La principessa di Guermantes all’Opéra

Ma fra tutti quei rifugi, alla soglia dei quali la non grave cura di discernere le opere degli umani conduceva le dee curiose e inaccessibili, il più celebre era il blocco di semioscurità conosciuto come “la barcaccia della principessa di Guermantes“.

Simile a una dea suprema che presiede da lontano ai giochi delle divinità inferiori, la principessa era volutamente rimasta un po’ sul fondo, su un divanetto laterale, rosso come uno scoglio di corallo, accanto a una vasta riverberazione vitrea che era probabilmente uno specchio e faceva pensare alla sezione perpendicolare, liquida e oscura praticata da un raggio di luce nel cristallo abbagliato delle acque. Piuma e insieme corolla, al pari di certe efflorescenze marine, un grande fiore bianco, lanuginoso come un’ala, scendeva dalla fronte lungo una guancia della principessa, assecondandone la curva con morbidezza carezzevole, amorosa e viva e quasi, in parte, racchiudendola, come un uovo rosato nella dolcezza di un nido d’alcione. Sulla chioma della principessa si stendeva – e s’abbassava fino alle sopracciglia, ed era ripresa poi più giù, all’altezza della gola – una reticella fatta di conchiglie bianche, di quelle che si pescano in certi mari australi, cui erano mischiate delle perle, mosaico marino appena uscito dalle onde e a tratti sprofondante nell’ombra in fondo alla quale, tuttavia, la scintillante mobilità degli occhi della principessa rivelava, anche allora, una presenza umana. La bellezza che la innalzava ben al di sopra delle altre favolose figlie della penombra non era iscritta per intero, materialmente e inclusivamente, nella nuca, nelle spalle, nelle braccia, nella figura della principessa. Ma, incompiuta e deliziosa, la sua linea era l’esatto punto di partenza, l’ineludibile avvio d’una serie di linee invisibili, addentrandosi nelle quali l’occhio non poteva fare a meno di prolungarle, meravigliose, scaturite intorno a lei come lo spettro d’una figura ideale proiettata sulle tenebre

M. Proust, La parte di Guermantes I

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori

La contessa Elizabeth Greffulhe, uno dei modelli per la principessa di Guermantes

