Daniel Halévy, quindicenne, sottopone al giudizio del compagno Marcel un suo componimento. Ne esce con le ossa rotte:
“E ora, mio caro Daniel, che mi hai obbligato a leggere questi versi pieni di talento, ma così penosi, fastidiosi e talvolta esecrabili, e a scrivere queste inezie, ti dico ouf, poso la mia penna da critico, tolgo la mia maschera da pedante. Spero che non abbia lasciato segni, e che tu non me ne voglia. Ti stringo la mano, ma non dare a ciò troppa importanza. Ma soprattutto non ho alcuna opinione su questo genere di cose. Non mi apportano piacere alcuno, e allora non posso dire che siano belle, non essendo ancora giunto a farmi un’estetica. E poi c’è altro. Insomma credo che sia un lavoro scadente. Per aver la coscienza tranquilla, mi riavvolgo nella mia veste [di critico] e ti dico: Ragazzo, leggete Omero, Platone, Lucrezio, Virgilio, Tacito, Shakespeare, Shelley, Emerson, Goethe, La Fontaine, Racine, Villon, Bossuet, La Bruyère, Descartes, Montesquieu, Rousseau, Diderot, Flaubert, Sainte-Beuve, Baudelaire, Renan… Imparerete che se il vostro spirito è originale e potente, le vostre opere lo saranno solo nel caso siate d’una sincerità assoluta, e che il pastiche, il sacrificio ad una forma che vi piace, il desiderio d’essere originali sono altrettante forme un po’ nascoste, ma per questo più pericolose, dell’insincerità, e poi, ma è secondario, che la semplicità ha un’eleganza infinita, il naturale uno charme ineffabile…”.
D. Halévy, Pays parisien