Pia Pera e la meraviglia delle piccole cose

Al giardino ancora non l'ho detto”: l'amore per la Natura in un libro di Pia Pera - Envi.info

Torna in una nuova edizione il libro di Pia Pera L’orto di un perdigiorno, questa volta introdotto da Emanuele Trevi che con Due vite, dedicato all’amicizia con la narratrice e Rocco Carbone, ha vinto il Premio Strega. Alcuni stralci dell’introduzione in oggetto:

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“Considero L’orto di un perdigiorno, pubblicato nel 2003 a quarantasette anni, un vero e proprio nuovo esordio. Ma devo subito aggiungere a questa impressione un’osservazione a mio parere decisiva: anche nell’ultima – la più luminosa – stagione della sua vita, Pia rimase quello che era sempre stata, una scrittrice, e la sua lingua rimase quella della letteratura. Questo non equivale a dire che scriveva bene: ci mancherebbe, ma non è l’essenziale. Scrivere bene è relativamente facile; si può scrivere bene una legge, una dieta, un messaggio di WhatsApp, e ovviamente anche un libro sul proprio orto. La lingua letteraria è tutta un’altra cosa. La si può iniziare a definire in negativo: è un linguaggio che non può essere divorato dal suo argomento. Ovviamente ha pure lei un argomento, che nel caso di Pia è il suo orto, ma quello che conta è una specie di perpetuo slittamento. Il visibile allude all’invisibile, il dicibile è il codice cifrato dell’indicibile”.

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“Dal punto di vista poetico, la metafora che sostiene questo libro è di quelle antiche, di ottima lega: l’atto della coltivazione e quello della scrittura possiedono analogie talmente sorprendenti che, senza nemmeno bisogno di esplicitarle, parlare dell’uno e parlare dell’altro è un po’ la stessa cosa. Il rettangolo dell’orto e quello della pagina bianca, omologhi nella forma, sono il luogo di un investimento, o meglio di una proiezione di contenuti psichici che possono maturare in maniera del tutto inaspettata”.

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Complice un azzeccato andamento diaristico (che presuppone una totale ignoranza di ciò che sta per accadere) la scrittura del libro è lo specchio fedele di quella che evidentemente è una specie di scrittura dell’orto. Non manca una serie di fenomeni, anche negativi, che sono comuni all’esperienza dello scrittore e del coltivatore: le direzioni sbagliate, i troppo facili entusiasmi, i cattivi risultati che si ottengono copiando quello che fanno gli altri, ovvero trascurare di mantenersi fedeli al proprio stile. Tutto questo, per inciso, distanzia sotto ogni aspetto il libro dal genere del manuale, che per sua natura esclude tutto ciò che non è efficace per il conseguimento di un risultato. Ma non a caso, qui si parla dell’orto di un perdigiorno“.

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Si può aggiungere che Pia, ai tempi in cui scrisse L’orto di un perdigiorno, si era avviata verso il periodo – ahimè troppo breve – della sua piena auto-realizzazione. Ciò significa che aveva trovato la strada per realizzare il compito più arduo che tocca in sorte a noi viventi, che non consiste nella cura di un orto o di un giardino o nella scrittura di un libro, ma nel sottrarsi alla tirannia dell’Io, che certo non può essere distrutto, ma almeno scalzato quanto più possibile dal centro. È per questo che, in una delle pagine finali, paragona l’orto a un mandala tibetano, simbolo del “divenire perpetuo della natura”, o della “ruota in cui danza Shiva”. Bellissima immagine: ma per essere veritiera bisogna arrivare a sognare, come fa Pia in questa pagina, che l’orto un giorno si coltiverà, per così dire, da solo, in un “meraviglioso ciclo di nascita crescita raccolto”, che non ha più bisogno delle mani amorose che hanno avviato il ciclo. È un sogno impossibile, ma per questa scrittrice romantica l’impossibile è una stella polare. Ma perché questo sogno sia credibile oltre che impossibile, bisogna che non ci sia più nessuno al centro della ruota: né noi, e nemmeno Shiva. È solo un centro vuoto che potrà dirsi realmente, pienamente fecondo”.