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Una contessa per Proust

A Marienbad, il direttore del Grand Hotel notò che il maître stava sistemando uno stravagante numero di paraventi sulla scalinata, e fin dentro il salone del ristorante. È per la contessa Greffulhe, che viaggia in incognito, si giustificò il maitre. Nonostante l’incognito, la contessa e il suo seguito spesero in quel soggiorno sessantamila franchi. Il marito accennò a una rimostranza. Che volete che ne sappia di denaro, ribatté la Greffulhe, non ne ho mai avuto. Da ragazza, quando era ancora Elisabeth di Caraman-Chimay, i giovani delle famiglie principesche, antiche e gloriose come la sua sapevano di non potersi permettere una moglie priva di fortuna; e ai balli il principe di Ligne, che doveva mantenere il mitico giardino rococò di Beloeil creato dal suo avo, per non comprometterla evitava di accostarla. I sei fratelli Caraman-Chimay dovevano sistemarsi. Una sorella, cancellandosi, e assumendo lo sguardo di un lama, divenne la squisita e discreta dama di compagnia della regina del Belgio. Un fratello, Joseph, il cui incarnato, che declinava le infinite sfumature del rosa, fu consegnato all’ eternità dal pittore mondano Jacques-Emile Blanche, sposò un’ ereditiera americana, Clara Ward. Purché non sia negra, si preoccupava una zia. Era di fatto una bellissima e solida fanciulla troppo truccata, che scappò qualche anno dopo con il butterato violinista zigano dell’orchestrina di Maxim’s. Per Elisabeth, si trovò il conte Greffulhe. La famiglia era recentissima. Banchieri protestanti arricchitisi durante la Rivoluzione, avevano aiutato gli emigrati, che li avevano accolti nella società aristocratica francese. Con i suoi occhi tondi, fissi e chiarissimi, e la bionda barba squadrata, il conte Henry col tempo prese a somigliare a un massiccio e altero gufo. Ma all’ epoca in cui conobbe Elisabeth aveva 29 anni, era esuberante e mondanissimo, e viveva in un lusso prodigioso. In quattro mesi, il matrimonio era combinato; a Saint-Germain-des-Près, nel 1878, la diciottenne Elisabeth de Caraman-Chimay diventò la contessa Greffulhe, il nome con cui soggiogò Parigi. Ma alla fine la chiamarono la demi-Guermantes, per aver prestato i suoi tratti a metà con l’ amica che discendeva dal divin marchese de Sade, Laure de Chévigné alla duchessa Oriane e alla principessa della Recherche proustiana. Eppure la Greffulhe non comprese mai veramente che Marcel Proust era il memorialista della civiltà in declino di cui volle rappresentare la più radiosa e superba delle incarnazioni. All’impresa di trasfigurarsi nella più splendida e mitica delle gran dame di Francia, si dedicò come a un sacerdozio, impegnando tutta l’energia, l’entusiasmo, lo stupore e la tenerezza lasciate inattive da un marito totalmente distratto. Dicevano che, come Salambo, si mostrava alla folla solo in cima alla scala o circondata da re, se ce ne erano, da ambasciatori e da ministri comunque; non la si incontrava più spesso dell’arcivescovo di Parigi, perché compariva solo dove presiedeva. La sua folgorante visione lasciava il sentimento di un sogno o un’allucinazione, perché improvvisamente svaniva. La Greffulhe era perfettamente virtuosa, ma il marito, che la rese la donna più tradita di Francia, era gelosissimo, e le imponeva di rientrare alle undici e mezza. So bene quanto Eroismo possa richiedere la Bellezza, le scrisse Proust, che vedeva come la sua grazia assimilasse l’essenza misteriosa del passato, versandone col gesto, da un’urna irripetibile, le ceneri. Ritenendo che anche la letteratura dovesse concorrere all’epopea della sua bellezza e del suo ceto, la Greffulhe aveva pensato invece di rivolgersi a Edmond de Goncourt. Una sera, volgendo verso lo scrittore i neri riflettori dei suoi occhi, la contessa gli suggerì di scrivere un romanzo sulla dama del gran mondo, un’opera che mancava alla letteratura francese, e che solo lui poteva fare. E intanto, con l’abito nero scollato e i capelli sollevati da un alto fermaglio di tartaruga bionda, che una corona di biglie trasformava in un pettine araldico, la Greffulhe disegnava per lui le pose e l’attitudine leggermente arrogante del modello che gli dava da dipingere. Goncourt, ammaliato dall’apparizione, che con semplicità gli raccontava con quanto piacere leggesse i suoi libri, giurò da quel giorno che la contessa era coltissima. E rimase sconcertato, tre anni dopo, nel giugno 1894, quando gli piombò in casa, seguito docilmente dalla Greffulhe, Robert de Montesquiou. Discendente dai re merovingi e imparentato con l’intero Faubourg Saint-Germain, il conte Robert, modello dell’eroe decadente des Esseintes e più tardi del barone Charlus, si definiva per il suo portamento squisito un levriero con il cappotto. Era cugino della Greffulhe, e suo complice nella gioia stupefatta della superiorità, della loro grazia imperiosa. Solo voi, e il sole, mi capite, gli aveva detto un giorno la Greffulhe. Sono contento che ci abbiate messo in quest’ordine, aveva ribattuto Montesquiou. Irrompendo in casa Goncourt, il conte Robert aveva esordito come un imbonitore decantando il grande talento letterario della cugina. La contessa aveva scritto pagine notevolissime sugli stati d’animo di una dama del gran mondo, e bisognava pubblicarle. Lui era lì per pregare Edmond de Goncourt di vagliarle e scrivere una prefazione non poteva rifiutarsi. Goncourt non rifiutò. Era incuriosito; e nei giorni seguenti si dispose a leggere i sei piccoli quaderni rilegati in marocchino verde reseda, che forse avrebbero aperto un nuovo sguardo sulla società aristocratica. Rimase