XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO C Lc 18,9-14

TESTO:-
Dal Vangelo secondo Luca. (Lc 18,9-14)
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato». Parola del Signore.

RIFLESSIONI

Se siamo onesti, dobbiamo riconoscere che noi tutti abbiamo la tendenza a compiacerci di noi stessi.
Forse perché pratichiamo molto fedelmente la nostra religione, come quel fariseo zelante, pensiamo di dover essere considerati “per bene”.
Non abbiamo ancora capito queste parole di Dio in Osea: “Voglio l’amore e non il sacrificio” (Os 6,6). Invece di glorificare il Padre per quello che è, il nostro ringraziamento troppo spesso riguarda ciò che noi siamo o, peggio, consiste nel confrontarci, in modo a noi favorevole, con gli altri. È proprio questo giudizio sprezzante nei confronti dei fratelli che Gesù rimprovera al fariseo, così come gli rimprovera il suo atteggiamento nei confronti di Dio.
Durante questa Quaresima, supplichiamo Gesù di cambiare radicalmente il nostro spirito e il nostro cuore, e di darci l’umiltà del pubblicano che invece ha scoperto l’atteggiamento e la preghiera “giusti” di fronte a Dio. Non comprenderemo mai abbastanza che il nostro amore è in stretta relazione con la nostra umiltà. La cosa migliore che possiamo fare di fronte a Dio, in qualsiasi misura ci pretendiamo santi, è di umiliarci di fronte a Dio.
Ci sono dei momenti in cui non riusciamo a rendere grazie in modo sincero; allora possiamo fare la preghiera del pubblicano, possiamo cioè approfittare della nostra miseria per avvicinarci a Gesù: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Gesù esaudisce sempre questa preghiera.
L’umiltà non ha niente a che vedere con un qualsiasi complesso di colpa o con un qualsiasi senso di inferiorità. È una disposizione d’amore; essa suppone che sappiamo già per esperienza che il nostro stato di peccatori attira l’amore misericordioso del Padre, poiché “chi si umilia sarà esaltato”. Essa suppone cioè che siamo entrati nello spirito del Magnificat.

Rivelazione di Gesù a Maria Valtorta
Corrispondenza nell’“Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta Capitolo 523

Gesù esce dalla casa di Zaccheo. È mattina inoltrata. È con Zaccheo, Pietro e Giacomo di Alfeo. Gli altri apostoli sono forse già sparsi per la campagna per annunciare che il Maestro è in città. Dietro al gruppo di Gesù con Zaccheo e gli apostoli ve ne è un altro, molto… variato per fisionomie, età, vesti. Non è difficile dichiarare con sicurezza che questi uomini appartengono a razze diverse, forse anche antagoniste fra di loro. Ma gli eventi della vita hanno portato questi in questa città palestinese e li hanno riuniti perché dal loro profondo risalissero verso la luce.

Gesù sale sull’alto gradino di una casa, fa il gesto abituale, di aprire le braccia, che precede il suo parlare e serve ad imporre silenzio. Ottenutolo, raccoglie le pieghe del manto, apertosi sul petto nel gesto, e lo tiene fermo con la sinistra mentre abbassa la destra nell’atto di chi giura, dicendo:

«Ascoltate, o cittadini di Gerico, le parabole del Signore, e ognuno poi le mediti nel suo cuore e ne tragga la lezione per nutrire il suo spirito. Lo potete fare perché non da ieri, né dalla passata luna, e neppure dall’altro inverno, conoscete la Parola di Dio.

Prima che Io fossi il Maestro, Giovanni, mio Precursore, vi aveva preparato al mio venire e, dopo che lo fui, i miei discepoli hanno arato questo suolo sette e sette volte per seminarvi ogni seme che Io avevo loro dato. Dunque potete capire la parola e la parabola.

A che paragonerò Io coloro che, dopo essere stati peccatori, poi si convertono? Li paragonerò a malati che guariscono. A che paragonerò gli altri che non hanno pubblicamente peccato, o che, rari più di perle nere, non hanno fatto mai, neppur nel segreto, colpe gravi? Li paragonerò a delle persone sane.

Il mondo è composto di queste due categorie. Sia nello spirito che nella carne e sangue. Ma, se uguali sono i paragoni, diverso è il modo del mondo di usare coi malati guariti, che erano malati nella carne, da quello che esso usa coi peccatori convertiti, ossia coi malati dello spirito che tornano in salute.

Noi vediamo che quando anche un lebbroso, che è il malato più pericoloso e più isolato perché pericoloso, ottiene la Grazia di guarigione, dopo essere stato osservato dal sacerdote e purificato, viene riammesso nel consorzio delle genti, e anzi quelli della sua città lo festeggiano perché guarito, perché risuscitato alla vita, alla famiglia, agli affari. Gran festa in famiglia e in città, quando uno che era lebbroso riesce ad ottenere Grazia e a guarire!

Ma perché allora per gli altri malati non si fa così? Un uomo comincia a peccare, e famigliari e soprattutto concittadini lo vedono? Perché allora non cercano con amore di strapparlo al peccare?

Una madre, un padre, una sposa, una sorella ancora lo fanno. Ma è già difficile che lo facciano i fratelli, e non dico poi che lo facciano i figli del fratello del padre o della madre.

I concittadini, infine, non sanno che criticare, schernire, insolentire, scandalizzarsi, esagerare i peccati del peccatore, segnarselo a dito, tenerlo discosto come un lebbroso quelli che sono più giusti, farsi suoi complici, per godere alle sue spalle, quelli che giusti non sono.

Ma non c’è che ben raramente una bocca, e soprattutto un cuore, che vada dall’infelice con pietà e fermezza, con pazienza e amore soprannaturale, e si affanni a frenarne la discesa nel peccato. E come? Non è forse più grave, veramente grave e mortale la malattia dello spirito? Non priva essa, e per sempre, del Regno di Dio? La prima delle carità verso Dio e verso il prossimo non deve essere questo lavoro di sanare un peccatore per il bene della sua anima e la gloria di Dio?

E quando un peccatore si converte, perché quell’ostinatezza di giudizio su di lui, quel quasi rammaricarsi che egli sia tornato alla salute spirituale?

Vedete smentiti i vostri pronostici di certa dannazione di un vostro concittadino?

Ma dovreste esserne felici, perché Colui che vi smentisce è il misericordioso Iddio, che vi dà una misura della sua bontà a rincuorarvi nelle vostre colpe più o meno gravi. E perché quel persistere a voler vedere sporco, spregevole, degno di stare nell’isolamento, ciò che Dio e la buona volontà di un cuore hanno fatto netto, ammirevole, degno della stima dei fratelli, anzi della loro ammirazione?

Ma ben giubilate anche se un vostro bue, un vostro asino o cammello, o la pecora del gregge, o il colombo preferito guariscono da una malattia!

Ben giubilate se un estraneo, che appena ricordate a nome per averne sentito parlare al tempo in cui fu isolato perché lebbroso, torna guarito!

E perché allora non giubilate per queste guarigioni di spirito, per queste vittorie di Dio? Il Cielo giubila quando un peccatore si converte. Il Cielo: Dio, gli Angeli purissimi, quelli che non sanno cosa è peccare. E voi, voi uomini, volete essere più intransigenti di Dio?

Fate, fate giusto il vostro cuore e riconoscete il Signore non soltanto come presente fra le nuvole d’incenso e i canti del Tempio, nel luogo dove solamente la santità del Signore, nel Sommo Sacerdote, deve entrare, e dovrebbe essere santa come il nome lo indica. Ma anche nel prodigio di questi spiriti risorti, di questi altari riconsacrati, sui quali l’Amore di Dio scende coi suoi fuochi ad accendere il sacrificio».

Gesù viene interrotto dalla madre di prima, che con gridi di benedizione Lo vuole adorare. Gesù la ascolta e benedice e la rimanda a casa, riprendendo il discorso interrotto.

«E se da un peccatore, che un tempo vi ha dato spettacolo di scandalo, ricevete ora spettacoli di edificazione, non vogliate schernire ma imitare. Perché nessuno è mai tanto perfetto da essere impossibile che un altro lo ammaestri. E il Bene è sempre lezione che va accolta, anche se colui che lo pratica un tempo era oggetto di riprovazione.

Imitate e aiutate. Perché, così facendo, glorificherete il Signore e dimostrerete che avete capito il suo Verbo. Non vogliate essere come quelli che in cuor vostro criticate perché le loro azioni non corrispondono alle loro parole. Ma fate che ogni vostra buona azione sia il coronamento di ogni vostra buona parola. E allora veramente sarete guardati e ascoltati benevolmente dall’Eterno.

Udite quest’altra parabola, per comprendere quali sono le cose che hanno valore agli occhi di Dio. Essa vi insegnerà a correggervi da un pensiero non buono che è in molti cuori. I più degli uomini si giudicano da se stessi e, posto che solo un uomo su mille è veramente umile, così avviene che l’uomo si giudica perfetto, lui solo perfetto, mentre nel prossimo nota cento e cento peccati.

Un giorno due uomini, andati a Gerusalemme per affari, salirono al Tempio, come si conviene ad ogni buon israelita ogni qualvolta pone piede nella Città Santa. Uno era un fariseo. L’altro un pubblicano. Il primo era venuto per riscuotere il fitto di alcuni empori e per fare i conti con i suoi fattori, che abitavano nelle vicinanze della città. L’altro per versare le imposte riscosse e per invocare pietà in nome di una vedova che non poteva pagare la tassazione della barca e delle reti, perché la pesca, fatta dal figlio maggiore, le era appena sufficiente per dare da mangiare ai molti altri figli.

Il fariseo, prima di salire al Tempio, era passato dai tenutari degli empori e, gettato uno sguardo in essi empori, vistili pieni di merci e di compratori, si era compiaciuto in se stesso e poi aveva chiamato il tenutario del luogo e gli aveva detto: “Vedo che i tuoi commerci vanno bene”.

“Sì, per Grazia di Dio. Sono contento del mio lavoro. Ho potuto aumentare le merci e spero di farlo ancora di più. Ho migliorato il luogo, e l’anno veniente non avrò le spese dei banchi e scaffali, e perciò avrò più guadagno”.

