ministri e reggenti.

La candela di una povera donna luccicava nel padiglione interno.
Ancora una volta il fumo degli incensi saliva in spirali dense tra le tardive foglie degli aceri.
Benchè io non sia Ishidomaru la brevità della vita umana,
che galleggia come una bolla sull’acqua, mi opprimeva nel mio assorto stordimento.

Ma i miei pensieri presto scivolarono sugli alloggi per la notte e sul cibo;
eccomi desideroso di mangiare, di bere: non c’era scopo nell’attardarsi.
Scesi dal monte Koya con fretta poco rispettosa.
Qua e là i lampi incendiavano a intermittenza la vita mentre il tramonto scendeva nel monastero.

Sull’altare, lasciato alle spalle, una piccola urna.
Dentro di essa le ceneri di mia madre. Deve sentire molto freddo là dentro.

 

Frammento del documentario (inedito in Italia) di Kazuo Inoue “Ikite wa mita keredo – Ozu Yashujiro den” Giappone 1983 (You tube)

Personaggi sacri e personaggi profani

Riprendiamo un brano dal libro Figure del padre in Ozu tratto dal capitolo dedicato al film Viaggio a Tokyo.Desidero riprendere e sviluppare ulteriormente un’idea abbozzata dal regista Kiju Yoshida nel suo libro L’anti-cinema di Ozu. Egli è il  rappresentante di una generazione di giovani registi successiva a Ozu che si contraddistingueva per lo spirito ribelle e anticonvenzionale, la cosidetta “nouvelle vague” giapponese che metteva radicalmente  in discussione quelli che erano stati i canoni rappresentativi del cinema fino a quel momento. Ebbene    nel suo libro dedicato a Ozu, nel capitolo in cui prende in considerazione Tokyo monogatari, Yoshida distingue tra i personaggi  “sacri” e quelli “profani” del racconto. In realtà ci sono anche quelli che stanno in mezzo e si avvicinano a volte maggiormente ai sacri e a volte di più ai profani. Kioko è la più vicina ai personaggi sacri di Shukichi, Tomi e Noriko. Il figlio minore Keizo sembra stare dalla parte dei profani Shige e Koichi ma ha degli slanci che lo collocano vicino ai sacri, per poi subito allontanarsene. Così il genero, marito di Shige e la nuora moglie di Koichi non sono totalmente indifferenti alla sacralità dei primi ma oscillano da una parte all’altra. I nipoti invece, nel loro seguire la spontaneità degli istinti, si mettono dalla parte dei profani. I sacri si mescolano ai profani e condividono argomenti e discussioni ma non i toni e i modi, ed è solo quando sono soli tra di loro che  esprimono al meglio la loro sacralità, i loro visi sono distesi e sorridenti, c’è una specie di radiosità che li accompagna e li accomuna e il loro colloquiare arriva  a toccare l’intimità senza bisogno di moltiplicare le parole. La loro interiorità è lì a portata di mano e si rivela nei sottintesi e soprattutto nel non detto, nel taciuto, nelle sottilissime espressioni del volto e dei gesti per lo più inconsapevoli.

Quando sono insieme agli altri, i personaggi sacri, spesso succede che vengano eclissati e che non si notino affatto. Il farsi avanti nella discussione di chi è più “profano” li fa passare in secondo piano. A volte sono  presi  in giro e ridicolizzati, anche se non proprio malevolmente e il loro stare al gioco e sorridere, magari un poco forzatamente è finalizzato al non voler deludere gli altri e rovinare  così un momento di distensione e armonia familiare. Altre volte subiscono di buon grado la prepotenza e l’asprezza dei profani che mettono a dura prova una mitezza che non è una recita ma una loro caratteristica, una loro scelta di vita. Quando si incontrano queste persone, abbastanza di rado, si ha l’impressione di aver incontrato delle presenze non proprio di questo mondo, ci viene addirittura il sospetto che siano presenze angeliche. La loro discrezione e il pudore rispettoso con cui si relazionano ce li rende attraenti e simpatici e pur nutrendo un po’ di diffidenza e di invidia nei loro confronti non possiamo fare a meno di sorridere loro e di godere della loro compagnia.

Sono persone che camminano in punta di piedi, quasi in silenzio, mentre tutti gli altri corrono, saltano e fanno fracasso.  Per questo ci suscitano tenerezza ma anche inquietudine. Ci sentiamo sollecitati ad interrogarci: perché sono così diversi dagli altri eppure così simili a noi? Allora proviamo a stuzzicarli per vedere se è proprio vero, se sono davvero così miti e buoni come sembrano, non siamo contenti  finché quella che consideriamo la loro maschera non sia caduta rovinosamente a terra. Di fatto succederà così anche per Shukici, Tomi e Noriko.  Shukichi toccherà il fondo durante la sua notte brava in cui, lasciandosi andare come ai tempi passati, si abbandonerà ai piaceri di una solenne bevuta in compagnia di due vecchi amici.  I freni inibitori saltano e i tre non più giovani compagni  daranno sfogo ai pensieri inespressi e a disagi e delusioni inconfessabili verso  i  loro figli. Noriko crollerà invece nel corso del suo ultimo colloquio col suocero quando gli confesserà ciò che non era riuscita a dire a Tomi: “Ci sono interi giorni che non penso per nulla al mio marito defunto… non sono buona come sembro”.  Tomi manifestando i segni della fragilità senile si prepara invece a congedarsi con discrezione da questo mondo. Abbiamo quindi la prova che sono umani, sono proprio come noi.

Tomi effettivamente è circondata da segni e sottili coincidenze che presagiscono per lei un destino particolare che ce la fa sentire ancora più “sacra”. Nel suo umanissimo farsi strada tra le limitazioni che le derivano sia dall’età che da un corpo appesantito dal sovrappeso,  va incontro alla frettolosa  freddezza dei figli con il suo passo delicato e lento e il suo colloquiare dolce. Sono indizi che rimandano a un suo essere presente senza la presunzione di occupare per sempre quel posto, un esserci provvisorio e precario, un gioire del momento  come  un regalo di cui poter  godere oggi,  perché domani non si sa.

