Un amore di Swann

Ma il concerto ricominciò e Swann si rese conto che non avrebbe potuto andarsene prima della fine del nuovo pezzo in programma. Soffriva di restare imprigionato fra quella gente, la cui stupidità e ridicolaggine lo colpiva ancor più dolorosamente perché, ignari del suo amore, incapaci, se anche l’avessero conosciuto, di prestarvi interesse e di fare altro che sorriderne come di una puerilità o deplorarlo come una follia, glielo mostravano sotto l’aspetto di una condizione soggettiva, esistente solo per lui, la cui realtà non riceveva alcuna conferma esterna; soffriva soprattutto, e al punto che persino il suono degli strumenti gli faceva venir voglia di urlare, del protrarsi del suo esilio in quel luogo dove Odette non sarebbe mai venuta, dove nessuno, niente la conosceva, dal quale lei era totalmente assente.

Ma, tutt’a un tratto, fu come se fosse entrata, e quella apparizione gli inflisse una così lacerante sofferenza che fu costretto a portarsi la mano al cuore. Il violino, infatti, era salito a note alte e lì restava come per un’attesa, un’attesa che si prolungava senza che rinunciasse a tenerle, nell’esaltazione che gli veniva dallo scorgere già l’oggetto della propria attesa che s’avvicinava, e compiendo uno sforzo disperato per cercar di resistere fino al suo arrivo, di accoglierlo prima di spirare, di far sì con tutte le sue forze che il varco rimanesse aperto ancora un attimo perché potesse passare, come chi regga il peso di una porta che altrimenti ripiomberebbe. E prima che Swann avesse il tempo di capire, di dirsi: “È la piccola frase della sonata di Vinteuil, non ascoltiamo!”, tutti i ricordi del tempo in cui Odette era innamorata di lui, i ricordi che fino a quel giorno era riuscito a custodire, invisibili, nella profondità del suo essere, ingannati da quell’improvviso raggio del tempo d’amore, supponendolo ritornato, si erano ridestati e, a volo d’uccello, erano risaliti a cantargli perdutamente, senza pietà per la sua presente sventura, i ritornelli dimenticati della felicità.

 

Invece di espressioni astratte come “il tempo in cui ero felice”, “il tempo in cui ero amato”, che fino allora aveva pronunciato spesso e senza troppo soffrirne, poiché il suo intelletto vi aveva racchiuso, del passato, solo certi pretesi estratti che non ne serbavano traccia, ritrovò tutto ciò che di quella felicità perduta aveva fissato per sempre la specifica e volatile essenza; rivide tutto, i petali arricciati e nevosi del crisantemo che lei gli aveva gettato nella carrozza e che lui s’era tenuto stretto contro le labbra – l’indirizzo in rilievo della Maison Dorée sul messaggio dove aveva letto: “La mia mano, mentre vi scrivo, trema così forte” – l’accostarsi delle sue sopracciglia quando gli aveva detto in tono supplichevole: “Non aspetterete troppo a chiamarmi?”; sentì l’odore del ferro del parrucchiere dal quale si faceva sistemare la pettinatura “a spazzola” mentre Loredan andava a prendere la piccola operaia, i rovesci di pioggia così frequenti in quella primavera, il gelido ritorno nella sua victoria, al chiaro di luna: tutte le maglie di abitudini mentali di impressioni stagionali, di reazioni cutanee che avevano steso sul succedersi di quelle settimane una rete uniforme nella quale il suo corpo si trovava di nuovo imprigionato. […] Ricordò, per sua sventura, la voce di Odette mentre esclamava: “Ma io potrò vedervi sempre, sono sempre libera!”, lei che adesso non lo era mai, non lo era più!, il suo interesse, la sua curiosità per la vita di lui, il suo appassionato desiderio che Swann le concedesse di penetrarvi – aspirazione che allora, invece, egli temeva come causa di fastidiosi scompigli –; quanto aveva dovuto pregarlo perché si lasciasse portare dai Verdurin; e, ai tempi in cui la lasciava venire a casa sua una volta al mese, quanto aveva dovuto decantargli, prima ch’egli si piegasse, la dolcezza di quell’abitudine di vedersi ogni giorno che lei allora sognava, mentre a lui sembrava soltanto una piccola, noiosa calamità, e che poi lei aveva preso a detestare e aveva definitivamente interrotta, mentre era divenuta per lui una così invincibile e dolorosa esigenza. […] E Swann vide, immobile davanti a quella felicità rivissuta, un infelice che gli fece pena perché dapprima non lo riconobbe, al punto che gli toccò abbassare gli occhi perché non si vedesse che erano pieni di lacrime. Era lui stesso.

Marcel Proust, Un amore di Swann

Illustrazione di Grau-Sala.

Un amore di Swannultima modifica: 2021-05-10T12:20:03+02:00da ellen_blue

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