“Bene! Bene! Ne sono felice! Quanto paghi tu per questo luogo?”.

“Cento didramme al mese. È caro, ma la posizione è buona…”.

“Lo hai detto. La posizione è buona. Perciò io ti raddoppio il fitto”.

“Ma signore”, esclamò il negoziante. “In tal maniera tu mi levi ogni utile!”.

“È giusto. Devo forse io arricchire te? E sul mio? Presto. O tu mi dai duemilaquattrocento didramme, e subito, o ti caccio fuori e mi tengo la merce. Il luogo è mio e ne faccio ciò che voglio”.

Così al primo, così al secondo e al terzo dei suoi affittuari, ad ognuno raddoppiando il prezzo, sordo ad ogni preghiera. E perché il terzo, carico di figli, volle fare resistenza, chiamò le guardie e fece porre i sigilli di sequestro, cacciando fuori l’infelice.

Poi, nel suo palazzo, esaminò i registri dei fattori, trovando di che punirli come fannulloni e sequestrando loro la parte che si erano tenuta di diritto.

Uno aveva il figlio morente, e per le molte spese aveva venduto una parte del suo olio per pagare le medicine. Non aveva dunque che dare all’esoso padrone.

“Abbi pietà di me, padrone. Il mio povero figlio sta per morire, e dopo farò dei lavori straordinari per rifonderti ciò che ti sembra giusto. Ma ora, tu lo comprendi, non posso”.

“Non puoi? Io ti farò vedere se puoi o non puoi”.

E, andato col povero fattore nel frantoio, lo privò anche di quel resto d’olio che l’uomo si era tenuto per il misero cibo e per alimentare la lampada che permetteva di vegliare il figlio nella notte.

Il pubblicano invece, andato dal suo superiore e versate le imposte riscosse, si sentì dire: “Ma qui mancano trecentosettanta assi. Come mai ciò?”.

“Ecco, ora ti dico. Nella città è una vedova con sette figli. Il primo solo è in età di lavorare. Ma non può andare lontano da riva con la barca, perché le sue braccia sono deboli ancora per il remo e la vela, e non può pagare un garzone di barca. Stando vicino a riva, poco pesca, e il pescato basta appena a sfamare quelle otto infelici persone. Non ho avuto cuore di esigere la tassa”.

“Comprendo. Ma la legge è legge. Guai se si sapesse che essa è pietosa! Tutti troverebbero ragioni per non pagare. Il giovinetto cambi mestiere e venda la barca se non possono pagare”.

“È il loro pane futuro… ed è il ricordo del padre”.

“Comprendo. Ma non si può transigere”.

“Va bene. Ma io non posso pensare otto infelici privati dell’unico bene. Pago io i trecentosettanta assi”.

Fatte queste cose, i due salirono al Tempio e, passando presso il gazofilacio, il fariseo trasse con ostentazione una voluminosa borsa dal seno e la scosse sino all’ultimo picciolo nel Tesoro. In quella borsa erano le monete prese in più ai negozianti e il ricavato dell’olio levato al fattore e subito venduto ad un mercante.

Il pubblicano invece gettò un pugnello di piccioli, dopo aver levato quanto gli era necessario al ritorno al suo luogo. L’uno a l’altro dettero perciò quanto avevano. Anzi, in apparenza, il più generoso fu il fariseo, perché dette fino all’ultimo dei piccioli che aveva seco. Però occorre riflettere che nel suo palazzo egli aveva altre monete e aveva crediti aperti presso dei ricchi cambiavalute.

Indi andarono davanti al Signore. Il fariseo proprio avanti, presso il limite dell’atrio degli Ebrei, verso il Santo; il pubblicano in fondo, quasi sotto la volta che portava nel cortile delle Donne, e stava curvo, schiacciato dal pensiero della sua miseria rispetto alla Perfezione divina. E pregavano l’uno e l’altro.

Il fariseo, ben ritto, quasi insolente, come fosse il padrone del luogo e fosse lui che si degnasse di ossequiare un visitatore, diceva:

“Ecco che sono venuto a venerarti nella Casa che è la nostra gloria. Sono venuto benché senta che Tu sei in me, perché io sono giusto. So esserlo. Però, per quanto sappia che soltanto per mio merito sono tale, ti ringrazio, come è legge, di ciò che sono.

Io non sono rapace, ingiusto, adultero, peccatore come quel pubblicano che ha gettato contemporaneamente a me un pugnello di piccioli nel Tesoro. Io, lo hai visto, ti ho dato tutto quanto avevo meco. Quell’esoso, invece, ha fatto due parti e a Te ha dato la minore. L’altra, certamente, la terrà per le gozzoviglie e le femmine.

Ma io sono puro. Non mi contamino io. Io sono puro e giusto, digiuno due volte alla settimana, pago le decime di quanto possiedo. Sì. Sono puro, giusto e benedetto, perché santo. Ricordatelo, o Signore”.

Il pubblicano, dal suo angolo remoto, senza osare di alzare lo sguardo verso le porte preziose dell’hecal e battendosi il petto, pregava così:

“Signore, io non son degno di stare in questo luogo. Ma Tu sei giusto e santo, e me lo concedi ancora perché sai che l’uomo è peccatore e, se non viene da Te, diviene un demonio. Oh! mio Signore! Vorrei onorarti notte e giorno, e devo per tante ore essere schiavo del mio lavoro. Lavoro rude che mi avvilisce, perché è dolore al mio prossimo più infelice. Ma devo ubbidire ai miei superiori, perché è il mio pane.

Fa, o mio Dio, che io sappia temperare il dovere verso i superiori con la carità verso i miei poveri fratelli, perché nel mio lavoro non trovi la mia condanna. Ogni lavoro è santo se operato con carità. Tieni la tua carità sempre presente al mio cuore perché io, miserabile qual sono, sappia compatire i miei soggetti, come Tu compatisci me, gran peccatore.

Avrei voluto onorarti di più, o Signore. Tu lo sai. Ma ho pensato che levare il denaro destinato al Tempio per sollevare otto cuori infelici fosse cosa migliore che versarlo nel gazofilacio e poi far versare lacrime di desolazione a otto innocenti infelici. Però se ho sbagliato fammelo comprendere, o Signore, e io ti darò fino all’ultimo picciolo, e tornerò al paese a piedi mendicando un pane.

Fammi capire la tua giustizia. Abbi pietà di me, o Signore, perché io sono un gran peccatore”.

Questa la parabola. In verità, in verità vi dico che, mentre il fariseo uscì dal Tempio con un nuovo peccato aggiunto a quelli già fatti avanti di salire al Moria, il pubblicano uscì di là giustificato, e la benedizione di Dio lo accompagnò a casa sua e restò in essa. Perché egli era stato umile e misericordioso, e le sue azioni erano state ancor più sante delle sue parole.

Mentre il fariseo solo a parole e all’esterno era buono, mentre nel suo interno era e faceva opere da satana per superbia e durezza di cuore, e Dio lo odiava perciò.

Chi si esalta sarà sempre, prima o poi, umiliato. Se non qui nell’altra vita. E chi si umilia sarà esaltato, specie lassù nel Cielo, ove si vedono le azioni degli uomini nella loro vera verità.

Vieni, Zaccheo. Venite voi che siete con lui. E voi, miei apostoli e discepoli. Vi parlerò ancora in privato». E, avvolgendosi nel mantello, torna alla casa di Zaccheo.

Estratto di “l’Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta

XXIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO C 20 Ottobre 2019 (Lc 18,1-8)

gesù cena
gesù

TESTO:-
Dal Vangelo secondo Luca. (Lc 18,1-8)
In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai:
«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”.
Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”».
E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». Parola del Signore.

RIFLESSIONI

Gesù parla di giustizia per consolare e dare speranza ai suoi seguaci della sua materna assistenza. Ci dice che Lui c’è sempre, cammina accanto a noi e non ci lascia soli soprattutto in questo difficilissimo momento storico.
La giustizia operata da Dio è l’intervento per ripristinare la verità, per dare ad ognuno quanto merita. Non agisce ingiustamente.
Oggi Gesù ci parla della “necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai”. Pregare sempre è impossibile, ma vuol dire che si prega anche con la propria vita, agendo onestamente e praticando le virtù.
La nostra fiducia nel chiedere si fonda sulla certezza dell’infinita bontà di Gesù.
Gesù non vuole usare la sua giustizia verso nessuno, vuole invece esercitare misericordia ma quanti rifiutano di osservare i suoi Comandamenti si pongono in una situazione di opposizione al Bene, e compiono scelte di vita che gridano vendetta davanti a Dio.
I buoni, i poveri, i giusti che patiscono ingiustizie e si rivolgono con Fede e umiltà a Dio, vengono esauditi, bisogna però avere pazienza e tanta fede ma soprattutto rispetto.

Rivelazione di Gesù a Maria Valtorta
Corrispondenza nell’“Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta Capitolo 505

Gesù è di nuovo a Gerusalemme. Una ventosa e bigia Gerusalemme invernale. Marziam è ancora con Gesù e così Isacco. Parlando si dirigono al Tempio. Con i dodici, parlando con lo Zelote più che cogli altri, e con Tommaso, sono Giuseppe e Nicodemo. Ma poi si separano e passano avanti salutando Gesù senza fermarsi.

«Non vogliono far risaltare la loro amicizia col Maestro. È pericoloso!», sibila l’Iscariota ad Andrea.

«Io credo che lo facciano per un giusto pensiero, non per viltà», li difende Andrea.

«Del resto non sono discepoli. E lo possono fare. Non lo sono mai stati», dice lo Zelote.

«No?! Mi pareva…».

«Neppure Lazzaro è discepolo, e neppure…».

«Ma se escludi ed escludi, chi resta?».

«Chi? Quelli che hanno la missione di discepoli».

«E quegli altri, allora, che cosa sono?».

«Amici. Non più di amici. Lasciano forse le loro case, i loro interessi, per seguire Gesù?».

«No. Ma Lo ascoltano con piacere e gli danno aiuti e…».