Tomi incede davvero in punta di piedi e parla sottovoce. Infatti pochi la ascoltano, tanto meno i piccoli nipoti. Forse perché lei, nella sua sacralità, è più consapevole  degli altri? Forse perché vedere un po’ più lontano vuol dire svuotare di importanza il presente?  E privarlo di quella supponenza che lo rende pesante e tirannico seppur  attrattivo per chi è totalmente immerso nella realtà contingente?  Di fatto Tomi ha i giorni contati su questa terra  e nel film già sin dall’inizio si prepara la sua dipartita rendendo la sua presenza anche se grassa e ingombrante, la più spirituale, anche se di una spiritualità che accresce  in un certo senso la sua concretezza. Così dopo che Tomi sarà morta e si sarà spenta  la vitalità del suo corpo fisico qualche cosa di lei rimarrà tra le pareti di quella casa.

 

 

“Figure del padre in Ozu” di Davide Bersan

e-bookNel sito The Living Stone, che ringrazio,  è uscita la mia  presentazione del libro di Davide Bersan “Figure del padre in Ozu” (Polimnia Digital Editions, Sacile 2020, ISBN: 978-88-99193-79-9)

“L’obiettivo del regista si focalizza fin quasi da subito sulla famiglia giapponese che viene seguita nel corso di più di tre decenni nelle sue mutazioni a volte più lente e a volte improvvise e travolgenti. La figura del padre è indubbiamente in primo piano e risalta in quasi tutti i suoi film. La scelta del libro è di seguirne le definizioni e le trasformazioni attraverso le opere dell’autore a partire dai film più vecchi fino agli ultimi”.

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di Davide Bersan

Il libro è un itinerario dentro il cinema di Yasujiro Ozu, regista giapponese nato nel 1903 a Fukagawa, sobborgo popolare di Tokyo e morto nel 1963 lo stesso giorno del suo compleanno, il 12 dicembre. Il suo primo film è del 1927, l’ultimo del 1962: Il gusto del saké. Egli è considerato un maestro del cinema per il suo modo peculiare e geniale di saper utilizzare la mdp. Il suo stile passa progressivamente da un cinema di imitazione – i film americani appassionavano il giovane Yasujiro che ne traeva ispirazione particolarmente per i suoi lavori dei primi anni trenta che esploravano i generi slapstick, noir, gangster, storie di studenti, ecc. – a uno più personale e originale. Si tratta di uno stile sempre più sfrondato dai numerosi espedienti tecnici appresi e sempre più ispirato a un rigore formale ed espressivo basato su criteri di sobrietà ed essenzialità, basti citare ad esempio la fissità della mdp e la scelta di mantenerla ad un’altezza più bassa, l’altezza di una persona seduta sui tatami o quella di un bambino. Ma non si trattava solo di decisioni che riguardavano alcuni procedimenti tecnici. Esse esprimevano una propria personale visione del mondo ispirata alla tradizione filosofica e spirituale del buddismo zen in cui concetti come mu (vacuità, assenza) e mu-jo (impermanenza) costituivano dei principi cardine. I film di Ozu hanno costituito e rappresentato tale sua visione del mondo. Egli a partire dai primi anni trenta, penso a Il coro di Tokyo (1931), fa anche propria la cifra di una delicata e toccante umanità nel descrivere le sue storie della gente comune (Shomingeki). E’ un genere che certamente Ozu non inventa e trova come già frequentato da altri, ma che a suo modo reinterpreta e traduce attraverso la sua levità particolare, il suo sguardo distaccato, obiettivo, che lascia emergere la realtà così come essa si presenta.

Dallo Shomingeki Ozu non si è mai allontanato descrivendo le classi sociali più umili nei film degli anni venti e trenta per passare alla classe media nei film degli anni ’40 e del dopoguerra. All’interno di questo genere di cinema contemporaneo l’obiettivo del regista si focalizza fin quasi da subito sulla famiglia giapponese che viene seguita nel corso di più di tre decenni nelle sue mutazioni a volte più lente e a volte improvvise e travolgenti.

La figura del padre è indubbiamente in primo piano e risalta in quasi tutti i suoi film. La scelta del libro è di seguirne le definizioni e le trasformazioni attraverso le opere dell’autore a partire dai film più vecchi fino agli ultimi. Come spiego nell’introduzione al libro, nel corso degli ultimi anni ho curato vari incontri pubblici in cui i film di Ozu sono stati visti e discussi presso la biblioteca comunale della mia città. Di tale lavoro di analisi filmica condivisa ho mantenuto ed elaborato alcune riflessioni che considero interessanti e che riguardano la figura paterna prendendo spunto anche dagli studi di alcuni autori di psicanalisi. Tra questi in particolare non posso ora non ricordare l’amico Giancarlo Ricci, recentemente scomparso, che ha partecipato a molti di questi eventi dando sempre con la sua consueta umiltà nelle vesti di un anonimo partecipante, il suo contributo profondo e prezioso. Da questo punto di vista il libro è anche un tentativo di approfondimento sul tema del padre che raggiunge la contemporaneità e il nostro contesto culturale attraverso lo specchio di una civiltà “altra” e lontana oltre che di una fase storica che ci ha preceduti.