esterrefatto. Lesse il diario intimo di una donna che un abbandono sentimentale possibile si trattasse del marito, quell’uomo così comune? induce a mordere la terra contorcendosi, per poi affrontare, superbamente incontaminata, il bagno della mondanità. Si snodavano allora infiniti esercizi di autocompiacimento: forse, anzi certamente, verrà un giorno in cui non conoscerò più l’invasione della gioia folle e soprannaturale di sentirsi bella. Che trasfusione di sangue questa comunicazione con gli occhi di una folla! Come vivere, quando non si può provocare questa grande carezza anonima? Con infinita precauzione, Goncourt scrisse alla Greffulhe, sconsigliandole la pubblicazione di pagine che potevano suscitare molti pettegolezzi sulla sua vita sentimentale, e tanta gelosia per i suoi trionfi sulla grande scena parigina. E si augurò cordialmente che la contessa seguisse il suo consiglio. I diari rimasero inediti. Ora una pronipote della Greffulhe, Anne de Cossé Brissac, ha studiato la sua immane corrispondenza e le note di diario, e l’ emozionante biografia che sarà tra poco in libreria in Francia (La comtesse Greffulhe, Perrin, pagg. 262) carica di nuovi sensi lo sguardo enigmatico, e perentoriamente moderno, della regina del Faubourg Saint-Germain. Nella ricca ricostruzione della Cossé Brissac, è restaurata una rete di usi sepolti dal tempo; l’anno ritmato tra la residenza parigina, da gennaio a luglio, e la campagna. A Parigi, sono i rituali della vita mondana, le carte da visita di mille colori che scivolano da tutte le fessure, inondando il palazzo, e che si depositano per tutto il Faubourg, con una piega sull’angolo se non ci si è limitati a mandare un valletto, ma si è passati di persona. Dalle feste di fine anno alle corse di Auteuil, sono le incessanti occasioni che fanno dire a una signora, sopraffatta dagli impegni: da oggi, elimino i funerali. E da settembre a fine anno, è la stagione della campagna. Le cacce a Bois-Boudran, il castello dei Greffulhe, sono le più famose di Francia; vi partecipano sovrani e gentiluomini in un clamore di cani, nitriti e calpestii di orde di cinghiali. La caccia, scoprirà con stupore Elisabeth appena sposata, è la massima passione del conte Greffulhe e della sua famiglia, di cui governa la vita; la sua unica figlia si sposerà un 14 novembre 1904 tra l’ apertura delle pernici e quella dei fagiani. Una foto la mostra, quel giorno, mentre scende la scalinata della Madeleine, al braccio del consuocero, il duca di Gramont, avvolta nell’abito d’oro bordato di ermellino che ne esaltava, con la consueta, squisita teatralità, la bellezza di granito; negli occhi, ha una luce napoleonica, che non si vela della distratta certezza degli aristocratici del secolo passato. In un tempo come il nostro, si esiste solo per la propria personalità. La nostra casta non esiste più, scriveva al marito. Sulla scogliera di Dieppe, sotto la guida del pittore Helleu, la Greffulhe disegnava; in campagna faceva traduzioni con Montesquiou, e a Parigi fotografie con Paul Nadar. Seguiva alla Sorbona le lezioni di Marie Curie, cui ottenne, con amicizie e sottoscrizioni, il grandioso Istituto della rue d’Ulm. Come creatrice e presidentessa della Société des Auditions Musicales contribuì a lanciare in Francia Fauré, Wagner, i Balletti Russi. Al momento dell’ ondata antisemita dell’ affare Dreyfus, sfidò tutto il suo mondo, e partì per chiedere personalmente al Kaiser chi aveva tradito; forse una prova per scagionare l’innocente capitano. Mentre il suo ambiente e la stampa si accanivano contro di lei, con grazia sovrana prendeva accordi con la cameriera per il viaggio a Berlino: Indispensabile grande cappello leggero, aureolante… Veli estivi, chiari, tre spessori differenti. Cinquanta metri ciascuno, avvolti su un rotolo si piegano sempre, è orribile. Tra le carte della Greffulhe, c’è una lettera di Proust, del febbraio del 1920. Lo scrittore stava correggendo le bozze del Coté des Guermantes, e la implora di mandargli una fotografia. La vostra lettera, le scrive, mi ha fatto piacere e pena. Ero decaduto dal caro amico, a caro Signore e amico; e con l’ aggiunta dei distinti saluti credevo di non aver più gradini da discendere. Mi sbagliavo. Stavolta, è alla terza persona che mi fate sapere che la contessa Greffulhe eccetera. Ma la Greffulhe non mandava mai alle esposizioni i suoi ritratti, e non concedeva fotografie. Per rifiutarmela, una volta, avevate addotto un pessimo motivo, e cioè che la fotografia immobilizza e ferma la bellezza di una donna. Ma il bello non è forse propriamente questo, immobilizzare, cioè rendere eterno un momento radioso? È l’immagine dell’eterna giovinezza. Caro amico, rispose la Greffulhe, la lettera in cui constatate le gradazioni discendenti dei miei appellativi mi ha fatto sorridere. Non trovate che quando è trascorso molto tempo da che non si è più visto qualcuno che sa guardare, bisogna agire con precauzione, come si entra nel mare? Un giorno, poco prima di morire, Montesquiou comprese con grande stupore che l’immortalità non gli sarebbe venuta dai suoi versi fiammeggianti, ma da Charlus. La Greffulhe invece, pur essendo sopravvissuta lunghissimamente, fino all’età di novantadue anni, al mondo che la mitizzava, probabilmente non capì mai. Un appunto lasciato al segretario dice: Informarsi su chi possiede le memorie di Proust, in cui, sembra, si parla spesso di me. Sarebbe divertente leggerle…

di Daria Galateria

La principessa di Guermantes all’Opéraultima modifica: 2021-10-21T12:37:45+02:00da ellen_blue

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