«Se è per questo! Anche i gentili lo fanno, allora. Tu vedi che presso Niche trovammo chi aveva pensato a Lui. E non sono certo dei discepoli quelle donne».

«Non ti accalorare! Dicevo così, tanto per dire. Ti preme tanto che non risultino discepoli i tuoi amici? Dovresti volere il contrario, mi pare».

«Non mi accaloro e non voglio nulla. Neppure che tu faccia loro del male dicendoli discepoli suoi».

«Ma a chi vuoi che lo dica? Sto sempre con voi… ».

Simone Zelote lo guarda così severamente che il risolino si raggela sulle labbra di Giuda, il quale pensa opportuno di cambiare argomento chiedendo: «Che volevano, oggi, per parlare con voi due così?».

«Hanno trovato la casa per Niche. Verso gli orti. Vicino alla Porta. Giuseppe conosceva il proprietario e sapeva che con un buon utile avrebbe venduto. Lo faremo sapere a Niche».

«Che volontà di gettare denaro!».

«È suo. Ne può fare ciò che vuole. Ella vuole stare vicino al Maestro. Ubbidisce con ciò alla volontà dello sposo e al suo cuore».

«Solo mia madre è lontana…», sospira Giacomo di Alfeo.

«E la mia», dice l’altro Giacomo.

«Ma per poco. Hai sentito cosa ha detto Gesù a Isacco e Giovanni e Mattia? “Quando tornerete nella neomenia della luna di scebat, venite con le discepole oltre che con la Madre mia”».

«Non so perché non vuole che Marziam torni con esse. Gli ha detto: “Verrai quando ti chiamo”».

«Forse perché Porfirea non resti senza aiuto… Se nessuno pesca, lassù non si mangia. Noi non si va, deve andare Marziam. Non certo è sufficiente il fico, l’alveare, i pochi ulivi e le due pecore a mantenere una donna, vestirla, sfamarla…», osserva Andrea.

Gesù si stacca e va incontro ad alcune persone.

«Di che soffrite?», li interroga con pietà.

L’uomo Lo guarda, stupito di quell’interessamento. Forse gli sembra anche indelicato. Ma l’occhio di Gesù è tanto dolce che lo disarma. Però, prima di dire il suo dolore, domanda:

«Come mai un rabbi si interessa dei dolori di un semplice fedele?».

«Perché il rabbi è tuo fratello, o uomo. Tuo fratello nel Signore, e ti ama come il Comandamento dice».

«Tuo fratello! Sono un povero coltivatore della pianura di Saron, verso Dora. Tu sei un rabbi».

«Il dolore è per i rabbi come per tutti. So cosa è il dolore e ti vorrei consolare».

La donna scosta un momento il suo velo per guardare Gesù e sussurra al marito: «Diglielo. Forse ci potrà aiutare…».

«Rabbi, noi avevamo una figlia, l’abbiamo. Per ora 1’abbiamo ancora… E 1’abbiamo sposata decorosamente ad un giovane che ci fu… garantito buon marito da un comune amico. Sono sposi da sei anni ed hanno avuto due figli dalle loro nozze. Due… perché dopo cessò l’amore… tanto che ora… lo sposo vuole il divorzio.

La figlia nostra piange e si consuma, per questo abbiamo detto che l’abbiamo ancora, perché fra poco morirà di dolore.

Abbiamo tutto tentato per persuadere l’uomo. E abbiamo tanto pregato l’Altissimo… Ma nessuno dei due ci ha ascoltato… Siamo venuti qui in pellegrinaggio per questo, e ci siamo trattenuti per tutto il corso di una luna. Tutti i giorni al Tempio, io al mio luogo, la donna al suo… Questa mattina un servo di mia figlia ci ha portato la notizia che lo sposo è andato a Cesarea per mandarle di là il libello di divorzio. E questa è la risposta che hanno avuto le nostre preghiere…».

«Non dire così, Giacomo», supplica la moglie sottovoce. E termina: «Il rabbi ci maledirà come bestemmiatori… E Dio ci punirà. È il nostro dolore. Viene da Dio… E, se ci ha colpiti, segno è che l’abbiamo meritato», termina con un singhiozzo.

«No, donna. Io non vi maledico. E Dio non vi punirà. Io ve lo dico. Così come vi dico che non è Dio che vi dà questo dolore, ma l’uomo. Dio lo permette per vostra prova e per prova del marito di vostra figlia. Non perdete la Fede e il Signore vi esaudirà».

«È tardi. Nostra figlia è ormai ripudiata e disonorata, e morirà…», dice l’uomo.

«Non è mai tardi per l’Altissimo. In un attimo e per il persistere di una preghiera può mutare il corso degli avvenimenti. Dalla coppa alle labbra c’è ancor tempo per la morte di inserire il suo pugnale e impedire che chi si appressava alle labbra il calice non ne beva. E ciò per intervento di Dio.

Io ve lo dico. Tornate ai vostri posti di preghiera e persistete oggi, domani e dopodomani ancora, e se saprete aver Fede vedrete il miracolo».

«Rabbi, Tu ci vuoi confortare… ma in questo momento… Non si può, e Tu lo sai, annullare il libello una volta consegnato alla ripudiata», insiste l’uomo.

«Abbi Fede, ti dico. È vero che non si può annullarlo. Ma sai tu se tua figlia lo ha ricevuto?».

«Da Dora a Cesarea non è lungo il cammino. Mentre il servo veniva fin qui, certo Giacobbe è tornato a casa ed ha scacciato Maria».

«Non è lungo il percorso. Ma sei certo che egli lo abbia compito? Un volere superiore all’umano non può avere arrestato un uomo, se Giosuè, con l’aiuto di Dio, arrestò il sole? La vostra preghiera insistente e fiduciosa, fatta a buon fine, non è forse un volere santo, opposto al mal volere dell’uomo?

E Dio, poiché chiedete cosa buona, a Lui, vostro Padre, non vi aiuterà nell’arrestare il cammino del folle? Non vi avrà forse già aiutato? E se anche l’uomo si ostinasse ancora ad andare, potrebbe se voi vi ostinate a chiedere al Padre una cosa giusta? Vi dico: andate e pregate oggi, domani e dopodomani, e vedrete il miracolo».

Gesù guarda la gente che si è radunata, un centinaio circa di persone, a dice:

«Ascoltate questa parabola, che vi dirà il valore della preghiera costante. Voi lo sapete ciò che dice il Deuteronomio parlando dei giudici e dei magistrati. Essi dovrebbero essere giusti e misericordiosi, ascoltando con equanimità chi ricorre a loro, pensando sempre di giudicare come se il caso che devono giudicare fosse un loro caso personale, senza tener conto di donativi o minacce, senza riguardi verso gli amici colpevoli e senza durezze verso coloro che sono in urto con gli amici del giudice.

Ma, se sono giuste le parole della Legge, non sono altrettanto giusti gli uomini e non sanno ubbidire alla Legge. Così si vede che la giustizia umana è sovente imperfetta, perché rari sono i giudici che sanno conservarsi puri da corruzione, misericordiosi, pazienti verso i ricchi come verso i poveri, verso le vedove e gli orfani come lo sono verso quelli che non sono tali.

In una città c’era un giudice molto indegno del suo ufficio, ottenuto per mezzo di potenti parentele. Egli era oltremodo disuguale nel giudicare, essendo sempre propenso a dar ragione al ricco e al potente, o a chi da ricchi e potenti era raccomandato, oppure verso chi lo comperava con grandi donativi.

Egli non temeva Dio e derideva i lagni del povero e di chi era debole perché solo e senza potenti difese. Quando non voleva ascoltare chi aveva così palesi ragioni di vittoria
contro un ricco da non poter dare ad esso torto in nessuna maniera, egli lo faceva cacciare dal suo cospetto minacciandolo di gettarlo in carcere.

E i più subivano le sue violenze ritirandosi sconfitti e rassegnati alla sconfitta prima ancora che la causa fosse discussa.

Ma in quella città c’era pure una vedova carica di figli, la quale doveva avere una forte somma da un potente per dei lavori eseguiti dal suo defunto sposo al ricco potente. Essa, spinta dal bisogno e dall’amore materno, aveva cercato di farsi dare dal ricco la somma che le avrebbe concesso di saziare i suoi figli e vestirli nel prossimo inverno. Ma, tornate vane tutte le pressioni e suppliche fatte al ricco, si rivolse al giudice.

Il giudice era amico del ricco, il quale gli aveva detto: “Se mi dai ragione, un terzo della somma è tuo”.

Perciò fu sordo alle parole della vedova che lo pregava: “Rendimi giustizia del mio avversario. Tu vedi se io ne ho bisogno. Tutti possono dire se ho diritto a quella somma”. Fu sordo e la fece cacciare dai suoi aiutanti.

Ma la donna tornò una, due, dieci volte, alla mattina, a sesta, a nona, a sera, instancabile. E lo seguiva per strada gridando:

“Fammi giustizia. I miei figli hanno fame e freddo. Né io ho denaro per acquistare farina e vesti”.

Si faceva trovare sulla soglia della casa del giudice quando questi vi tornava per sedersi a tavola coi suoi figli. E il grido della vedova:

“Fammi giustizia del mio avversario, ché ho fame e freddo insieme alle mie creature” penetrava sino nell’interno della casa, nella stanza dei pasti, nella camera da letto durante la notte, insistente come il grido di un’upupa:

“Fammi giustizia, se non vuoi che Dio ti colpisca!

Fammi giustizia. Ricorda che la vedova e gli orfani sono sacri a Dio e guai a chi li calpesta! Fammi giustizia se non vuoi soffrire un giorno ciò che noi soffriamo. La nostra fame! Il nostro freddo lo troverai nell’altra vita, se non fai giustizia. Misero te!”.

Il giudice non temeva Dio e non temeva il prossimo.