Il primo capitolo è dedicato agli anni del muto e il padre si caratterizza per la sua lotta quotidiana volta a garantire la sussistenza materiale della propria famiglia. E’ un padre limitato e difettoso ma anche sensibile e umano. Egli subisce le recriminazioni e a volte i rimproveri dei figli che non si rendono ancora conto di quanto il discorso sociale imponga le sue leggi aspre e dure a cui il genitore deve soggiacere, a volte patendo umiliazioni nella sua dignità pur di mantenere il suo posto di lavoro: Il coro di Tokyo (1931), Sono nato, ma…(1932). In alcune opere di questo periodo il padre è un perdente dal punto di vista sociale (disoccupato, attore ambulante fallito, perdigiorno alcolizzato…) ma conserva comunque un candore particolare che si rivela per lo più quando entrano in gioco i suoi sentimenti paterni. padre del periodo bellico è una figura che spicca per la sua caratura morale da cui promana una certa gravità e austerità che però non annullano il suo lato umano e affettivo. Egli segnala i valori a cui riferirsi e che ritrova nella tradizione degli antichi. Il contesto culturale è segnato profondamente dal confucianesimo di cui uno dei principi cardine è la pietà filiale. Il padre và onorato e occorre riconoscere il debito che nascendo si contrae nei suoi confronti. D’altra parte il padre – ma anche la madre: Figlio unico (1936) – si sacrifica per il figlio, esercita un lavoro ingrato con poche soddisfazioni, costretto a vivere a una grande distanza da lui, per permettergli di studiare. Egli si rivela come un autentico eroe del quotidiano, assolvendo con dignità e umiltà il suo compito di ogni giorno solo per poter vedere un giorno il figlio felice di aver trovato a sua volta la sua strada. La gioia del padre si alimenta e si riflette in quella futura del figlio. Illuminanti a tale proposito sono le parole del protagonista di C’era un padre (1942), Horikawa, che prima di morire dice al figlio Ryohei: “Fai sempre del tuo meglio, come tuo padre che ha fatto tutto quello che ha potuto… Sono felice! Ho tanto sonno…”.

Il padre del dopoguerra è invece una figura più complessa che si incarica di fare da ponte e da mediatore tra ciò che è del passato e merita di rimanere e ciò che sembra essere il futuro nel bene e nel male, come promessa o come incombenza. Il Giappone è un paese che esce sconfitto e umiliato dal conflitto bellico, ora è occupato militarmente da una potenza straniera che impone anche i suoi modelli culturali. Modelli che progressivamente vengono adottati dalla popolazione e soprattutto dalle giovani generazioni. Di ciò risente e patisce in primis l’istituzione familiare tradizionale. La grande famiglia (ie) si sfalda e sul modello occidentale diventa famiglia nucleare. L’azienda e i rapporti con i colleghi vengono a prendere il posto in una certa misura, della famiglia stessa, parassitandone l’offerta di un’appartenenza a un corpo sociale, istanza a cui l’uomo giapponese è molto sensibile. La conseguenza di questo è che i padri rimangono la maggior parte del tempo lontani da casa e dai figli.

Il padre dei primi film di Ozu del dopoguerra è una presenza equilibrata e rassicurante, è sempre un uomo dedito al suo lavoro e custode dei valori della tradizione che però non può esimersi dal confrontarsi con un cambiamento che si fa ineluttabile. Cambiamento dovuto ai tempi, certo, ma anche al trascorrere della vita stessa, delle scelte che devono essere fatte, che i figli devono fare per trovare il loro posto nel mondo. Si tratta prima che di un cambiamento culturale e sociale che tuttavia fa da sfondo, e che in certi film pare prevalere, di un cambiamento insito nelle leggi universali che reggono la natura, la vita degli esseri viventi. I figli (e le figlie) un giorno quando saranno cresciuti prenderanno la loro strada, si sposeranno, si allontaneranno dal nido familiare, è inevitabile… Una sensazione di perdita e di solitudine si fa presente. Ma non è così solo per l’allontanamento dei figli ma anche per quel processo inesorabile che accompagna l’esistenza di ogni realtà creata che ha necessariamente un inizio, un fiorire, una maturazione e una fine. Il sentimento estetico e spirituale che l’uomo giapponese prova dinanzi a tale provvisorietà (mu-jo) anche delle cose più belle e sublimi, che miscela l’accettazione serena e una dolce tristezza è quell’atteggiamento contemplativo che la tradizione zen chiama mono no aware. I padri di Tarda primavera (1949), di Inizio d’estate (1951) ma anche di Viaggio a Tokyo (1953) vivono ed esprimono questa profonda spiritualità che riflette senz’altro quella del regista che in loro trova degli alter-ego in cui rispecchiarsi. Ma negli ultimi film e in particolare nell’ultimo, Il gusto del sakè (1962) pare di cogliere qualcosa di più di un raffinato atteggiamento estetico. Cogliamo un aspetto tragico in cui si accampa il dolore del padre, una faglia di dolore che non può e non vuole placarsi. Dentro una realtà sociale in radicale cambiamento in cui la preziosa eredità degli affetti familiari viene minata fin nelle sue fondamenta vi è una dimensione che si radica su di un piano più metafisico e universale e che riguarda le leggi eterne della vita e della morte, pare dirci Yasujiro Ozu. sono solo le potenti trasformazioni della società giapponese a porre il padre dentro un’esperienza continua di perdita e di lutto, è qualcosa di più profondo. Non è nemmeno il venir meno dei legami più intimi, dell’allontanarsi delle persone a cui si è più affezionati, come era avvenuto per l’anziano padre Somiya dopo il matrimonio tardivo della figlia Noriko in Tarda primavera. Qui si coglie qualcosa che riguarda il senso della trascendenza. Il padre ne è il silenzioso testimone, non può non esserlo dato che è proprio questo il suo compito. Egli dal suo silenzio si fa indicatore di un Oltre. Un compito altamente nobile e spirituale che lo pone sulla breccia. Un mondo sta morendo, forse un altro sta per nascere e lui è solo, sulla breccia. Non è un eroe, neppure un eroe del quotidiano come Horikawa, non lo è più, ora il suo avanzare tra i corridoi è fiaccato e reso instabile dal troppo sakè… ma è il suo sguardo ad essere lucido, egli guarda in faccia la fine e il dopo, la morte e l’Altrove, egli è una sentinella che non si stanca di fissare l’orizzonte e di scrutare il sentiero dove sono impresse le tracce dell’Assente.