Emanuele Trevi

Paradiso in terra, paradiso terrestre. Non ricordo più dove, Kafka ha scritto che ci sarebbe da chiedersi non perché l’uomo abbia perduto il paradiso terrestre, ma perché non faccia nulla per tornarci. A lui, cittadino di Praga, forse è sfuggito che chiunque torni alla campagna, chiunque voglia per sé un giardino, è spinto da questo desiderio, di un ritorno all’Eden“.

Pia Pera, L’orto di un perdigiorno

L’avvocato Malinconico e i luoghi comuni

De Silva e le «minime» di Malinconico: «L'amore? Scambio di colpe» - Il Mattino.it

Da tempo leggo le recensioni solo per sommi capi perché non voglio essere influenzata nella scelta dei libri; ma se a recensire è Emanuele Trevi, le cose cambiano. Le minime di Malinconico di Diego De Silva è un libro super pubblicizzato, e  ciò mi ha indisposto non poco, ma Trevi l’ha restituito da par suo. Questo il paragrafo che ha fatto la differenza:

“Di certo Malinconico non è quello che si dice un intellettuale. Se ha un vantaggio cognitivo, è quello tipico dei rimuginatori: lascia decantare il tempo necessario nel tuo scetticismo qualunque luogo comune, anche quello talmente ripetuto da sembrare una verità matematica, e scoprirai che non fa per te. Scoprirai soprattutto, che la maggior parte delle cose che ci ripetiamo sono ridicole: per esempio, il “pensare che le cose siano semplicemente lì, e che è colpa tua se non te le prendi”. Quante volte ci è stata propinata questa idiozia? E siamo grati a Malinconico, come se finalmente fosse arrivato qualcuno a liberarci da un imbarazzo, quando scopriamo che lui non ci ha mai creduto, “alla storia che bastasse allungare la mano”. La cosa più odiosa dei luoghi comuni non è la loro falsità, ma il fatto di avanzare delle pretese del tutto ingiustificate, che Malinconico non si sente di condividere.[…] Scrivendo i suoi romanzi in prima persona, De Silva pratica con successo, ormai da molti anni, il tono della confessione, del memoriale, del monologo a cuore aperto. Molto facilmente presta al suo personaggio circostanze ed esperienze che appartengono alla sua vita, sperimentando un ibrido, un’autofiction per interposta persona se vogliamo definirla in qualche modo. E la scelta del registro comico è stata vincente perché ha liberato lo scrittore dalle convenzioni opposte e complementari del realismo psicologico e sociale, con tutto il loro peso di informazioni necessarie alla costruzione di un’immagine attendibile del mondo. De Silva è un erede, un continuatore dell’umorista inglese Wodehouse, nel senso che rappresenta solo ciò che gli serve, senza dare a intendere di conoscere tutto il resto. Evoca, accenna, come i pittori di quinte nel teatro di varietà di una volta, contento che il lettore riconosca il trucco, senza propinargli l’ennesima, inutile lezione”.

A questo punto, credo sia giunto il momento di conoscere più da vicino l’avvocato Malinconico.

Una sua minima: “Io faccio eccezione alla teoria del caos. A me, se una farfalla batte le ali a Pechino, non cambia assolutamente nulla”.

foto: Diego De Silva

Trevi, che Dio ti abbia in gloria

Premio Strega 2021, c'è il primo titolo in gara: «Due vite» di Emanuele Trevi- Corriere.it

Su la Lettura dell’8 agosto, Emanuele Trevi spiega perché non è possibile fare a meno della buona letteratura. Secondo me, se almeno un bipede con un minimo di testa pensante comprerà un libro dopo aver letto l’excursus di Trevi, il Nostro avrà reso un buon servizio all’umanità.