Ma di esser sempre molestato, di vedersi divenuto oggetto di risa da parte di tutta la città per la persecuzione della vedova, e anche oggetto di biasimo, era stanco. Per questo un giorno disse fra sé:

“Per quanto io non tema Dio, né le minacce della donna, né il pensiero dei cittadini, pure, per porre fine a tanta molestia, darò ascolto alla vedova e le farò giustizia obbligando il ricco a pagare. Basta che essa non mi perseguiti più e mi si levi d’intorno”.

E chiamalo l’amico ricco gli disse:

“Amico mio, non è più possibile che io ti contenti. Fa il tuo dovere e paga, perché io non sopporto più di essere molestato per causa tua. Ho detto”.

E il ricco dovette sborsare la somma secondo giustizia.

Questa è la parabola. Ora a voi applicarla.

Avete sentito le parole di un iniquo: “Per porre fine a tanta molestia darò ascolto alla donna”. Ed era un iniquo. Ma Dio, il Padre buonissimo, sarà forse inferiore al cattivo giudice? Non farà giustizia a quei suoi figli che Lo sanno invocare giorno e notte?

E farà loro tanto attendere la Grazia sino a che la loro anima accasciata cessa di pregare? Io ve lo dico: prontamente farà loro giustizia, perché la loro anima non perda la Fede. Ma bisogna però anche saper pregare, senza stancarsi dopo le prime orazioni, e saper chiedere cose buone. E anche affidarsi a Dio dicendo:

“Però sia fatto ciò che la tua Sapienza vede per noi più utile”.

Abbiate Fede. Sappiate pregare con Fede nella preghiera e con Fede in Dio vostro Padre.

Ed Egli vi farà giustizia contro coloro che vi opprimono. Siano essi uomini o demoni, malattie o altre sventure.

La preghiera perseverante apre il Cielo, e la Fede salva l’anima in qual che sia il modo che la preghiera sia ascoltata ed esaudita. Andiamo!».

E si avvia all’uscita. È quasi fuori della cinta quando, alzando il capo ad osservare i pochi che Lo seguono e i molti indifferenti od ostili che lo guardano da lontano, esclama tristemente:

«Ma quando il Figlio dell’Uomo tornerà, troverà forse ancora della Fede sulla Terra?», e sospirando si avvolge più strettamente nel suo mantello, camminando a grandi passi verso il borgo di Ofel.

Estratto di “l’Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta

XXVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO C Lc 17,11-19

TESTO:-
Dal Vangelo secondo Luca. (Lc 17,11-19)
Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati.
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!». Parola del Signore.

RIFLESSIONI

Ciò che colpisce immediatamente è la rettitudine dell’uomo straniero che dopo la guarigione dalla lebbra ritornò indietro per ringraziare Gesù. Non è tanto la sua condizione di straniero ad avvalorare il gesto, ma la pesante ostilità che intercorreva tra samaritani e giudei. Il suo ringraziamento ha un notevole valore.L’atteggiamento degli altri nove guariti dalla lebbra non fu invece riconoscente, si limitarono ad obbedire a Gesù per averne loro dei vantaggi sociali. Gesù aveva comandato di andare dai sacerdoti ebrei per far attestare la loro guarigione e ritornare a vivere all’interno delle loro città.
Si è trattata di una obbedienza meccanica, guidata dalla mente e senza la partecipazione del cuore.
Questi due aspetti si colgono con facilità, mentre il punto più importante del dialogo tra Gesù e l’uomo miracolato è questa frase: «La tua Fede ti ha salvato». Il miracolo straordinario lo ha compiuto il Signore, il lebbroso ha partecipato per mezzo della sua Fede e da straniero ha adorato il Messia, Lo ha riconosciuto pubblicamente Figlio di Dio.
In ogni miracolo occorre necessariamente la partecipazione del credente, egli deve convertire la sua vita, camminare nella Via del Vangelo, pregare con grande fiducia, frequentare i Sacramenti, osservare i Comandamenti e praticare le virtù.
Un programma di vita a prima vista impegnativo, ma non lo è affatto.
Quando si ama tutto diventa facile. Non succede anche a voi verso le persone che amate? Figli, genitori, coniugi e i parenti? Non siete forse pronti a sacrificarvi e a compiere opere molto impegnative per aiutarli, rendere dei servizi, ricambiare le loro buone opere?
Quante buone opere ha compiuto Gesù verso ognuno di noi? Chiediamoci se abbiamo ricambiato e quante volte nella vita!
Il gesto del lebbroso straniero prostrato ai piedi di Gesù, estasiato dalla gioia della guarigione ma ancora di più dall’incontro con il Figlio di Dio, per il cristiano è l’invito a fare lo stesso ogni giorno e così riconoscere il grande Amore che Dio ha verso ognuno di noi.
Questo suo gesto manifesta la certezza che tutto aveva ricevuto da Dio, non solo il miracolo della guarigione da una inguaribile malattia.
La ragione della sua guarigione fu la Fede, e lo mostrò pubblicamente.
Parlava e si muoveva umilmente come chi è veramente rinato nell’anima oltre che nel corpo.
C’è molto da imparare dal comportamento del lebbroso guarito. Non dobbiamo fermarci solamente al miracolo e al suo ringraziamento.
Altri nove erano stati miracolati ma essi preferirono seguire l’obbedienza mentale o meccanica piuttosto che ascoltare il cuore. D’altronde, essi portarono a termine quanto comandato da Gesù e si diressero alla ricerca dei sacerdoti ebrei.
Gesù è rimasto contento della loro obbedienza, ma perché ha chiesto notizie sul mancato ringraziamento a Lui?
Dovevano obbedire al Signore o fermarsi a ringraziare? Andare dai sacerdoti o perdere altro tempo per ringraziarlo? Dovevano fare l’uno e l’altro, perché Gesù li aveva miracolati da una malattia incurabile, liberati dalla peste della lebbra ed era stata la loro quasi una risurrezione.
Come non ringraziarono il Guaritore Figlio di Dio?
Erano stati miracolati, non pensavano a questo?
Non si trattava solo di mostrare un ostentato ringraziamento a Gesù o di aggregarsi all’azione dello straniero riconoscente, il Signore non aveva bisogno di un simulato grazie e non voleva questo, era doveroso amarlo per gratitudine nel profondo del cuore e lasciare sfogare un forte senso di gratitudine.
Ringraziare Gesù significa adorarlo, riconoscerlo Dio e unico Salvatore, quindi rimane un gesto superiore all’obbedienza, implica già l’obbedienza. C’è chi obbedisce senza amare Dio, ed è una obbedienza insincera, non serve assolutamente a nulla. È un atto ipocrita che allontana da Dio.
L’atto di ringraziare Gesù necessitava poco tempo anche per gli altri nove e cos’era questo tempo considerando che per anni erano stati dimenticati dal mondo ed erano costretti a vivere dimenticati nelle caverne fuori le città, portando un campanaccio al collo quando si spostavano, mantenendosi sempre lontano dalle città?
C’erano motivi gravi per tenere lontano tutti i lebbrosi, neanche i familiari potevano avvicinarli. E non si comprende la grandezza di questo miracolo se non si conosce e riflette sulla condizione pietosa, nauseabonda, ripugnante e maleodorante della persona colpita dalla lebbra.
I lebbrosi dovevano restare fuori città per il fetore che emanavano, soprattutto per il pericolo della trasmissione della malattia.
Al tempo di Gesù il lebbroso era inguardabile ed emanava un odore ripugnante con il pus colato dalle piaghe aperte e dagli arti monchi. La lebbra corrodeva gli arti, il viso veniva scavato, tutto il corpo era pieno di piaghe e la pelle si staccava a squame.
Dalle ferite profonde fuoriusciva un marciume maleodorante ed era impossibile rimanere accanto ai lebbrosi.
Gesù rimase a debita distanza da loro perché i cittadini erano presenti e avrebbero reagito contro Lui se si fosse avvicinato di più. «Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: “Gesù, Maestro, abbi pietà di noi!”».
Per la richiesta della guarigione gridavano forte per farsi sentire da Gesù, invocavano la miracolosa guarigione e quando il Signore li ricreò rendendoli «nuovi» con la carne simile a quella dei bambini, l’unica premura fu di dirigersi verso la città e farsi attestare come guariti.
Gesù con il portentoso miracolo ricostituì la carne mancante, cacciò il fetore e fece sparire il marciume che rivestiva il lebbroso, oggi è sempre vivo e continua a compiere grandi miracoli verso i peccatori pentiti che ricorrono a Lui. Anche i peccatori pentiti vengono rigenerati nell’anima e nella mente.
Come i lebbrosi attiravano l’attenzione di Gesù, noi dobbiamo amare e adorare con il cuore il Figlio di Dio. Gesù vuole sentire il nostro grido interiore pieno di fiducia e di riconoscenza. Dobbiamo farci sentire tante volte nella giornata da Gesù, con atti di amore, richieste di aiuti e di conversione dei peccatori.
Possiamo chiamare Gesù in qualsiasi luogo ci troviamo, Lui ci ascolta e vede sempre, vuole liberarci dai problemi e guarirci dai mali.
Rendere grazie a Gesù molte volte nella giornata è un atto che ci rende più spirituali, favorisce la comunione con Lui, ci permette di avvertire molto forte che è vicino ed aiuta con un Amore premuroso. Quante occasioni abbiamo nella vita per ringraziarlo?
Ogni giorno dobbiamo iniziare la giornata con le preghiere stabilite, con la consacrazione al suo Cuore e a quello Immacolato di Maria.
È meraviglioso iniziare e terminare la giornata insieme a Gesù, e nel ringraziamento gioisce anche la Madonna. Ricordiamoci sempre di Loro.

Rivelazione di Gesù a Maria Valtorta
Corrispondenza nell’“Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta. Capitolo 483

Sono sempre fra i monti, e monti ben rudi, su certe stradet­te dove non passano certo dei carri, ma soltanto viandanti a piedi o persone cavalcanti i forti somari della montagna, più alti e robusti dei soliti somarelli delle zone meno accidentate. Un’osservazione che a molti potrà parere inutile, ma che io faccio lo stesso.

In Samaria vi sono delle diversità dagli usi degli altri luo­ghi. Sia nel vestire come in tante altre cose. E una è l’abbon­danza di cani, insolita altrove, che mi colpisce, come mi ha colpito la presenza di porci nella Decapoli.