PER CHI DESIDERA RICEVERE UNA COPIA CARTACEA DELL’E-BOOK DI DAVIDE BERSAN PUO’ INVIARE UNA MAIL A:

PAROLEDICINEMA@LIBERO.IT

Per ricordare Giancarlo Ricci

“Sappiamo infatti che, quando sarà distrutta la nostra dimora terrena, che è come una tenda, riceveremo da Dio un’abitazione, una dimora non costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli…” (Seconda lettera di S. Paolo ai Corinzi 5,1  Dalla liturgia per le esequie di Giancarlo Ricci)

 

Giancarlo

 

Il 22 maggio presso la cappella del cimitero di Lambrate (Milano) abbiamo dato l’ultimo saluto al nostro carissimo amico Giancarlo Ricci, noto psicanalista e saggista, deceduto due giorni prima all’ospedale Policlinico di Milano a causa di una malattia che lo affliggeva da alcuni anni. Per noi che lo abbiamo conosciuto e frequentato assiduamente è stata una grave esperienza di perdita. Ha lasciato in noi un grande vuoto perché ci eravamo davvero abituati a sentirlo vicino nell’amicizia, nel consiglio, nello stimolo culturale, morale e spirituale. E ciò anche a riguardo delle varie iniziative che lui incoraggiava e caldeggiava, non solo, ma si spendeva per esse e vi partecipava poi attivamente pur con quel suo modo umile, un po’ defilato, di chi non vuole sfuggire da un ascolto silenzioso e attento. E offrendo sempre i suoi interventi precisi, profondi, a volte un po’ difficili e spiazzanti, è vero,  perché attingevano dal suo vasto bagaglio di conoscenze e di esperienze nelle relazioni umane e nell’analisi clinica in particolare, che ci costringeva sempre ad approfondire e ad allargare il discorso. Di ciò non pochi amici che hanno frequentato le serate sul cinema di Ozu e Bergman sicuramente si ricorderanno.

Ci mancherà la sua sensibilità, la sua gentilezza, il suo coraggio intellettuale e la sua libertà, la sua generosità nel donarsi agli altri… e si potrebbe aggiungere altro senza cadere nel patetismo o nel panegirico di circostanza perché i molti che lo hanno conosciuto possono testimoniare le stesse cose. Sentiamo di ringraziarlo per la forza e la mitezza con cui ha combattuto la sua battaglia per affermare la verità delle cose in cui credeva, battaglia che non gli ha risparmiato ferimenti, colpi bassi, dispiaceri che forse hanno aggravato le sue condizioni di salute. Ci ha lasciato molto di sé, il ricordo della sua compagnia innanzitutto, delle sue parole, della sua voce calma, del suo colloquiare lieve e poi i suoi scritti, i suoi libri, il suo pensiero complesso e articolato che attraversava vari mondi e li metteva in comunicazione.  Davvero grazie Giancarlo!  Ci mancherai… aiutaci, ora che abiti “quella dimora non costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli…” non solo a custodire e a far fruttificare questo patrimonio di beni intangibili ma anche a “riconquistarlo” per possederlo davvero, come tu, citando Goethe e Freud, amavi ripetere.

Davide Bersan

Figure del padre in Ozu

E’ con una certa emozione che annuncio su questo blog che oggi è stato pubblicato sui book-store più noti (Amazon, IBS, ecc.) il mio e-book dedicato al regista Yasujiro Ozu. E’ il frutto di alcuni anni di ricerche, studi, condivisioni e discussioni sia private che pubbliche sui suoi film che ora hanno trovato una forma ordinata e unitaria. Spero  che il libro, per il momento nel suo formato e-book, possa interessare e raggiungere un pubblico più vasto che può comprendere sia chi ha già  visto le opere del regista come pure chi ne ha avuto solo un lontano sentore e ovviamente chiunque ami la lettura. Tra questi chi si sente intrigato dal tema del padre spero possa  trovare spunti interessanti per la sua riflessione. Un tema che come un prisma che viene attraversato da un raggio di luce ne proietta poi al di fuori una gamma di colori dalle sfumature molteplici.

Davide Bersan

1 febbraio 2020

PUO’ ESSERE RICHIESTA UNA COPIA IN FORMATO CARTACEO DELL’E-BOOK INVIANDO UNA MAIL A: PAROLEDICINEMA@LIBERO.IT

 

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Yasujiro Ozu (1903-1963), è considerato un maestro per il suo modo peculiare e geniale di saper utilizzare la macchina da presa e per la sensibilità artistica che attinge dalla tradizione filosofica e spirituale giapponese. Il cinema di Ozu narra, in modo toccante e delicato, le storie della gente comune (Shomingeki) in cui è centrale la rappresentazione della vita familiare. La figura del padre è sicuramente in primo piano in quasi tutti i suoi film. La scelta del libro è di seguirne le definizioni e le trasformazioni lungo tutto l’arco dell’opera.  Nel dopoguerra la famiglia giapponese ( ie ) deve confrontarsi con una realtà fortemente mutata e con il passare degli anni la crisi si acuisce fino a farne tremare le stesse fondamenta. Anche il padre “ozuiano” subisce la temperie di una modernità che scuote tutto ciò che trova sul suo passaggio ma, al contrario della sua parabola occidentale (che si conclude con il suo inesorabile declino), la sua funzione è quella di resistere, di non cedere, di non recedere. Il suo rimanere al proprio posto non è tuttavia ostinazione, chiusura mentale o cieco conservatorismo ma – attraverso un’esperienza costante di perdita e di lutto – assume una valenza autenticamente etica e spirituale. Dentro la faglia del suo dolore si inscrive profondamente il senso della trascendenza. Il padre somiglia allora sempre di più al custode di un Altrove, all’indicatore di un Oltre, al testimone fragile, vacillante, ebbro, del trascendente.

Davide Bersan è nato in provincia di Verona e da molti anni vive e lavora a Milano. Ha svolto studi teologici conseguendo la licenza in teologia spirituale presso la pontificia università  Gregoriana di Roma. Da molto tempo lavora nel campo delle cure psichiatriche, perfezionando la sua formazione nel counseling ad indirizzo sistemico e psicodinamico. Da sempre attratto dalle culture religiose dell’Oriente, negli ultimi anni i suoi interessi si sono rivolti anche all’approfondimento di argomenti di psicanalisi e di cinema. Gestisce un blog  (https://blog.libero.it/wp/cinemadiozu/) in cui pubblica alcuni dei suoi interventi e altri contributi.

