La cancel culture vi cancellerà tutti

La cancel culture continua a fare danni: il suo furore moraleggiante ha investito anche il pittore americano Philip Guston che tra gli anni Sessanta e Settanta dipinse tele contro il razzismo e dileggiò Richard Nixon in quanto presidente corrotto. Quanto di più politicamente corretto mente umana potesse concepire. Ma lo scorso anno la National Gallery di Washington ha cancellato una sua retrospettiva perché in alcuni quadri compaiono dei personaggi che, incappucciati come i membri del Ku Klux Klan, potevano trarre in inganno il pubblico che avrebbe potuto ravvisarvi un’apologia del razzismo. Ovviamente, ma sarebbe stato palese per chiunque tranne, a quanto pare, per i fautori della cancel culture, l’intento di Guston era far capire che la malvagità può (tra)vestirsi di normalità, e andarsene in giro fumando una sigaretta. Grazie al cielo la mostra si farà nel 2024. Nel frattempo chi l’ha cancellata dovrebbe prendere in prestito i cappucci delle tele di Guston e nascondere la faccia.

Annullare o ritardare la mostra è probabilmente motivato dal desiderio di essere sensibili alle presunte reazioni di determinati spettatori e dalla paura di una protesta. Tuttavia, questo è estremamente paternalistico nei confronti degli spettatori, che si presume non siano in grado di apprezzare le sfumature e la politica delle opere di Guston“.

Così Mark Godfrey, senior curator alla Tate Modern di Londra su Instagram, poi sospeso per aver criticato il museo.

Se “nigger” è contestualizzato, non si può cancellare

Il nuovo Grisham merita di essere letto - Corriere.it

Ne Il sogno di Sooley, John Grisham narra la storia di un giocatore di basket originario del Sud Sudan; fatto salvo il messaggio di riscatto insito nella vicenda esistenziale del protagonista che, originario di un villaggio sperduto approda al basket professionistico grazie a una determinazione eccezionale, è importante il punto di vista di Grisham sulla spinta insensata a piegare arte e letteratura alla sensibilità contemporanea, quella che ormai è a tutti nota come cancel culture.

È molto irritante quando critici e accademici fissano dei limiti riguardo a ciò che ognuno può scrivere. Tra i casi più recenti c’è quello di  Jeanine Cummins, autrice de Il sale della terra, un libro bellissimo sugli immigrati che attraversano il Messico per entrare illegalmente negli Stati Uniti. Alcuni scrittori di origine ispanica hanno detto di essersi sentiti offesi dal fatto che una bianca ha provato a raccontare quelle storie. Secondo simili standard, io non avrei dovuto scrivere un libro con protagonista un ragazzino africano del Sud Sudan perché sono un bianco del Mississippi“.

E per quanto riguarda la terminologia in senso stretto, è stato ancora più tranchant:

Ho usato la parola “nigger” nel mio primo libro, Il momento di uccidere (1989), e poi ancora ne L’ombra del sicomoro (2013) e ne Il tempo della clemenza (2020). Non la toglierei mai volontariamente, non la uso nel mio privato, ma quando sei uno scrittore e scrivi di eventi realistici, devi usare un linguaggio realistico”.

Disney+ censura Dumbo, Peter Pan e Gli Aristogatti. Sono razzisti

Risultato immagini per gli aristogatti shun gon

La cancel culture colpisce ancora, e s’abbate su tre capisaldi dei film d’animazione: Dumbo, Peter Pan e Gli Aristogatti; in correità con Disney+ le pellicole sono state rimosse dagli account dei bambini fino ai sette anni d’età perché considerate razziste.

Per capirne di più basta dare un’occhiata alla sezione per adulti, ovvero alla galassia dei maggiori di anni sette, dove una nota introduttiva recita: “Questo programma include rappresentazioni negative e/o denigra popolazioni o culture. Questi stereotipi erano sbagliati allora e lo sono ancora. Piuttosto che rimuovere questo contenuto vogliamo riconoscerne l’impatto dannoso, imparare da esso e stimolare il dibattito per creare insieme un futuro più inclusivo”.

Nel caso de “Gli Aristogatti” (1970) viene messa sotto accusa la scena in cui compare il gatto Shun Gon: negli occhi a mandorla, nella colorazione gialla e persino nelle bacchette con cui strimpella vengono ravvisati chiari segni lesivi della cultura orientale, e dunque ci sono i presupposti che potrebbero indurre a una forma di “discriminazione razziale nei confronti degli asiatici“.

A “Dumbo – L’elefante volante” (1941) viene contestato il verso di una canzone, presente nella colonna sonora, in quanto irrispettoso degli schiavi afroamericani che lavoravano nelle piantagioni del sud degli Stati Uniti. Il verso incriminato è: “E quando poi veniamo pagati, buttiamo via tutti i nostri sogni”

 

Peter Pan” (1953), invece, mancherebbe di rispetto ai nativi americani perché il protagonista ha l’ardire di definire i membri della tribù di Giglio Tigrato “pellirosse”. Secondo la sensibilità contemporanea, per riferirsi alle popolazioni precolombiane, bisogna usare l’espressione nativi americani, giacché pellerossa è un sostantivo che fa riferimento al colore della carnagione.

Ora, prima di schierarsi con l’oscurantismo del XXI secolo si tenga presente una verità elementare: la lingua è in continuo mutamento, e quando si incappa in un termine bisogna rapportarsi ad esso senza decontestualizzarlo. Non si tratta neppure di un approccio relativistico, ma di comune buonsenso.

P.S. I fautori del politicamente corretto dovrebbero attivarsi per mettere all’indice un bel po’ di libri. P.S.S. Qui un articolo che mette in guardia dal pericolo di cadere nel ridicolo.