Gli apostoli parlano col Maestro e, nonostante siano incorreggibilmente israeliti, devono riconoscere e lodare lo spirito che hanno trovato negli abitanti di Sichem i quali, lo comprendo dai discorsi che sento, hanno invitato Gesù a sostare fra di loro.

«Hai sentito, eh?», dice Pietro, «come hanno detto chiaramente che sanno l’odio giudeo? Hanno detto: “Per Te e su Te c’è più odio che su noi samaritani per quanti siamo e quanti fummo. Ti odiano senza limite”».

«E quel vecchio? Come ha detto bene: “È in fondo giusto che sia così, perché Tu non sei un uomo ma sei il Cristo, il Salvatore del mondo, e perciò sei il Figlio di Dio, perché solo un Dio può salvare il mondo corrotto. Perciò, essendo Tu senza limite come Dio, senza limitazioni nel tuo potere, nella tua santità e nel tuo amore, come sarà senza limite la tua vittoria sul Male, così è naturale che il Male e l’Odio, tutt’una cosa col Male, siano senza limiti contro Te”.

Ha proprio detto bene! E questa ragione spiega tante cose!», dice lo Zelote.

«Che spiega secondo te? Io… io dico che spiega soltanto che sono degli stolti», dice Tommaso spicciativo.

«No. La stoltezza sarebbe ancora una scusante. Ma stolti non sono».

«Ebbri allora, ebbri di odio», replica Tommaso.

«Neppure. L’ebbrezza cede dopo essersi scatenata. Questo livore non cede».

«E sì che più scatenato di così! È tanto che lo è… che ormai avrebbe dovuto cadere».

«Amici, esso non ha ancora toccato la mèta», dice Gesù calmo, come se la mèta dell’odio non fosse il suo supplizio.

«No?! Ma se non ci lasciano in pace mai?!».

«Maestro, essi ancora non si persuadono che ho detto il vero. Ma l’ho detto. Oh! se l’ho detto! E dico anche che, se era per voi, sareste caduti tutti nella trappola come ci cadde il Battista. Ma non riusciranno perché io veglio…», dice l’Iscariota.

E Gesù lo guarda. E lo guardo anche io domandandomi, e me lo chiedo da qualche giorno, se la condotta dell’Iscariota è causata da un buono e reale ritorno sulla via del bene e dell’amore per il suo Maestro, una liberazione dalle forze umane e extraumane che lo tenevano, o se sia un più raffinato lavoro di preparazione al colpo finale, un asservimento maggiore ai nemici di Cristo e a satana.

Ma Giuda è un essere talmente speciale che non è decifrabile.

Solo Dio può capirlo. E Dio, Gesù, cala un velo di misericordia e di prudenza su tutte le azioni e sulla personalità del suo apostolo… un velo che si lacererà, completamente illuminando tanti perché, ora misteriosi, soltanto quando saranno aperti i libri dei Cieli.

Giuda Iscariota lo guarda e forse parlerebbe, ma è distratto da un grido che li raggiunge da un poggetto che sovrasta il paesino che stanno costeggiando cercando la via per entrarvi.

«Gesù! Rabbi Gesù! Figlio di Davide e Signore nostro, abbi pietà di noi».

«Dei lebbrosi! Andiamo, Maestro, altrimenti il paese accor­rerà e ci tratterrà fra le sue case», dicono gli apostoli.

Ma i lebbrosi hanno il vantaggio di essere più avanti di loro, alti sulla via, ma almeno a un cinquecento metri dal paese, e scendono zoppicando sulla via e corrono verso Gesù ripetendo il loro grido.

«Entriamo nel paese, Maestro. Essi non vi possono entra­re», dicono alcuni apostoli, ma altri ribattono: «Già delle don­ne si affacciano a guardare. Se entriamo sfuggiremo i lebbrosi, ma non di esser conosciuti e trattenuti».

E mentre sono incerti sul da farsi, i lebbrosi si fanno sempre più vicini a Gesù che, incurante dei ma e dei se dei suoi apo­stoli, ha proseguito per la sua strada. E gli apostoli si rasse­gnano a seguirlo, mentre donne coi bambini alle gonnelle e qualche uomo vecchio rimasto in paese vengono a vedere, stando a prudente distanza dai lebbrosi, che però si fermano a qualche metro da Gesù e ancora supplicano:

«Gesù, abbi pietà di noi!».

Gesù li contempla un istante; poi, senza accostarsi a questo gruppo di dolore, chiede: «Siete di questo paese?».

«No, Maestro. Di luoghi diversi. Ma quel monte, dove stia­mo, dall’altra parte guarda sulla via per Gerico, ed è buono per noi quel luogo…».

«Andate allora al paese vicino al vostro monte e mostratevi ai sacerdoti».

E Gesù riprende a camminare spostandosi sul ciglio della via per non sfiorare i lebbrosi, che Lo guardano avvicinare senza avere altro che uno sguardo di speranza nei poveri occhi mala­ti. E Gesù, giunto alla loro altezza, alza la mano a benedire.

La gente del paese, delusa, ritorna nelle case… I lebbrosi si inerpicano di nuovo sul monte per andare verso la loro grotta o verso la via di Gerico.

«Hai fatto bene a non guarirli. Non ci avrebbero più lasciati andare quelli del paese…».

«Sì, e bisognerebbe giungere ad Efraim prima di notte».

Gesù cammina e tace. Il paese ormai è nascosto alla vista dalle curve della via molto sinuosa, perché segue i capricci del monte ai piedi del quale è tagliata.

Ma una voce li raggiunge:

«Lode al Dio Altissimo e al suo vero Messia. In Lui è ogni potenza, sapienza e pietà! Lode al Dio Altissimo che in Lui ci ha concesso la pace. Lodatelo, uo­mini tutti dei paesi di Giudea e di Samaria, della Galilea e dell’Oltre Giordano. Sino alle nevi dell’altissimo Hermon, sino alle arse petraie dell’Idumea, sino alle arene bagnate dalle on­de del Mar Grande risuoni la lode all’Altissimo ed al suo Cristo.

Ecco compita la profezia di Balaam. La Stella di Giacobbe splende sul cielo ricomposto della patria riunita dal vero Pa­store. Ecco anche compiute le promesse fatte ai patriarchi. Ec­co, ecco la parola di Elia che ci amò. Uditela, o popoli di Pale­stina, e comprendetela. Più non si deve zoppicare da due parti, ma scegliere si deve per luce di spirito, e se lo spirito sarà retto bene sceglierà.

Questo è il Signore, seguitelo! Ah! che finora fummo puniti perché non ci siamo sforzati a comprendere! L’uomo di Dio maledisse il falso altare profetando: “Ecco, na­scerà dalla casa di Davide un figlio chiamato Jeosciuè, il quale immolerà sopra l’altare e consumerà ossa di Adamo. E l’altare allora si squarcerà fin nelle viscere della Terra e le ceneri dell’immolazione si spargeranno a settentrione e mezzogiorno, a oriente e là dove tramonta il sole”.

Non vogliate fare come lo stolto Ocozia, che mandava a consultare il dio di Acaron men­tre l’Altissimo era in Israele. Non vogliate essere inferiori all’asina di Balaam, la quale per il suo ossequio allo spirito di luce avrebbe meritato la vita, mentre sarebbe caduto percosso il profeta che non vedeva. Ecco la Luce che passa fra noi. Aprite gli occhi, o ciechi di spirito, e vedete», e uno dei lebbro­si li segue sempre più da vicino, anche sulla via maestra ormai raggiunta, indicando Gesù ai pellegrini.

Gli apostoli, seccati, si volgono due o tre volte intimando al lebbroso, perfettamente guarito, di tacere. E lo minacciano quasi l’ultima volta.

Ma egli, cessando per un momento di alzare così la voce per parlare a tutti, risponde: «E che volete, che io non glorifichi le grandi cose che Dio mi ha fatto? Volete che io non Lo benedi­ca?».

«Benedicilo in cuor tuo e taci», gli rispondono inquieti.

«No, che non posso tacere. Dio mette le parole sulla mia boc­ca», e riprende forte: «Gente dei due luoghi di confine, gente che passate per caso, fermatevi ad adorare Colui che regnerà nel Nome del Signore.

Io deridevo tante parole. Ma ora le ripeto perché le vedo compiute.

Ecco muoversi tutte le genti e venire giubilando al Signore per le vie del mare e dei deserti, per i col­li e i monti. E anche noi, popolo che abbiamo camminato nelle tenebre, andremo alla gran Luce che è sorta, alla Vita, uscendo dalla regione di morte. Lupi, leopardi e leoni quali eravamo, ri­nasceremo nello Spirito del Signore e ci ameremo in Lui, all’ombra del Germoglio di Jesse divenuto cedro, sotto il quale si accampano le nazioni raccolte da Lui ai quattro punti della Terra.

Ecco, viene il giorno in cui la gelosia di Efraim avrà fine, perché non c’è più Israele e Giuda, ma un solo Regno: quello del Cristo del Signore. Ecco, io canto le lodi del Signore che mi ha salvato e consolato. Ecco, io dico: lodatelo e venite a bere la sal­vezza alla fonte del Salvatore. Osanna! Osanna alle grandi cose che Egli fa! Osanna all’Altissimo che ha messo in mezzo agli uomini il suo Spirito rivestendolo di carne, perché divenisse il Redentore!».

È inesauribile. La gente aumenta, si affolla, ingombra la via. Chi era indietro accorre, chi era avanti torna indietro. Quelli di un piccolo paese, presso il quale sono ormai, si uni­scono ai passanti.

«Ma fallo tacere, Signore. Egli è il samaritano. Lo dice così la gente. Non deve parlare di Te, se Tu non permetti neppure che noi ti si preceda più predicandoti!», dicono inquieti gli apostoli.

«Amici miei, ripeto le parole di Mosè a Giosuè figlio di Num, che si lamentava perché Eldad e Medad profetavano ne­gli accampamenti: “Sei tu geloso per me, in mia vece? Oh! pro­fetasse così tutto il popolo, e il Signore desse a tutti il suo Spi­rito!”. Ma pure mi fermerò e lo congederò per farvi contenti».