Il settimo sigillo: una partita a scacchi fatale

Un cavaliere crociato e il suo scudiero dormono sui sassi di una spiaggia deserta della Svezia. Al risveglio il cavaliere si mette a pregare, poi si accorge della presenza di un personaggio misterioso che rivela essere la Morte. Inizia con lui una partita a scacchi che deciderà della sorte del cavaliere: la morte o la vita. La partita sarà il tema dominante del racconto ma sarà intervallata da numerosi episodi che contestualizzeranno e insieme forniranno elementi al cavaliere per indirizzare la sua ricerca interiore. La vicenda del cavaliere Antonius Block e del suo scudiero Jons si intrecceranno con quella del gruppo di attori girovaghi formato dal capocomitiva Skat e da Jof, la moglie Mia e il figlioletto Michael. In una Svezia martoriata dalla peste nera che incombe, si muovono figure come l’ex seminarista Raval, che ora ruba ai cadaveri, cortei di flagellanti guidati da monaci invasati, una ragazzina accusata di stregoneria e condannata al rogo, una giovane donna rimasta totalmente sola che decide di seguire lo scudiero Jons, la moglie di un fabbro che lo tradisce con l’attore Skat e poi alla fine ritorna col marito. Intanto la partita a scacchi continua e alla fine è la Morte che ha la meglio ma la sua vittoria non è su tutti i fronti: a causa di una lieve distrazione a cui il cavaliere non è estraneo, la famiglia di attori girovaghi le sfugge. L’incontro fatale con la Morte avviene per tutti gli altri al castello del cavaliere dove c’è ancora ad attenderlo la fedele moglie Karen. Jof il giocoliere che ha il dono di vedere l’invisibile, contemplerà poi nel lontano orizzonte la macabra danza della Morte con la falce in mano, che si trascina dietro le sue prede umane costrette a danzare con lei al suo passo, tenendosi per mano.

 

Il settimo sigillo é il film di Ingmar Bergman del 1956 che lo pone definitivamente ai vertici del cinema internazionale come autore di grande livello e straordinaria bravura. Il trentottenne Bergman riesce a trarre da un suo precedente testo teatrale un’opera che come poche altre riesce a mettere lo spettatore di fronte ai propri interrogativi più atavici e profondi. E lo fa utilizzando un repertorio di linguaggio ricco di simboli soprattutto biblici (lo stesso titolo è tratto dal libro dell’Apocalisse dell’apostolo Giovanni) ma anche tratto da una religiosità e da una mitologia di tipo popolare e naturalistico. Il Medio Evo è il medium contestuale in cui egli colloca la vicenda narrata, ma trattasi di un Medio Evo ricostruito attraverso i suoi ricordi d’infanzia, quando seguiva il padre pastore luterano nelle sue visite alle antiche chiese del Nord della Svezia per officiarvi il culto e il figlio si impressionava davanti ai misteriosi e antichi affreschi. Di esso richiama esclusivamente alcuni aspetti, quelli cioè a lui congeniali a collocarvi quel confronto serrato tra la coscienza umana e la morte che peraltro impegna gli uomini di tutti i tempi. Anche dei contemporanei di Bergman (siamo negli anni 50, in piena guerra fredda) che avvertivano incombere con angoscia il pericolo dell’ecatombe atomica. E’ un confronto sollecitato nel racconto filmico dal propagarsi minaccioso della peste, a cui si aggiungono in un crescendo assillante le domande rivolte al Dio cristiano, al suo tacere di fronte al male del mondo e ai tormenti della coscienza che non trova risposte. Interrogativi sul significato dell’esistenza umana che verosimilmente agitano lo stesso Bergman che riversa in questo film come in tanti altri i temi di fondo del suo percorso biografico. E sotto questa luce si può ancora leggere la sua critica pungente rivolta alla chiesa come istituzione con la denuncia e messa a nudo dell’ipocrisia, della malafede e delle pratiche superstiziose, spesso sulle spalle della gente del popolo che brancola nel buio. In tale contesto non mancano tuttavia quelli che esorcizzano la paura della peste dilettandosi con i piaceri terreni. E neppure gli umili e i puri di cuore come la famiglia di attori girovaghi, figure-chiave del racconto filmico.

Il cavaliere crociato mostrato nelle prime sequenze, dopo essere ritornato in patria al termine della sua impresa fallimentare, si appresta a sfidare la Morte stessa in una partita a scacchi come l’ha sentito raccontare nelle saghe popolari e visto raffigurare nei dipinti. Gli servirà a salvare la pelle se vincerà. Ma se perderà, se la Morte gli darà scacco matto avrà comunque guadagnato del tempo. E questo tempo gli sarà utile per cercare di capire, per impegnarsi con grande apprensione (ormai non c’è molto tempo) a trovare il senso della sua vita, a dare un significato al tempo che gli rimane. E’ senz’altro un Bergman che insieme agli interrogativi lascia ancora aperte delle porte al senso della trascendenza, che sembra non escluderla come possibilità salvifica per l’uomo. Certo neppure si può dire che l’apertura del settimo e ultimo sigillo del rotolo che nel libro dell’Apocalisse (in greco rivelazione) è tenuto in mano dall’Agnello segnato con le stigmate del sacrificio estremo, dischiuda alla fine del film una verità risolutiva. Rimane tuttavia il mistero, visto e raccontato da Jof, il saltimbanco che ha il dono di vedere l’invisibile, di quella danza macabra (altro topos iconografico) di coloro che tenuti per mano senza alcuna distinzione di classe o rango sociale dalla figura nera con il mantello, la falce e la clessidra, si allontanano nell’orizzonte verso un’alba che li rischiara mentre una debole pioggia bagna la loro fronte lavandola dal sudore e dalla polvere.