L’ultima cosa da esigere dai profeti, dai futurologi, dagli analisti delle tecnologie e delle tendenze, è che azzecchino le loro previsioni, fauste o infauste che siano. Sarebbe sleale: come pretendere dalla cartomante di ridarci indietro i soldi perché non abbiamo trovato l’anima gemella. Che doveva dirci, che saremmo marciti nella solitudine e nella tristezza? Il fatto è che speculare sul futuro è un’arte, come la danza o la ceramica, e come tutte le arti non serve a nulla di concreto. E poi, la fede è contagiosa. Crea delle certezze che si ergono come fari sulle pericolose scogliere della vita. Qualunque cosa dicano, bisogna onorare gli indovini. Ognuno, poi, ha le sue profezie preferite. Dipende dalle cose con cui si ha a che fare nella vita, dagli interessi che si nutrono.

La mia gioventù di aspirante scrittore è stata profondamente suggestionata dalla “morte dei libri”, annunciata come imminente fin dalla fine degli anni Ottanta. Niente a che vedere con temi opinabili e accademici come “la morte dell’arte” o “la morte del romanzo”, che nella loro astrattezza possono scivolarti addosso per tutta la vita senza consumarti un solo neurone. Ma quella della morte dei libri, intesi come oggetti concreti appartenenti alla nobile razza dei parallelepipedi, si affacciò alla coscienza collettiva come un fatto concreto, e quasi sembrò possibile segnarne la data sul calendario, come si fa con la prossima Pasqua.

Certo, la storia avrebbe invitato a usare una certa prudenza, visti tutti gli episodi di roghi di migliaia di volumi e intere biblioteche che si erano succeduti nel corso dei secoli, dall’antica Cina alla Germania nazista, lasciando sempre ai libri la maniera di sopravvivere in un modo o nell’altro. Ma i tiranni sono stupidi, la tecnologia molto meno. E le sentenze tecnologiche sono inesorabili, confinano innumerevoli oggetti nel regno dei ricordi e dei negozi di antiquariato. Conoscevo gente pronta a giurarci, con gli occhi spiritati: entro il 2020 – se non prima! – non si sarebbe più stampato un libro. Si stampavano addirittura libri per dimostrare, con tutti i convincenti argomenti della moderna futurologia, che non si sarebbero più stampati i libri. E già fioccavano, in tutto il mondo civile, i necrologi.

Interrompo la scrittura di questo articolo per fare un po’ il giornalista. Vale a dire, senza nemmeno scomodare il nobile concetto di “empirismo”, che mi guardo intorno. È il pomeriggio di sabato 31 luglio 2021, e sono salito sul Frecciargento che va da Genova a Roma alla stazione di Campiglia. C’è poca gente nella mia carrozza, diciamo una ventina di persone: tutti comodi e al fresco, sfrecciamo (si spera fino all’arrivo) in una campagna torrida e arsa, gialla come un Van Gogh. Una parte abbastanza consistente di queste persone ha un libro in mano: diciamo sei su venti, calcolando anche me. Fingendo di andare alla toilette, sbircio i titoli: c’è una signora che legge l’ultimo Manzini, un’altra Yoga di Carrère, mentre quello che ha l’aria di essere suo marito è immerso in una monografia di Alessandro Barbero su Carlo Magno. Che una monaca legga la Bibbia non fa notizia, immagino, ma si tratta pur sempre del primo libro che Gutenberg stampò; un tipo dall’aria britannica ha in mano un’edizione Penguin delle Pietre di Venezia di John Ruskin e stupidamente mi chiedo se non abbia sbagliato treno. Qualcuno potrebbe obiettare che siamo in prima classe, tipico mezzo di trasporto delle élite plutocratiche e della sinistra al caviale mentre il popolo (dalla carrozza quattro alla dieci) sta attaccato allo smartphone aggiornando i profili social e consultando siti no vax e cospirazionisti. Ma non è affatto così. Dove c’è più gente, nelle nostre società occidentali, ci sono in proporzione più libri. Non troppi, ma nemmeno nessuno. Non ci saranno mai insomma, né in prima né in seconda classe, dodici o quindici lettori su venti, ma ce ne sono abbastanza da far sì che i libri siano ancora un buon affare, o che la morte di un uomo come Roberto Calasso sia considerata degna della prima pagina dei giornali“.

Emanuele Trevi