E si ferma voltandosi e chiamando a sé il lebbroso guarito, che accorre e si prostra dinanzi a Gesù baciando la polvere.

«Alzati. E gli altri dove sono? Non eravate in dieci? Gli altri nove non hanno sentito bisogno di ringraziare il Signore. E che? Su dieci lebbrosi, dei quali uno solo era samaritano, non si è trovato altro che questo straniero che sentisse il dovere di tornare indietro a rendere gloria a Dio, prima di rendere se stesso alla vita e alla famiglia?

Ed egli è detto “samaritano”. Non più ubriachi sono allora i samaritani, posto che vedono senza traveggole e accorrono sulla via di Salute senza barcol­lare? Parla dunque la Parola un linguaggio straniero se lo in­tendono gli stranieri e non quelli del suo popolo?».

Gira gli splendidi occhi sulla folla di ogni luogo della Pale­stina che si trova presente. E sono insostenibili nei loro balenii quegli occhi… Molti chinano il capo e spronano le cavalcature o si danno a camminare allontanandosi…

Gesù china gli occhi sul samaritano inginocchiato ai suoi piedi, e lo sguardo si fa dolcissimo. Alza la mano, che teneva abbandonata lungo il fianco, in un gesto di benedizione e dice: «Alzati e vattene. La tua Fede ha salvato in te più ancora della tua carne. Procedi nella luce di Dio. Va».

L’uomo bacia nuovamente la polvere e prima di alzarsi chiede: «Un nome, Signore. Un nome nuovo, perché tutto è nuovo in me, e per sempre».

«In che terra ci troviamo?».

«In quella d’Efraim».

«Ed Efrem chiamati da ora in poi, perché due volte la Vita ti ha dato vita. Va».

E l’uomo si alza e va.

La gente del luogo e qualche pellegrino vorrebbero tratte­nere Gesù. Ma Egli li soggioga con il suo sguardo che non è se­vero, anzi è molto dolce nel guardarli, ma che deve sprigionare una potenza, perché nessuno fa un gesto per trattenerlo.

E Gesù lascia la via senza entrare nel paesino, traversa un campo, poi un piccolo rio e un sentiero, e sale sul poggio orien­tale, tutto boscoso, e si inselva con i suoi dicendo: «Per non smarrirci seguiremo la via, ma stando nel bosco. Dopo quella curva, la strada si appoggia a questo monte. Vi troveremo qualche grotta per dormire, superando all’alba Efraim…».

Estratto di “l’Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtort

SUPPLICA ALLA VERGINE DEL SANTO ROSARIO DI POMPEI

https://blog.libero.it/LAVERGINEMARIA/13455120.html

SUPPLICA ALLA  VERGINE

DEL SANTO  ROSARIO  DI  POMPEI 

           

Viene recitata solennemente in tutte le chiese e in molte cese a mezzogiorno, o in altra ora per chi non può, l’otto maggio e la prima domenica di ottobre

Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Amen.

O Augusta Regina delle Vittorie, * o Sovrana del Cielo e della Terra, * al cui nome si rallegrano i cieli e tremano gli abissi, * o Regina gloriosa del Rosario, * noi devoti figli tuoi, * raccolti nel tuo Tempio di Pompei, in questo giorno solenne * effondiamo gli affetti del nostro cuore * e con confidenza di figli * ti esprimiamo le nostre miserie.

Dal Trono di clemenza, * dove siedi Regina, * volgi, o Maria, * il tuo sguardo pietoso * su di noi, sulle nostre famiglie, * sull’Italia, sull’Europa, sul mondo. * Ti prenda compassione * degli affanni e dei travagli che amareggiano la nostra vita. * Vedi, o Madre, * quanti pericoli nell’anima e nel corpo, * quante calamità ed afflizioni ci costringono.

O Madre, * implora per noi misericordia dal tuo Figlio divino * e vinci con la clemenza * il cuore dei peccatori. * Sono nostri fratelli e figli tuoi * che costano sangue al dolce Gesù * e contristano il tuo sensibilissimo cuore. * Mostrati a tutti quale sei, * Regina di pace e di perdono.

Ave, o Maria

È vero * che noi, per primi, benché tuoi figli, * con i peccati * torniamo a crocifiggere in cuor nostro Gesù * e trafiggiamo nuovamente il tuo cuore.

Lo confessiamo: * siamo meritevoli dei più aspri castighi, * ma Tu ricordati * che, sul Golgota, * raccogliesti, col Sangue divino, * il testamento del Redentore moribondo, * che ti dichiarava Madre nostra, * Madre dei peccatori. Tu dunque, * come Madre nostra, * sei la nostra Avvocata, * la nostra speranza. * E noi, gementi, * stendiamo a te le mani supplichevoli, * gridando: Misericordia!

O Madre buona, * abbi pietà di noi, * delle anime nostre, * delle nostre famiglie, * dei nostri parenti, * dei nostri amici, * dei nostri defunti, * soprattutto dei nostri nemici * e di tanti che si dicono cristiani, * eppur offendono il Cuore amabile del tuo Figliuolo. * Pietà oggi imploriamo * per le Nazioni traviate, * per tutta l’Europa, * per tutto il mondo, * perché pentito ritorni al tuo Cuore.

Misericordia per tutti, * o Madre di Misericordia!

Ave, o Maria

Degnati benevolmente, o Maria, * di esaudirci! * Gesù ha riposto nelle tue mani * tutti i tesori delle Sue Grazie * e delle Sue misericordie.

Tu siedi, * coronata Regina, * alla destra del tuo Figlio, * splendente di gloria immortale * su tutti i Cori degli Angeli. * Tu distendi il tuo dominio * per quanto sono distesi i cieli, * e a te la terra e le creature tutte * sono soggette.*

Tu sei l’Onnipotente per Grazia, * Tu dunque puoi aiutarci. * Se Tu non volessi aiutarci, * perché figli ingrati ed immeritevoli della tua protezione, * non sapremmo a chi rivolgerci. * Il tuo cuore di Madre, * non permetterà di vedere noi, * tuoi figli, perduti. * Il Bambino che vediamo sulle tue ginocchia * e la mistica Corona che miriamo nella tua mano, * ci ispirano fiducia che saremo esauditi. * E noi confidiamo pienamente in te, * ci abbandoniamo come deboli figli * tra le braccia della più tenera fra le madri, * e, oggi stesso, * da te aspettiamo le sospirate Grazie.

Ave, o Maria

Chiediamo la benedizione a Maria

Un’ultima Grazia * noi ora ti chiediamo, o Regina, * che non puoi negarci in questo giorno solennissimo. * Concedi a tutti noi * l’amore tuo costante * e in modo speciale la materna benedizione.

Non ci staccheremo da te * finché non ci avrai benedetti. * Benedici, o Maria, in questo momento * il Sommo Pontefice. * Agli antichi splendori della tua Corona, * ai trionfi del tuo Rosario, * onde sei chiamata Regina delle Vittorie, * aggiungi ancor questo, o Madre: * concedi il trionfo alla Religione * e la pace alla umana Società. * Benedici i nostri Vescovi, * i Sacerdoti * e particolarmente tutti coloro * che zelano l’onore del tuo Santuario. * Benedici infine tutti gli associati al tuo Tempio di Pompei * e quanti coltivano e promuovono * la devozione al Santo Rosario.

O Rosario benedetto di Maria, * Catena dolce che ci rannodi a Dio, * vincolo di amore che ci unisci agli Angeli, * torre di salvezza negli assalti dell’inferno, * porto sicuro nel comune naufragio, * noi non ti lasceremo mai più.

Tu ci sarai conforto nell’ora di agonia, * a te l’ultimo bacio della vita che si spegne.

E l’ultimo accento delle nostre labbra * sarà il nome tuo soave, * o Regina del Rosario di Pompei, * o Madre nostra cara, * o Rifugio dei peccatori, * o Sovrana consolatrice dei mesti.

Sii ovunque benedetta, * oggi e sempre, * in terra e in cielo. * Amen.

Salve, Regina.  

PROMOTORE, IL BEATO BARTOLO LONGO,
UN SANTO DELLA CITTÀ DI LATIANO (BR).

Un Santo dei nostri giorni, siamo soliti pensare ai Santi come nosti avvocati.

IL BEATO BARTOLO LONGO

E’ un avvocato Santo a servizio dell’uomo e della chiesa.

Bartolo Longo è nato il 10 febbreio 1841 a Latiano (BR).

Il 14 ottobre 1883, ventimila pellegrini, riuniti a Pompei,recitarono, per la prima volta, la supplica alla Vergine del Rosario, sgorgata dal cuore di Bartolo Longo, in risposta all’Enciclica Supremi apostolatus officio (1° settembre 1883), con la quale Leone XIII, di fronte ai mali della società, additava come rimedio la recita del Rosario.

POMPEI E’ OPERA DI DIO

Tempio dello Spirito, luogo di conversione e di riconciliazione,

 di misericordia e di preghiera, di spiritualità e di santità.

POMPEI E’ DONO DELL’AMORE DI BARTOLO LONGO 

Un innamorato della vita, un avvovato santo.

POMPEI E’ ROSARIO

Progetto di vita, contemplazine dei misteri della salvezza, risugio sicuro nelle prove della vita.

POMPEI E’ LABORATORIO DI SOLIDARIETA’ E DI PROMOZIONE UMANA

Migliaia di ragazzi e ragazze, di uomini e donne, vittime del disagio sociale, sono stati accolti e restituiti alla propria dignità umana, sperimentando il calore di una casa e di una famiglia.

POMPEI E’ CROCEVIA DI UOMINI E DI  POPOLI

Di cultura e di nazionalità, luogo di incontro di una umanità assetata di Dio e desiderosa di legalità e di giustizia, di speranza e di pace.

FRASI DEL BEATO BARTOLO LONGO

Accettando i figli dei detenuti, disse: “Se non ho figli miei, possiedo quelli del cuore e questi sono i figli dei carcerati. Davanti all’immagine della Madonna pregano sia i figli delle vittime che i figli degli assassini. Il sangue del Martire più grande purifica il sangue di tutti”. 