 

C’era un padre

Nel film Viaggio a Tokio,  la coppia di   anziani genitori venuta a Tokio per visitare i figli, viene  convinta da loro a soggiornare ad Atami
Nel film Viaggio a Tokio, la coppia di
anziani genitori venuta a Tokio per visitare i figli, viene convinta da loro a soggiornare ad Atami

Le pagine che seguiranno sono state prese e liberamente punteggiate da un testo scritto dall’autore nipponico Inoue Yasushi che si intitola “Ricordi di mia madre”. All’inizio del libro, prima di passare al racconto degli ultimi anni della madre affetta da demenza senile, l’autore si sofferma sulla figura dell’anziano padre morente. Mi colpiva la delicatezza con cui è tratteggiata la figura del padre e come sono descritti gli ultimi ricordi di lui. Riportandoli l’autore pare scoprire, forse per la prima volta, l’enorme valore di ciò che in maniera quasi impercettibile egli gli ha trasmesso. E di ciò si coglie un’eco di gratitudine commossa e di un’intimo stupore uniti però al riserbo e al pudore tipici di quella cultura. Le immagini invece sono state tratte dal film “C’era un padre” del grande regista giapponese Yasujiro Ozu e da altri suoi film che celebrano i valori della società tradizionale quali i legami familiari, il sacrificio e la dedizione attraverso la fedeltà ai propri compiti esistenziali come il lavoro e l’attraversamento allo stesso tempo mite e dignitoso delle avversità e delle prove della vita… Il contesto storico che viene raffigurato riguarda gli anni che hanno attraversato e sono seguiti al secondo conflitto mondiale, crogiolo di potenti trasformazioni sociali. (D. Bersan)

“L’ultima volta in cui lo vidi gli dissi, salutandolo, che stavo per ritornare a Tokio, ma che dopo due o tre giorni sarei stato di nuovo accanto a lui; mio padre sollevò da sotto la coperta la mano destra, magra e consunta, e la tese verso di me. Prima di allora non aveva mai fatto un gesto così, e non riuscii a capire che cosa desiderasse. Presi la sua mano nella mia. Me la strinse.

Le nostre due mani rimasero per un istante unite, ma subito ebbi l’impressione che la mia fosse stata debolmente respinta. La stessa impressione che si prova pescando, quando la punta della lenza vibra leggermente. Colto di sorpresa, allontanai la mano da quella di mio padre. Non capivo come, ma in quel gesto avevo intuito, sia pure per un attimo, la volontà di mio padre. Ebbi la gelida impressione di essere stato io a prendergli con troppa confidenza la mano, e che lui mi avesse respinto, quasi a dirmi: “Non è il momento di scherzare”.

Quell’evento rimase a lungo impresso dentro di me dopo la morte di mio padre. Trascorsi molto tempo a riflettere, tormentato dagli scrupoli. Forse mi aveva teso la mano, in un’ultima espressione di affetto paterno, perché si sentiva vicino alla morte. Forse nell’attimo in cui aveva stretto la mia mano aveva provato un’improvvisa ripulsa per quel moto spontaneo, e l’aveva ritratta. Spiegazione plausibile anche questa. Anzi, mi pareva la più naturale. O forse mio padre aveva avvertito qualcosa di sgradevole nel modo in cui io rispondevo alla sua stretta e immediatamente aveva annullato la dimostrazione d’affetto che stava per darmi, allontanando la mia mano.

Comunque era indubbio che, con quella impercettibile ripulsa, aveva riportato alla distanza di sempre il rapporto stretto fra noi in quell’attimo. Ero contento che si fosse comportato in modo consono al suo carattere, ma d’altro canto non riuscivo a dissipare il dubbio di averla respinta io, la sua mano. Forse era stato lui ad allontanare la mia, ma se fossi stato io? Forse quella sensazione gelida era assolutamente ignota a mio padre, ero stato io ad avvertirla e a provocarla. Non avevo alcuna prova per confutare quell’ipotesi. Forse avevo pensato: “in un momento simile non è da te mostrarti bisognoso d’affetto. Non devi tendere la mano a me che sono tuo figlio”. Può darsi che questo pensiero mi avesse indotto a respingere la mano che mio padre mi tendeva.

La mia mente non trovava requie, ne soffrivo in modo atroce. Ma un giorno riuscii a liberarmi di quei pensieri tormentosi. La liberazione giunse improvvisa e senza preannuncio quando mi balenò alla mente l’idea che anche mio padre stesse meditando nella tomba su quell’impercettibile contatto, ignoto a tutti fuorché a me e e lui, e fosse tormentato dai miei stessi pensieri. Forse nell’altro mondo stava riflettendo, proprio come me, su quell’incidente. Fantasticando su tale ipotesi provai la sensazione di essergli figlio come mai avevo sentito quand’era in vita. Ero suo figlio, e lui mio padre.”

CON IL SUO VIVERE MI AVEVA PROTETTO

“Dopo la morte mi assalì, a volte, il timore di assomigliargli. Quand’era in vita non me n’ero mai accorto, e chi mi era accanto immaginava che io avessi un carattere del tutto differente. Dagli anni della scuola e dell’università avevo sempre cercato di farmi una mentalità opposta alla sua, mi ero prefisso di vivere in modo a lui contrario; e comunque non si poteva affermare che io e mio padre ci assomigliassimo. Fin da giovane ebbe un temperamento da misantropo, io invece mi sono sempre circondato di amici; da studente ero campione sportivo e stavo di continuo tra gente allegra e festosa.

Rimasi in tale disposizione d’animo anche dopo l’università, qund’ero ormai inserito nella vita sociale; all’età in cui mio padre aveva iniziato la sua vita ritirata non mi sfiorava neppure l’idea di isolarmi come lui e di andare a vivere al paese. Superati i quarant’anni, lasciai il giornale e iniziai una nuova vita come scrittore, proprio nel periodo in cui mio padre decideva di tagliare i ponti con la società. Ma dopo la sua scomparsa incominciai ad avvertirne in me la presenza. Nei momenti più inattesi. Per un nonnulla. Per esempio, quando volevo scendere dalla veranda in giardino, mi muovevo come lui, cercando con un piede i sandali. Come lui aprivo il giornale, in soggiorno, e ne scorrevo i titoli curvo in avanti.

Mi capitò di accorgermi, mentre prendevo il portasigarette, che stavo replicando un gesto identico al suo, e lo lasciai istintivamente ricadere. Tutte le mattine davanti allo specchio del bagno mi rado il viso con il rasoio di sicurezza, poi lavo nell’acqua corrente il pennello insaponato e ne strizzo la punta con le dita: mi domando se siano i medesimi gesti di mio padre.

Riuscivo a tollerare di assomigliargli nelle abitudini e nei gesti, ma mi urtava l’idea che potessi avere le sue stesse opinioni. Mentre lavoro sono solito allontanarmi ogni tanto dal tavolo, e sedermi in veranda su una poltrona di giunco, e immergermi in pensieri incoerenti assolutamente estranei al lavoro: da lì contemplo il vecchio olmo che protende i suoi rami nelle quattro direzioni. Identica abitudine aveva mio padre quando dalla poltrona di giunco sulla veranda di casa, al paese natale, contemplava i rami degli alberi. D’un tratto mi sentii come sull’orlo di un abisso. Provavo un’emozione profonda considerando che forse anche a mio padre era accaduto di precipitare nei pensieri in cui io ero immerso adesso.

Mi accorgevo così di quanto lui sopravvivesse in me, e sempre di più pensavo all’essere umano che chiamavo padre. Lo avevo sovente di fronte a me, e con lui discorrevo. Soltanto dopo la sua morte compresi come, da vivo, si fosse assunto il compito di proteggermi dalla morte. Un tempo avevo, pur se in modo inconsapevole, la sensazione che niente potesse succedermi perchè mio padre viveva, un tempo non pensavo mai all’eventualità della mia morte. Ma da quando lui era mancato, erano cadute tutte le barriere tra la morte e me, lo spazio era più largo e la visuale più aperta: era ormai inevitabile che io scorgessi l’oceano della morte.

Sapevo che sarebbe venuto il mio turno, ma me ne resi conto solo dopo la morte di mio padre. Con il suo vivere mi aveva protetto. Non che lui ne fosse consapevole, non era una questione di sollecitudine umana, o di affetto tra genitori e figli, ma il risultato del semplice fatto che si fosse padre e figlio, il senso più genuino di questo rapporto.”

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Note su “viaggio a Tokio”

Tokyo monogatariNell’itinerario che abbiamo percorso attraverso le opere di Yashuijiro Ozu non poteva mancare Viaggio a Tokio ritenuto anche dalla critica occidentale non solo una delle sue opere migliori ma anche una pietra miliare della storia del cinema mondiale. Date queste premesse credo sia opportuno spogliarsi per quanto possibile di pregiudizi e aspettative per lasciarsi condurre nella visione del film dal ritmo lento della narrazione e dalla bellezza delle immagini che il recente restauro ci ha restituito. Si rischierebbe di rimanere delusi rimanendo attaccati a dei criteri troppo occidentali che privilegiano la storia o dei messaggi che essa deve veicolare. Se proprio dobbiamo cercare un messaggio all’interno del racconto filmico potrebbe essere sintetizzato nel proverbio citato almeno due volte nell’ultima parte e che impensierisce il terzo figlio Keizo “A che serve fare il letto al morto?” e che in altre parole può essere espresso “meglio servire i genitori finchè sono vivi” ma evidentemente sarebbe troppo riduttivo ricondurre il film di Ozu a questo unico tema.
In effetti Tokio monogatari che andrebbe tradotto “Una storia di Tokio” è un’opera ricca di allusioni e premonizioni, di rimandi e significati che si rivelano a poco a poco, in cui le sequenze si richiamano l’una con l’altra e il tutto forma una trama intessuta finemente i cui fili dopo aver compiuto il loro percorso si ricompongono in un quadro unitario. Non essendoci quadro senza una cornice che lo circonda e lo abbellisce possiamo apprezzare il rigore formale del regista nel fare di ogni sequenza una composizione di immagini quasi completa in sè stessa che pur ponendosi in una continuità l’una rispetto all’altra producono nello spettatore anche l’impressione di “stacco”, di una certa discontinuità che però viene subito smussata dalla gentilezza del suo peculiare tratto narrativo.
L’attenzione al contesto e all’ambiente in cui si muovono e interagiscono i protagonisti ci situa in loro compagnia dandoci la possibilità di assaporare il clima e l’atmosfera che circonda le loro vicende che si snodano attraverso lo scorrere lento del quotidiano. Le piccole storie di ogni giorno con i loro dialoghi semplici e pieni di sottintesi, dove il non detto supera di gran lunga ciò che viene espresso, acquistano un significato corale. Non è il singolo infatti ma la famiglia a essere protagonista e la coscienza sofferente ma serena di Shukichi e Tomi che ci appare come la superfice di un lago di montagna che presenta solo quelle pressochè impercettibili increspature celando ciò che agita le sue profondità, non fa altro che da suo catalizzatore e rappresentante. Le speranze, le trepidazioni, le ansie, le delusioni e i dispiaceri della coppia di anziani fungono da cassa di risonanza di una grave crisi che attraversa l’istituto familiare fino a dissolverlo quasi totalmente. Ozu stesso in un’intervista a proposito di questo film ha parlato effettivamente di “disgregazione” della famiglia giapponese. Ma si sbaglia chi volesse vedervi un atteggiamento improntato al pessimismo e al nichilismo catastrofista riguardo i legami famigliari, tanto caro a certe correnti di pensiero. Non lo troverà, lo sguardo di Ozu è comunque positivo e accompagna il travaglio di queste persone attraverso un equilibrio che riesce a tenere insieme il distacco dai suoi oggetti e un pathos discreto e sommesso. Mentre vede tramontare un mondo non sa ancora con che cosa esso verrà sostituito e attraverso la posizione estetica tipica di una tradizione che affonda le radici nel buddismo zen conosciuta come mono no aware , sceglie di contemplarne la bellezza nel momento in cui ne vede la fugacità. La precarietà di ciò che è destinato a soccombere come tutte le cose ad un ineluttabile cambiamento (mujo, l’impermanenza) rende tutto ciò ancora più saturo di quel fascino fragile e struggente la cui contemplazione provoca quel sentimento particolare di commozione e nostalgica tristezza. Ma ciò in Ozu trascende la situazione particolare per collocarsi in una dimensione più ampia ed esplorare dimensioni che vanno al cuore dell’umano. Così la famiglia di Shukichi e Tomi diventa paradigma del vivere e del trascorrere dell’esistenza dentro un orizzonte e un’afflato che sconfina nell’universale.

Il sapore del riso al tè verde

imagesl’idea di girare Ohazuke no aji è venuta a Ozu nel 1939, dopo il suo rientro in patria dal fronte cinese. Siamo in pieno periodo bellico e in Giappone governa un regime militarista. Ozu ha già pronta la sceneggiatura ma viene criticata dal comitato preposto alla censura preventiva perchè pecca di scarso spirito patriottico, il riso al tè verde non è sufficentemente celebrativo per un avvenimento come la partenza del marito-protagonista per il fronte di guerra. Ozu si rifiuta di cambiare la sceneggiatura e il progetto viene archiviato. Nel 1952 il film viene riproposto con importanti modifiche nella sceneggiatura, in un contesto sociale e culturale molto cambiato. Le parole stesse di Ozu ci consentono di coglierne lo spirito autentico e di farne una corretta lettura. Così egli scrive a proposito del suo progetto nel 1940:

“Ciò che vorrei fare non è tanto descrivere quale dei due modi di vivere e di pensare – quello della donna ricca e svogliata o quello di quest’uomo – sia giusto. Piuttosto, sarò presuntuoso, ma vorrei ritrarre persone che vivono in due mondi diversi per cercare la reazione della gente… non è che nella nostra vita abbiamo dimenticato qualcosa di importante? Questo vorrei provare a far capire allo spettatore”

Ad una visione non approfondita si ha l’impressione che sia la moglie a tenere le fila del gioco fino all’ultimo mentre il marito pare abbozzare e subire con pazienza. E’ pur vero che il regista fa emergere la crisi dei ruoli tradizionali dentro la famiglia e la coppia. Il ruolo femminile sta cambiando e avanza nuove istanze mentre quello maschile rimane spiazzato come per un processo incalzante che accomuna ormai tutto il mondo occidentalizzato, Giappone compreso. Tutto ciò però serve a Ozu per riaffermare dentro la narrazione filmica il ruolo centrale di Satake e soprattutto dei valori che egli incarna.

All’interno della tensione polare tra frivolezza spendacciona e bon ton di facciata da una parte e l’austerità, la sobrietà e la semplicità dall’altra, Satake, ex capitano in guardia a Singapore, rappresenta l’affidabilità e la fondatezza degli atteggiamenti interiori che sono cari a Ozu, quelli della tradizione più autentica. Atteggiamenti che ritroviamo anche in Chiki Ariki del 1942 e che trascendono quindi le epoche storiche e politiche e le facili strumentalizzazioni del momento.
Satake, il marito che sembra soccombere e abbozzare davanti alla moglie Taeko che infierisce con disprezzo nei suoi confronti anche davanti alla domestica, diventa altresì paradigma dell’ “accettazione”. Modo esistenziale di porsi di fronte alle situazioni basato sulle antiche tradizioni orientali di chi sa guardare oltre la contingenza. Il saper mettere da parte il proprio ego insegna a distinguere tra ciò che è essenziale e ciò che è frutto di passioni ingannevoli e passeggere come lo sono le nuvole che temporaneamente oscurano il sole. Viene adottata in tal modo la filosofia del giunco che piegandosi fino a terra davanti all’infuriare del vento non si spezza e passata la tempesta ritorna integro e vitale. Silenzio, attesa, moderazione, pazienza, operosità nascosta che agisce dietro le quinte, risolutezza quando è necessaria, fanno parte pienamente del modo di vivere di Satake.

Ed è a questi valori che si volge da ultimo anche la moglie Taeko, rendendosi conto di quanto sia futile e falso il suo mondo di fronte alla solidità semplice e sincera dell’uomo. Egli che non ha esitato a partire per un lungo viaggio di lavoro deciso dal suo capo solo pochi giorni prima.
La “conversione” della moglie non significa tuttavia il suo annullamento o la sua umiliazione di fronte al marito, lo sguardo di Ozu mantiene la consueta discrezione e gentilezza anche nei confronti di Taeko, ma la scoperta “illuminante” di ciò che è meglio per la coppia. Illuminazione che è apertura di un varco e di un necessario ridimensionamento del proprio ego, come esperienza liberante che lascia finalmente esistere l’altro e le sue parole. E’ la sconfitta di pretese troppo esigenti e capricciose che non accettano di venire a patti con la realtà e la misura dell’altro mirando invece ai luccichii illusori di insegne vistose e allettanti, nuovi idoli di una borghesia arrembante. E’ questa misura che è simbolizzata dall’ochazuke così come dai vestiti di seconda mano dell’amico Noboru o dall’ospitalità disarmante dell’ex commilitone ora suo malgrado ridotto a gestire una sala da pachinko o anche dal ronfare della domestica Fumi nel retrocucina la notte del ritorno improvviso di Satake.
La semplicità del riso al tè verde, cibo poverissimo consumato nelle campagne, alimento che ricorda le origini modeste del protagonista, uomo che (come lo stesso regista) si è anche misurato con le ristrettezze della vita militare sul fronte di guerra, diventa metafora della vita di coppia e monito alla stessa a rimanere su di un terreno solido, affidabile e senza inutile orpelli.