BARTOLO LONGO

Fin da bambino  si rivelò, ricco d’ingegno, vivace, e dal carattere appassionato. Per gli studi scolastici fu mandato al collegio dei padri scolopi a Francavilla Fontana. Completò gli studi a Lecce e a Napoli, dove conseguì la laurea in legge all’età di 23 anni. Era elegante, intelligente ed anche di bell’aspetto. All’universrtà venne coinvolto nella moda anticristiana dell’epoca. I divertimenti, la musica, e gli amici riempivano la sua giornata. Tormentato da irrequetezza e depressione, logorato nel sistema nervoso, e nella salute, riuscì a risollevarsi grazie a un suo amico che riuscì a strppare al suo amico la promessa di confessarsi. Bartolo Longo, acconsentì solo malvolentieri. Quando si confessò, avvenne la sua conversione che lo portò a scelte radicali a si dedicò ad opere di carità. Nel 1872 Arrivò a Pompei per motivi professionali, e quì lo impressionò profondamente la miseria umana e religiosa di quella gente. Con molta fatica riunì per la preghiera le perone, diffidentti, nella chiesa cadente di pompei. Ognuno dovette prima imparare l’Ave Maria. Fu una lotta spirituale e tenace, ma Bartolo, salvato lui stesso grazie al Rosario, era fermamente convinto che chi prega il Rosario con perseveranza diventa non soltanto più pio, ma anche più buono. Nel 1876, su suggerimento del vescovo di Nola, iniziò la campagna di uno stipendio mensile per costruire un santuario a Pompei. Come risultato della cooperazine umana e grazie all’intercessione prodigiosa di Maria, sorse il famoso santuario, dove si verificarono immediatamente molti miracoli. Intorno a tale costuzione nacque una città Mariana, la nuova Pompei, con tipografia, case, ospedali, posta, ufficio per il telegrafo e una stazione ferroviaria.Per il suo impegno nacquero alcune opere della misericordia, ancora oggi in sviluppo, che gli hanno meritato l’appellativo “padre degli orfani”.Alla fine della sua vita visse accanto alla Basilica presso i “suoi bambini” in una stanza piccola e semplice, pregando il Rosario quasi ininterrottamente. Quì morì il 5 ottobre 1926 pronunciando le parole:”Mio unico desiderio è vedere Maria che mi ha salvato e che mi salverà dal maligno”. Papa Giovanni PaoloII lo proclamò Beato il 26 ottobre 1980. Nei suoi scritti: Maria viene presentata non come un semplice personaggio del passato, ma come una persona che è anche oggi attiva, viva, dotata di sentimenti, forte e materna. Soprattutto si può dire di lui senza esagerare che tutta la sua vita fu un servizio permanente alla chiesa, in onore di Maria e per amore di Lei.

XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO C Lc 17,5-10

TESTO:-
Dal Vangelo secondo Luca. (Lc 17,5-10)
In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!».
Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sradicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?
Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”». Parola del Signore.

RIFLESSIONI

È un male molto diffuso tra i credenti quello di considerare la fede come un atteggiamento puramente intellettuale, come la semplice accettazione di alcune verità. Cioè una fede che si traduce in una presa di posizione teorica, senza una vera incidenza sulla vita. Questo squilibrio ha come conseguenza lo scandalo della croce: l’esitazione davanti alle difficoltà che incontriamo ogni giorno e che sono sovente insormontabili se noi non siamo abbastanza radicati in Dio. Allora ci rivoltiamo con la stessa reazione insolente e insultante che scopriamo nelle parole del libro di Abacuc.
Le due brevi parabole del testo evangelico ricordano due proprietà della fede: l’intensità e la gratuità. Per mettere in rilievo il valore di una fede minima, ma solida, Cristo insiste sugli effetti che può produrre: cambiare di posto anche all’albero più profondamente radicato. Per insistere sulla fede come dono di Dio, porta l’esempio del servitore che pone il servizio del suo amore prima di provvedere ai suoi propri bisogni. È l’esigenza del servizio del Vangelo che ci ricorda san Paolo (1Tm 1,1), ma questo stesso apostolo ci avverte che “i lavori penosi” trovano sempre l’appoggio della grazia di Dio.

Rivelazione di Gesù a Maria Valtorta
Corrispondenza nell’“Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta. Capitolo 408

Gesù si trova nella campagna di Giuseppe d’Arimatea. Anche qui ferve l’opera dei mietitori. Anzi, è meglio detto, è stata fervida l’opera dei mietitori. Ormai le falci sono inutili perché non c’è più ritta una spiga, in questi campi ancor più prossimi alla sponda mediterranea di quelli di Nicodemo. Per­ché Gesù non è andato ad Arimatea, ma nei poderi che Giusep­pe ha nel piano, verso il mare e che, avanti la mietitura, dovevano essere un altro piccolo mare di spighe, tanto sono estesi.

Una casa bassa, larga, bianca, è là, al centro dei campi spo­gli. Una casa di campagna, ma ben tenuta. Le sue quattro aie stanno riempiendosi di covoni e covoni, messi a fasci come fanno i soldati con le salmerie durante le soste al campo. Carri e carri portano quel tesoro dai campi alle aie, e uomini e uomi­ni scaricano e ammucchiano, e Giuseppe gira da un’aia all’al­tra e sorveglia che tutto sia fatto, e fatto bene.

Un contadino, dall’alto del mucchio affastellato su un car­ro, annuncia: «Abbiamo finito, padrone. Tutto il grano è sulle tue aie. Questo è l’ultimo carro dell’ultimo podere».

«Sta bene. Scarica e poi stacca i bovi e conducili alle vasche e alle stalle. Hanno ben lavorato e meritano riposo. E anche voi tutti avete ben lavorato e meritate riposo. Ma l’ultima fatica sarà lieve, perché ai cuori buoni è sollievo la gioia altrui.

Ora faremo venire i figli di Dio e daremo loro il dono del Padre. Abramo, va a chiamarli», dice poi volgendosi ad un patriarca­le contadino, che forse è il primo dei servi contadini di questa tenuta di Giuseppe. Lo penso perché vedo che il rispetto degli altri servi è molto palese per questo vegliardo, che non lavora ma sorveglia e consiglia aiutando il padrone.

E il vecchio va… Lo vedo dirigersi ad una vasta e molto bassa costruzione, più simile ad una tettoia che ad una casa, munita di due portoni giganteschi che toccano la grondaia. Penso sia una specie di magazzino dove stiano ricoverati i car­ri e gli altri attrezzi agricoli. Entra là dentro e ne esce seguito da una eterogenea e misera folla di tutte le età… e di tutte le miserie…

Vi sono esseri macilenti ma senza sventure fisiche e vi sono storpi, ciechi, monchi, malati d’occhi… Molte vedove coi molti orfanelli intorno, o anche delle mogli di qualche ma­lato, tristi, dimesse, scarnite dalle veglie e dai sacrifici per cu­rare il malato.

Vengono avanti con quell’aspetto particolare dei poveri quando vanno ad un luogo in cui saranno beneficati: timidezza di sguardi, ritrosia del povero onesto, eppure un sorriso che af­fiora sopra la tristezza che giorni di dolore hanno impresso sui volti smunti, eppure una scintilla minima di trionfo, quasi una risposta all’accanirsi del destino in giorni tristi, continui, un dirgli:

«Oggi, un giorno c’è anche per noi di festa, oggi è festa, è allegria, è sollievo per noi!».

I piccoli sgranano gli occhi davanti ai mucchi dei covoni, più alti della casa, e dicono accennandoli alle mamme: «Per noi? Oh! belli!».

I vecchi mormorano: «Il Benedetto benedica il pietoso!».

I mendichi, storpi, o ciechi, o monchi, o malati d’oc­chi: «Avremo pane, infine, anche noi, senza sempre dovere stendere la mano!».

E i malati ai parenti: «Almeno potremo curarci sapendo che voi non soffrite per noi. Le medicine ci fa­ranno bene, ora».

E i parenti ai malati: «Vedete? Ora non dire­te più che noi digiuniamo per lasciare a voi il boccone. Ora state dunque lieti!…».

E le vedove agli orfanelli: «Creature mie, occorrerà benedire molto il Padre dei Cieli che vi fa da padre, e il buon Giuseppe che è il suo amministratore. Ora non vi sentiremo più piangere per fame, o figli che non avete che le vostre mamme a darvi aiuto… le povere mamme che di ricco non hanno che il cuore…». Un coro e uno spettacolo che allie­tano ma portano anche lacrime agli occhi…

E Giuseppe, avuti davanti questi infelici, si dà a scorrere le file, a chiamare uno per uno, domandando quanti sono in fa­miglia, da quanto tempo vedove, o da quanto malati, e così via… e prende appunto. E per ogni caso ordina ai servi conta­dini: «Dai dieci. Dai trenta».

«Dai sessanta», dice dopo avere ascoltato un vegliardo se­micieco che gli viene davanti con diciassette nipoti, tutti sotto i dodici anni, figli di due suoi figli, morti uno nella mietitura dell’anno prima, l’altra di parto… e dice il vecchio: «Lo sposo s’è consolato e ad altre nozze è andato dopo un anno, riman­dandomi i cinque figli, dicendo che ci avrebbe pensato. Mai un denaro, invece!… Ora mi è morta anche la donna e sono solo… con questi…».

«Dai sessanta al vecchio padre. E tu, padre, resta, che dopo ti darò vesti per i piccoli».

Il servo fa notare che, se si va a sessanta covoni per volta, non basterà il grano per tutti…

«E dove è la tua fede? Per me accumulo forse i covoni e li spartisco? No. Per i figli più cari al Signore. Il Signore stesso deve provvedere a che basti per tutti», risponde Giuseppe al servo.

«Sì, padrone. Ma il numero è numero…».

«Ma la fede è fede. Ed io, per mostrarti che la fede può tutto, ordino che sia raddoppiata la misura già data ai primi. Chi ebbe dieci abbia altri dieci, e chi venti altri venti, e centoventi siano dati al vecchio. Fa! Fate!».

I servi si stringono nelle spalle ed eseguiscono. E la distribu­zione continua fra lo stupore gioioso dei beneficati, che si vedo­no dare una misura al disopra di tutte le loro più folli speranze. E Giuseppe ne sorride, carezzando i piccoli che si affannano ad aiutare le mamme, o aiuta gli storpi che fanno il loro piccolo mucchio, aiuta i vecchi troppo cadenti per farlo, o le donne troppo macilente, e fa mettere da un lato due malati per benefi­carli con altri aiuti, come ha fatto col vecchio dai diciassette ni­poti. I cumuli, alti più della casa, sono ora molto bassi, quasi a terra. Ma tutti hanno avuto il loro e in misura abbondante.

Giuseppe domanda: «Quanti covoni restano ancora?».

«Centododici, padrone», dicono i servi dopo avere contato i residui.

«Bene. Ne prenderete…».

Giuseppe scorre la lista dei nomi che ha segnato e poi dice: «Ne prenderete cinquanta. Li ripor­rete per semente, perché è seme santo. E il resto sia dato, uno per uno, ad ogni capo di famiglia qui presente. Sono esatta­mente sessantadue capi».

I servi ubbidiscono. Portano sotto un portico i cinquanta covoni e danno il resto. Ora le aie non hanno più i grossi muc­chi d’oro. Ma per terra sono sessantadue mucchietti di diversa misura, e i loro proprietari si affannano a legarli e a caricarli su primordiali carriole, oppure su stenti asinelli che sono an­dati a slegare da una staccionata sul dietro della casa

Il vecchio Abramo, che ha confabulato coi principali fra i servi contadini, si avvicina con questi al padrone che li interro­ga: «Ebbene? Avete visto? Ce ne è stato per tutti! E con avan­zo!».

«Ma padrone! Qui c’è un mistero! I nostri campi non posso­no aver dato il numero dei covoni che tu hai distribuito. Io so­no nato qui e ho settantotto anni. Sego da sessantasei anni. E so. Mio figlio aveva ragione. Senza un mistero non avremmo potuto dare tanto!…».

«Ma è realtà che abbiamo dato, Abramo. Tu eri al mio fianco. I covoni sono stati dati dai servi. Non c’è sortilegio. Non è irrealtà. I covoni si possono ancora contare. Sono ancora là, sebbene divisi in tante parti».

«Sì, padrone. Ma… Non è possibile che i campi ne abbiano dati tanti!».

«E la fede, figli miei? E la fede? Dove mettete la fede? Pote­va smentire il Signore il suo servo che prometteva in suo Nome e per santo fine?».

«Allora tu hai fatto miracolo?!», dicono i servi, pronti già all’osanna.

«Non sono uomo da miracoli io. Sono un povero uomo. Il Signore lo ha fatto. Mi ha letto nel cuore e vi ha visto due desi­deri: il primo era quello di portarvi alla mia stessa fede. Il se­condo era quello di dare tanto, tanto, tanto a questi miei fra­telli infelici. Dio ha annuito ai miei desideri… ed ha fatto. Che Egli ne sia benedetto!», dice Giuseppe con un inchino riveren­te come fosse davanti ad un altare.

«E il suo servo con Lui», dice Gesù che è rimasto fino ad al­lora celato dietro lo spigolo di una casetta cinta da una siepe, non so se forno o frantoio, e che adesso appare apertamente sull’aia dove è Giuseppe.

«Maestro mio e mio Signore!!», esclama Giuseppe cadendo in ginocchio per venerare Gesù.

«La pace a te. Sono venuto a benedirti in nome del Padre. Per premiare la tua carità e la tua fede. Sono tuo ospite per questa sera. Mi vuoi?».

«Oh! Maestro! Lo chiedi? Soltanto… Soltanto qui non potrò farti onore… Sono fra servi contadini… nella mia casa di cam­pagna… Non ho stoviglie fini, non ho maestri di mensa né ser­vi capaci… Non ho cibi raffinati… Non ho vini scelti… Non ho amici… Sarà una ben povera ospitalità… Ma Tu compatirai…

Perché, Signore, non mi hai fatto avvisare? Avrei provveduto… Ma ieri l’altro Erma, coi suoi, fu qui… Anzi me ne sono servito per fare avvisati questi ai quali volevo dare, rendere, ciò che è di Dio… Ma non mi ha detto nulla, Erma! Avessi saputo!… Permetti, Maestro, che dia ordini, che cerchi di rimediare… Perché sorridi così?», chiede infine Giuseppe che è tutto sossopra per la gioia improvvisa e per la situazione che egli giudi­ca… disastrosa.

«Sorrido per le tue inutili pene. Ma, o Giuseppe, che cerchi? Ciò che hai?».

«Che ho? Non ho nulla».

«Oh! come sei uomo ora! Perché non sei più lo spirituale Giuseppe di poco fa, quando parlavi da sapiente? Quando pro­mettevi, sicuro, per la fede e per dare la fede?».

«Oh! hai sentito?».

«Sentito e visto, Giuseppe. Quella siepe di lauri è molto uti­le a vedere che ciò che ho seminato non è morto in te. E per questo ti dico che ti dai delle inutili pene. Non hai maestri di tavola né servi capaci? Ma dove si esercita carità là è Dio, e do­ve è Dio là sono i suoi Angeli.

E che maestri di casa vuoi avere più capaci di quelli? Non hai cibi né vini prelibati? E quale ci­bo vuoi darmi e quale bevanda più prelibata dell’amore che hai avuto per costoro e che hai per Me? Non hai amici per far­mi onore? E questi? Quali amici più diletti dei poveri e degli infelici per il Maestro che ha nome Gesù?

Suvvia, Giuseppe! Neppure se Erode si convertisse e mi aprisse le sue sale per ospitarmi e darmi onore, in una reggia purificata, e con lui fos­sero i capi di tutte le caste ad onorarmi, Io avrei una corte più scelta di questa alla quale voglio Io pure dire una parola e dare un dono. Permetti?».

«Oh! Maestro! Ma tutto ciò che Tu vuoi io voglio! Ordina».

«Di loro che si radunino, e così si radunino i servi. Per noi ci sarà sempre un pane… Meglio è che ora ascoltino la mia pa­rola anziché correre qua e là, indaffarati in povere cure».

La gente si accalca sollecita, stupita…

Gesù parla: «Qui avete già conosciuto che la fede può moltiplicare il grano quando questo desiderio viene da desiderio d’amore. Ma non limitate la vostra fede alle necessità materia­li. Dio creò il primo chicco di frumento e d’allora spighisce il frumento per il pane degli uomini.

Ma Dio creò anche il Para­diso ed esso attende i suoi cittadini. È stato creato per coloro che vivono nella Legge e restano fedeli nonostante le prove do­lorose della vita. Abbiate fede e riuscirete a conservarvi santi con l’aiuto del Signore, così come Giuseppe riuscì ad assegnare il grano in misura doppia per farvi felici due volte e conferma­re nella fede i suoi servi.

In verità, in verità vi dico che se l’uo­mo avesse fede nel Signore, e per un giusto motivo, neppur le montagne, confitte con le loro viscere di roccia nel suolo, po­trebbero resistere, e al comando di chi ha fede nel Signore si sposterebbero. Avete voi fede in Dio?», chiede rivolgendosi a tutti.

«Sì, o Signore!».

«Chi è Dio per voi?».

«Il Padre Santissimo, come i discepoli del Cristo insegnano».

«E il Cristo chi è per voi?».

«Il Salvatore. Il Maestro. Il Santo!».

«Questo solo?».

«Il Figlio di Dio. Ma non bisogna dirlo, perché i farisei ci perseguitano se lo diciamo».

«Ma voi credete che Egli lo sia?».

«Sì, o Signore».

«Orbene, crescete nella vostra fede. Anche se voi tacerete, le pietre, le piante, le stelle, il suolo, tutte le cose proclameranno che il Cristo è il vero Redentore e Re. Lo proclameranno nell’o­ra della sua assunzione, quando Egli sarà nella porpora santis­sima e col serto di Redenzione. Beati quelli che sapranno cre­dere questo fin da ora, e più ancora lo crederanno allora, e avranno fede nel Cristo e vita eterna perciò. L’avete voi questa fede incrollabile in Cristo?».

«Sì, o Signore. Insegnaci dove Egli è, e noi Lo pregheremo di aumentare la nostra fede per essere beati così». E l’ultima par­te di preghiera la fanno non solo i poveri, ma anche i servi, gli apostoli e Giuseppe.

«Se avrete tanta fede quanto un granello di senapa e questa fede, perla preziosa, terrete nel cuore senza farvela rapire da nessuna cosa umana, o soprumana e malvagia, potrete tutti anche dire a quel gelso potente che ombreggia il pozzo di Giu­seppe: “Sbarbati di lì e trapiantati fra le onde del mare”».

«Ma Cristo dove è? Noi Lo attendiamo per essere guariti. I discepoli non ci hanno guariti, ma ci hanno detto: “Egli lo può”. Vorremmo guarire per lavorare, noi», dicono degli uomi­ni malati o inabili.

«E credete che Cristo lo possa?», dice Gesù facendo cenno a Giuseppe di non dire che il Cristo è Lui.

«Lo crediamo. Egli è il Figlio di Dio. Tutto può».

«Sì. Tutto può… e tutto vuole!», grida Gesù stendendo con impero il braccio destro e abbassandolo come per giurare. E ter­mina con un grido potente: «E così sia fatto, a gloria di Dio!».

E fa per volgersi verso la casa. Ma i guariti, una ventina, ur­lano, accorrono e Lo serrano in un groviglio di mani stese a toc­care, a benedire, a cercare le sue mani, le sue vesti, per baciare, per carezzare. Lo isolano da Giuseppe, da tutti…

E Gesù sorride, carezza, benedice… Si libera lentamente e, ancora inseguito, scompare nella casa, mentre gli osanna sal­gono nel cielo che si fa violaceo nel primo crepuscolo.

Estratto di “l’Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta